cos’è un maestro

massimo raffaeli
tratto da nostro lunedì numero 4 – prima serie – scataglini

ART 25
disegno di Franco Scataglini

A vent’anni scrivevo poesie come  tutti, più o meno. Erano brutte poesie, o meglio poesie straordinariamente elaborate, oscure, complicate. Leggevo e rileggevo i poeti di qualunque epoca, e ogni tanto ne scrivevo di mie. Mi piaceva farlo, pure se mi stremava.
Tendevo a considerare una riuscita la loro complessità, il tot di fatica che richiedevano
nel decifrarle, posto che davvero fosse possibile dedurne un senso. Avevo intitolato
la mia raccolta inedita (in realtà scrivevo a mano su un quaderno scolastico con la spirale) Rime petrose, pomposamente, per il semplice fatto che la lezione di Gianfranco Contini
(di cui leggevo con avidità gli scritti per averlo sfiorato a Firenze studiando alla Laurenziana un manoscritto per la mia tesi di laurea) imponeva al neofita che io ero soggezione immediata alla linea dell’ espressionismo e dello sperimentalismo, dunque a Dante, Campanella, Tommaseo, giù  giù fino a Rebora e Montale. Alcune poesie le avevo pubblicate, con l’incoscienza appunto dei vent’anni, fra il ’78 e il 1980, su due riviste:
un primo gruppo su Città futura (il settimanale dei giovani comunisti, con una nota incoraggiante di Roberto Roversi) e un secondo col soccorso di Gianni D’Elia in Le Porte, un fascicolo redatto a Bologna, la città dove avevo studiato, da Gianni Scalia.
(Un altro testo, scritto su commissione, mi era stato pubblicato da Paese sera il giorno dopo la strage di Bologna del 2 agosto ’80. Aveva un titolo stupendo, purtroppo non mio, cioè Ho sognato di essere vivo: era la frase di un sopravvissuto ancora sotto le macerie, ascoltata alla radio). Intanto, nel settembre del ’79, avevo conosciuto Franco Scataglini
e subito avevo cominciato a frequentarlo, a collaborare con lui. Gli chiedevo di continuo
un giudizio sulle mie poesie, lui pareva avallarle ma nella sostanza non si sbilanciava,
anzi non si pronunciava; così, mi sorprese il fatto che accettasse la pubblicazione
di un terzo gruppo di liriche nella plaquette a sei mani Da una città (Il lavoro editoriale, 1981) a firma innanzitutto sua e di Francesco Scarabicchi: quelle del sottoscritto
erano particolarmente ermetiche, intarsiate, il loro significato si voleva premonitorio però, alla lettera, sfuggiva anche a me. Eppure credevo di avercela fatta. Solo la reticenza
di Franco e i suoi silenzi imperscrutabili mi davano inquietudine. Cominciavo ad avvertire impercettibilmente che quei versi non lo persuadevano, che qualcosa non andava,
e che stava cercando le parole o il pretesto per dirmelo. Intanto aspettavo, ero ansioso
e non avevo modo di confessarlo nemmeno a me stesso.
Finchè un giorno, all’improvviso, e non c’entrava nulla col discorso che stavamo facendo, si alzò dalla poltrona del suo vecchio studio a metà di via Pizzecolli (fuori c’era un tramonto incandescente, entrava dalla finestra una luce bellissima) , e mi diede da leggere
una pagina che ignoravo, mettendomela proprio sotto il naso. Si trattava della più folgorante tra le Scorciatoie di Umberto Saba : “ MALLARMÈ E LA MUSA.
Quando non si può entrare in  profondità, si complica e si nasconde. è umano
ma non nascono figli.” Non c’era altro da aggiungere, l’aforisma  diceva tutto.
Giorni dopo mi arrivò una sua lettera, come al solito dattiloscritta, che  fu  una disperazione e insieme la liberazione. Era una lettera durissima, spietata, onesta: mi diceva
che quei versi gli restituivano l’immagine di “borchie gelate come dentro cucchiai d’acqua”, che erano decisamente dotti, che non sfiguravano. Però aggiungeva che non risuonavano da nessuna parte, che lui non ne sentiva la fondatezza o l’intima necessità.
Insomma essi parlavano, cantavano il loro canto oscuro ma non “dicevano”, né sapevano vibrare. La lettera aveva un poscritto dove mi ricordava la tipica e precoce attitudine
a puntare il dito tenendo lezione alla realtà, ma dove mi rammentava altrettanto che
la realtà non tollera lezioni (semmai, viceversa) e meno che mai da simili lezioni può scaturire la poesia, la quale si origina invece dall’ascolto, dall’apertura, dall’assoluta messa a rischio di sé. Ci sono stato da cani, per dei mesi, mi sono sentito ingiustamente giudicato, sottovalutato, annientato. Stavo male, molto male, e tuttavia non riuscivo
a volergliene. Fatto sta che da allora, smaltendo via via la sofferenza, non ho più scritto poesie, neanche di quelle che devono restare segrete. Ho continuato a leggere le poesie degli altri, poi a studiarle, e a scrivere di esse. Infine il dolore non l’ho più sentito; la ferita che prima sanguinava si è presto cicatrizzata irrorandosi con le parole che sentivo volta
a volta più prossime, fraterne, e non importa se di altri.
È così che sono diventato un filologo, per etimologia e per forza .
Lo debbo a Franco, alla sua vicinanza e al suo affetto, grande e spietato.
Questo oggi lo so bene, anche se è troppo tardi per dirglielo, per ringraziarlo.

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