Charles Wright A GIACOMO LEOPARDI IN CIELO

Se sei diventato un’idea eterna
che rifiuta ogni investitura nei nostri stracci rosa,
saggio al di là di corpo e forma,
o se dispensi altrove l’ostia di un diverso sole
in uno degli altri eteri,
da quaggiù
dove i nostri anni hanno fauci onnivore,
ascolta ciò che dicono queste parole di uno che ti ricorda.

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Il 17 luglio, in veranda
guardando tra le assi della balaustra e le foglie di palma
l’oceano senza orizzonte che manda segnali,
comincio a esumare dal marmo
interminati spazi, oltre,
silenzi così immensi da risuonare come vento,
come questo vento che mi sgomenta
con la sua calma
quando mi tira il lenzuolo della notte
sulla testa.
Com’è dolce annegare in acque così sicure.

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 Ogni volta che ti vedo
sul tuo fianco sinistro tra le nubi
che ci guardi,
le nostre lingue legate, gli amici tutti scomparsi,
i nostri cuori e i nostri respiri con l’aria che hanno esalato,
mi fai sentire amaro per l’essere così simile a te.

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Che giorno ho scattato questa foto in cui tu non hai alcuna parte?
1959, non una foglia sugli alberi, autunno inoltrato, Ponte Pietra sull’Adige.
Verona, primo mattino.
A che scopo il tuo breve aleggiare sul mio percorso?
Cerchi di cancellare le tue tracce
ma sei troppo lontano dalla terra.
Hai palpitato abbastanza.
Ogni cosa sulla faccia della Terra è degna dei tuoi rimpianti.

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Non venire mai alla luce è la cosa migliore, dici,
tu che fosti fatto per la gioia,
il tuo collo di gesso come una scia d’aeroplano nel cielo.

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Lo so che sei lassù, nascosto dietro la luce del mezzogiorno
e il cristallo dello spazio.
Quaggiù
nell’incedere furtivo e affannoso del giorno che ti attende
nel tuo abito nero e madreperla,
la posta arriva, l’immondizia se ne va,
le farfalle accoppiate
planano e si tuffano a capofitto in formazione,
le api seguono le proprie lingue
e in punta di piedi si affaccendano sul contorno
dei piumini di melaleuca,
succhiandone la dolcezza, il 27 luglio,
il colibrì addormentato sul suo ramo,
il ragno fermo nella fiamma.

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Leggevi, leggevi sempre,
vocale su consonante
poi tre passi verso le stelle,
e lì tu langui,
delineato in punti sfolgoranti e geometria solida,
epistola stracciata …

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 Tu ci danni, noi che vediamo il tuo volto.
Ci imponi il tuo dolore:
così fragile e gretto sempre,
com’è il nostro,
assale l’orecchio come fosse paradiso.
La luna sorge e cala,
risvegliata e poi spenta giù in basso.
Ti pieghi come un biglietto da visita ritraendoti dall’alba.
Tu ci danni, noi che vediamo il tuo volto.

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 È la mente non il corpo,
che ci sostiene e ci fa brillare una luce negli occhi:
se lo spirito è il nulla,
preferirei che la luce tornasse piuttosto che la luce si accendesse.

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Mezzogiorno, e tu sei di nuovo lì sull’altra faccia del cielo.
Due aquiloni hanno fatto il nido nella gonna secca
della palma
e graffiano la loro voce come unghie
sulle finestre dell’aria
quando sfarfallano giù, dita svelte, a cibare i loro pulcini.
Ti piacerebbe da questa parte, credo.
L’estate è ovunque, la tua favorita,
e il terriccio ancora si sfalda e cade come pioggia minuta dalla mano.
Il vento soffia dal mare.
Le ragazze sono belle e tutti sono tristi.

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La sera è limpida e incisa,
la luna come un LP d’oro
sulle case e sul boschetto di avocado,
e tu sei tornato,
ti libri oltre i ricami delle stelle,
un filo così fine da infilare.
Ti ricordi la pena di com’era per te,
la canzone di Teresa che grattava via la crosta dell’abrasione della tua gioventù
e dalla fine che si avvicinava
i giorni non abbastanza lunghi, e le notti non abbastanza lunghe
perché tu soffrissi fino in fondo?
Rifaresti lo stesso, scommetto,
e vivresti la stessa vita,
ombrello di carta sulla tua testa
per evitare la neve,
il colore della nevicata come tendaggi sui tuoi occhi.

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Non una sola parola s’è mai dissolta in gloria, non una.
Continuiamo a mandarle in alto, comunque,
così come il sole piove giù.
Tu stesso l’hai fatto,
tutte quelle notti con lo sguardo al cielo, col desiderio di essere là
lontano dalla pena di essere qui
nella carne sbagliata.
Ti devono sembrare buffe adesso,
si alzano come segnali di fumo nell’infinito,
la stessa lettera ripetuta di continuo,
la o maiuscola e la o minuscola.

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15 agosto, e dieci giorni
e 2500 Km da dove ci siamo parlati l’ultima volta, meno di un batter d’occhio
per te,
settant’anni nel passato per me
mentre il corvo vola e il clima s’infiamma.
E perfino qui, come la mano di chi sta annegando, la tua mano
indica da dietro le stelle
ancora senza precipitazione
l’Orsa e le acque scure
su cui ogni barca di carne issa le vele …
Una tal pena, e io volto pagina
su questo posto, costruito nel 1912
da qualcuno che non aveva mai nemmeno sentito il tuo nome
ma riconosceva il tuo volto nelle notti serene
su Mount Caribou
mentre tu ruotavi verso occidente, la bocca piena di stelle.

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 Non volevo dire altro.
Pensami di tanto in tanto, come io penso a te
quando la luna è una tacca dorata nel cielo estivo
sazio di luce:
tu sei parte delle mie parti del discorso.
Pensami di tanto in tanto. Io penserò a te.


( traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan)

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