Professione Lettore

di Marco Monina e Antonio Rizzo
Tratto da nostro lunedì
n. 3 – Libri

Solo delle cause perse
si può essere
partigiani irriducibili
Nicolas Gomez Davilaamaya

A volte ci diciamo che, se tutto il tempo che abbiamo passato a leggere dattiloscritti
di narrativa mediocre o infima, ma qualche volta anche buona e, più raramente,
molto buona, l’avessimo passato a leggere i classici, oggi, quasi quarantenni,
forse non potremmo dominare la letteratura universale ma la tratteremmo con assai
più confidenza di quanta non ne abbiamo.
Leggere dattiloscritti, libri che (forse) saranno: questo facciamo noi che lavoriamo
in editoria.

Vittorio Sereni, nel 1952, rispondendo a un lettore del settimanale Epoca,
disse che il nostro mestiere comporta “la quotidiana dispersione in lavori assunti
non di propria iniziativa, e di rado graditi, per le solite e ovvie ragioni pratiche”: memorabile.

Uno dei nostri maestri, Ferruccio Parazzoli, ci diceva, giusto l’altro giorno,
che “leggere dattiloscritti è un modo per avvelenarsi lentamente e, a un certo punto,
si è talmente intossicati che non ci si capisce più niente, diventa difficilissimo giudicare”.

Eppure la nostra responsabilità sarebbe spaventosa, la storia della letteratura
si fa dopo le scelte di noi editoriali. Quasi mai con la nostra consapevolezza,
ma quasi sempre si fa a partire dalle scelte che facciamo (o non facciamo) noi.
Dobbiamo allora tenerci discosti da tutti quei dattiloscritti che premono,
chiedendoci la decisione che li faccia esistere. Impariamo così l’arte del rifiuto
e ancor più quella della dilazione, della dissimulazione, del rimpallo.
Strategie di sopravvivenza.
Molto spesso non bastano le fatidiche righe iniziali, non bastano le prime due pagine,
a volte devi leggerne cinquanta, di pagine, prima di accorgerti che è un’opera morta
e per cinquanta pagine ha camminato come uno zombie. Camminava ma era morto.
Leggere dattiloscritti, insomma, è come attraversare il deserto, le oasi sono costituite proprio da quelle opere che due righe o due pagine al massimo bastano a far scartare. Allora si tira un sospiro di sollievo. Avanti un altro! Ma quando si è andati avanti,
quando ci si è inoltrati nella sabbia, ogni abbaglio, allucinazione, miraggio è possibile.
Qualcuno di questi miraggi può diventare realtà, celebrata realtà.
Gli altri restano dentro di noi, all’interno della nostra sensibilità di lettori (di dattiloscritti).

Il nostro amico Antonio Franchini su tutto questo ha scritto un libro, si intitola Cronaca della fine e l’ha pubblicato Marsilio. È una lettura da consigliare non solo a chi vorrebbe lavorare in editoria, ma soprattutto agli aspiranti scrittori, a chi i dattiloscritti li spedisce
in lettura.

Eppure. Eppure, c’è anche un’altra verità elementare. Quei dattiloscritti (la scrittura)
molto spesso rappresentano solo un chiuso bisogno, una necessità istintiva, dolorosa, irriflessa, sono solo un atto necessario che non porta niente se non a sciogliere un’oppressione, a sfibrare una pena. Ecco, questo non ce lo dobbiamo mai dimenticare,
o avremmo sbagliato mestiere.

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