al caffè della piazza

di Lucilla Niccolini
Tratto da nostro lunedì
n. 4 – Scataglini

Colloquio con Antonio Luccarini
Pomeriggio del 25 giugno 2004
Ancona, studio di Palazzo Camerata
(terza parte)

scataglini+leon ancona

Parlavate di poesia?
“Il rigore della poesia era tale che chiaramente non se ne poteva parlare a voce:
non poteva dividerla con altri, la poesia era la sua dimensione sacra. Filtrava tutti i rituali,
i sacrifici, la trasformazione della realtà attraverso la poesia.
Mi è capitato di dover spiegare da cosa nasceva la sua poesia. Ricordo che citai un verso – si accende la dalia gialla – per indicare la capacità di trasformare la materia, di salvare
le cose dalla distruzione, dal tempi e dall’opacità. Il territorio in cui viveva era quello
che era, ma ne riusciva a estrapolare un senso per cui davvero per lui tutto è corpo d’amore”.

Ogni uomo è pidocchio e dio insieme?
“La sua è la dimensione dell’uomo rinascimentale, in cui tutto si tiene.
E aveva una grande fiducia nell’arte”.

Ne parlavate?
“Ma sì, arte di ogni genere: si spostava continuamente da un motivo all’altro.
Era bello seguirlo in questi suoi itinerari di opinione. Nei consigli sul cinema, per esempio, era illuminante. Più che competente in senso stretto, era uno capace di darti letture straordinarie. De I cancelli del cielo di Cimino, me ne aveva fatto un racconto traslato, immaginifico: era un altro film, quando poi l’ho visto, ma aveva ragione lui.
Filtrava la realtà e le persone, le leggeva in una chiave sempre diversa da quella banale,
di tutti”.

Gli studenti videro in lui un veggente?
“Più che un veggente avevano trovato in lui un tesoro di sensibilità e di esperienze, un elaboratore di sogni. Ci avevano trovato soprattutto questo: un’offerta di senso, e parole che accendevano, illuminavano”.

E dopo?
“Quando è morto, la cosa che mi ha più impressionato sono state le loro lacrime.
Ho continuato a frequentare questi ragazzi, mi sono accorto che ne parlavano
con incantamento. Vedevano in lui non un maestro di saggezza, ma un dispensatore
di visioni altre”.

Don Juan?
A Luccarini non piace l’accostamento. “Un affabulatore attraverso racconti che non erano trame e intrighi, ma immagini. In versi esemplari, diceva, succede che riesci a dire quello che, dopo, ti rimane dentro anche staccato dalla poesia. Citava alcuni passi della Rosa
in cui era riuscito a raggiungere il verso esemplare per sintesi e musicalità”.

Ma parlavano la stessa lingua, lui e gli studenti?
“No, ma Franco non ha mai parlato la lingua di nessuno, neanche il dialetto. Certo che no, però per i giovani era importante che lui usasse un poetare che è sintesi della poesia
del Novecento, in cui però è fortissimo il sogno, la possibilità di vincere, o anche solo
di combattere contro l’usura e la perdita. Come per i giovani dovrebbe essere sempre viva l’onnipotenza del sogno, lo era per lui. Una poesia forte, solidale, fraterna”.

Giovane come loro…
“È difficile immaginare Franco da vecchio. Aveva sempre conservato quel suo incanto con cui guardava la vita e l’amore: era il poeta sempre innamorato. I giovani di solito
sono abituati a vedere gli adulti disillusi. In questo era molto vicino a loro.
Non aveva niente di casalingo e di consueto, niente di acquietato”.

Ma nemmeno poeta maledetto.
“Esatto, Franco non avrebbe mai tentato strade alternative, anche se era affascinano
da posizioni estreme. Era la poesia, la trasgressione della sua vita. Una vera ragione
di vita. Era questa la sua diversità. Una diversità che l’ha protetto. Era una persona forte, non rinunciava alle proprie vocazioni. Ha scelto il suo destino”.

E oggi, su che cosa appunterebbe la sua lingua benevola e tagliente?
“Sì, ma anche molto rispettosa. Non voleva essere definito e inquadrato, ridotto.
Non voleva sembrare un polemista. Ma temeva la strisciante banalità che i tempo preparavano. Però era che uno di quelli che affrontano tutto: andava oltre i tempi
e li travalicava, non si attardava a polemizzare. Diceva, questo sì, che la gente
non sapeva sentire il valore del verso, gli dispiaceva. E la volgarità lo preoccupava”.

Perché il dialetto?
“L’ha sempre detto, che del dialetto gli andava bene la novità. Erano i suoi suoni,
secondo lui, a esprimere bene quello che voleva dire, la malinconia, le mestizie.
Il dialetto per lui aveva la musicalità della condizione umana. Era alla ricerca
di una lingua che non fosse logorata dall’uso. Amava molto Montale, e come lui sentiva
la difficoltà di trovare una parola non consunta, che potesse avere una significazione pura. Per questo, il dialetto, come una lingua antica, mai più parlata: qualcosa fuori del consumo. Che per il dialetto, è un paradosso: la lingua dell’uomo della strada.
Ma quei suoni, per lui, non si erano mai imbarbariti. Ne ha fatto una lingua nuova, trasposta e non logora…”.

Si può dire che l’ha usata come fosse creta: grezza e duttile al suo gesto creativo?
“L’ha fatta diventare quel che voleva, ma senza trasgressione: lui era un poeta attaccato
a tutti i canoni poetici più classici, sentiva una forte suggestione della storia della letteratura, della lezione dei classici, delle loro visioni. Ha versi che ricordano la poesia latina, Catullo soprattutto. Lui quasi autodidatta, aveva amori lancinanti per la letteratura,
di cui la scuola spesso ci fa disamorare: per quello che a noi la scuola ci ha portato via”.

Agli studenti, e a noi, lui l’ha restituita, la capacità di sentire la poesia e il suono della sua tradizione, nella lente del suo verso, al ritmo nobile di una lingua che lui, da cenerentola,
ha fatto principessa.

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