Cinema d’essai

 

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nostro lunedì n.1 - scene

Massimo Raffaeli

Il cinema non era un cinema ma uno dei teatri ottocenteschi tipici delle Marche: platea da cento posti (sedie scomode, cigolanti) e file di palchi color panna, con la bordatura di velluto crèmisi, un gran lampadario rococò. La guerra l’aveva distrutto e la facciata era stata ricostruita in marmo fascista, come una stazione ferroviaria o il palazzo delle poste, alla Piacentini. Chiaravalle l’aveva utilizzato, nel tempo, per le compagnie di giro, i veglioni, i comizi, le premiazioni della Befana e i raduni delle associazioni benemerite. Era un cinema da seconde visioni e d’estate diventava glaciale, l’aria sapeva di rinchiuso e del tanfo delle sigarette. Ci andavano gli scapoli e i ragazzi del paese, dopo il biliardo e le carte. La domenica, molta gente di campagna e delle frazioni. Molti entravano a spettacolo iniziato, il cinema era un divertimento, uno svago, e nient’altro.

La locandina gialla che brandiva, un sabato del gennaio ‘72, Sussurri e grida di Bergman, annunciò anche un’improvvisa mutazione. I conflitti e il vento dell’antagonismo anni Settanta, insieme coi Cahiers du cinéma piombarono di colpo in un paese la cui base operaia e terziaria esprimeva giunte di sinistra ma molto moderate e non particolarmente illuminate. (Tuttora Chiaravalle è un luogo anonimo, brutto, il complesso dell’antica abbazia versa in cattive condizioni, è forse l’unico posto, in Italia, la cui piazza ospiti non i negozi e le botteghe ma squallidi retrobottega, e cassonetti). Il cineclub era diretta emanazione della biblioteca comunale, un buco sotto i portici.

Ci si andava non per leggere (i libri erano pochissimi) ma per discutere. Lì si concentravano quanti il paese non poteva e non voleva vedere: studenti, fricchettoni, cani sciolti, cristiani in fuga dall’oratorio, femministe, e chi semplicemente rompeva le scatole.

Il pubblico del sabato sera era lo stesso, presto integrato da gruppi di Jesi, Senigallia, Ancona, in genere malvisti in paese.

Il ciclostile della biblioteca serviva per la scheda del film; la formula era semplice: proiezione e dibattito. Lo coordinava Giorgio Candelaresi, professore di lettere e cinèfilo, il solo a non perdere mai la calma. A lui si deve pure la specializzazione del cineclub relativa al cinema italiano militante, e la presenza fisica dei registi al dibattito, per esempio Elio Petri, Ettore Scola, i fratelli Taviani, Gianni Amelio, Francesco Maselli.

I film erano i film ma erano anche altro, pretesti per discutere dello stato di cose presenti, di politica e società: il divorzio, l’aborto, il regime democristiano, il compromesso storico, la guerra del Vietnam, il golpe in Cile e la glaciazione sovietica. I dibattiti duravano ore, potevano virtualmente prolungarsi fino al sabato successivo. Non erano soltanto disordinati, ma appassionati, vi si avvertiva la necessità e l’urgenza dì prendere la parola, discutere, schierarsi. (Il senso comune rappresenta oggi quei ragazzi come scalmanati astratti e verbosi. Se paragonati ai muti teleutenti di adesso lo erano senz’altro). I registi spesso li subivano: alla proiezione di Matti da slegare, Marco Bellocchio venne quasi linciato da due infermieri del manicomio di Ancona: venuto a presentare un film poetico e difficile, E di Shaul e dei sicari sulle vie di Damasco, Gianni Toti fu fischiato; a Marco Leto, dopo la proiezione dì La villeggiatura, andò peggio: Giorgio Napolitano, presente in sala, uscì senza dire una parola e la settimana dopo un anonimo trafiletto su “Rinascita” si chiedeva come mai delle giunte di sinistra potessero promuovere manifestazioni anticomuniste. Il pubblico si collocava generalmente al centro, tra gli estremi del formalismo e del contenutismo. Con qualche paradosso retrospettivo: un maestro elementare di Senigallia, la barba e l’eskimo, si distingueva negli interventi per la foga populista e il colorito dialettale (oggi è il senatore Pieroni, nel cui eloquio sono compresi i più sofisticati artifici retorici); un altro, giovanissimo e saccente, esilarava la platea citando di continuo Galvano della Volpe, lo “specifico filmico” e André Bazin (oggi è il sottoscritto, un critico letterario invece molto sospettabile di ruvidezza e schematismo ideologico). Tuttavia, nessuno era disposto ad accettare il cinema come fiction, ed evasione, tanto meno a tollerare la mitologia di attori e registi. In questo il cineclub (o meglio il cinema d’essai, così allora si chiamava) era un luogo civile, in senso etimologico uno spazio della cittadinanza. Finito sul principio degli anni Ottanta, di colpo, come era cominciato: quando Giovanni Spagnoletti venne a presentare L’amico americano di Wenders, in sala c’erano meno di venti persone. Stop, e poi tutta un’altra storia, quella che sappiamo e ci porta fino a qui. Non si tratta di rimpiangere niente. è che quando si sente ripetere lo slogan di Nanni Moretti (… No! Il dibattito no!…) sul serio viene voglia di tornare indietro. Di rimettersi a urlare. (Il teatro di Chiaravalle è stato restaurato di recente, continua a non essere bello ma può sembrare chic. Da molto tempo non è più un cinema, e non ne esistono altri in paese. Cinque o sei volte l’anno ospita le compagnie di giro, proprio come negli anni Cinquanta).

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