Lo scintillio

 

 

libri

nostro lunedì n.3 - libri

Umberto Fiori

Se penso ai libri che hanno influenzato la mia vita, la mia storia, il primo che mi viene in mente è un volumetto di poche pagine, un’edizione per ragazzi della Divina Commedia con le illustrazioni di Doré, che un amico di famiglia mi regalò per il mio decimo compleanno (1959). Quel regalo fu il primo contatto diretto (non scolastico, voglio dire) con la poesia, e mi inorgoglì come un’investitura.

Imparavo a memoria terzine e terzine, contemplavo per ore Caronte scarmigliato sulla sua piroga, Minosse con la corona in testa, la coda avvinghiata ai muscolacci da lottatore. Di lì a poco (avevo dodici anni) qualcun altro mi regalò gli “Ossi di seppia” e “Le occasioni” di Montale, nell’edizione dello “Specchio” Mondadori, che allora (primi anni ’60) era – anche graficamente – splendida. Tutto mi piaceva in quei libri: i vasti bianchi della pagina, lo spazio tra il titolo e il testo, i caratteri. Montale me l’aveva già fatto conoscere la mia insegnante di lettere delle scuole medie (una donna eccezionale che oltre a Omero e Catullo, Carducci e Pascoli, ci faceva leggere i poeti contemporanei, italiani e stranieri), ma per la prima volta lo avevo lì, per intero, tutto mio. Dei versi, ovviamente, capivo quel poco che può capire un ragazzino di quell’età: non c’erano note a soccorrermi, e nulla sapevo di Annetta-Arletta, di Boutroux e compagnia. A sedurmi – in quel corpo a corpo col testo – era la corrispondenza tra la materia austera e sensuale delle parole degli “Ossi” (il mio Montale preferito, ancora oggi) e il paesaggio del Levante ligure, nel quale ero cresciuto. In quelle pagine sentivo la presenza delle cose più familiari (agavi, scogli, greti, muretti, isole, mare) vibrare e farsi più vera in una lingua che era la mia lingua, ma come lievitata, radiante. Il suono e il ritmo di quella rappresentazione, di quella ri-presentazione del mondo, mi hanno formato da capo a piedi. Se ho un po’ di orecchio, è di lì che viene. Un altro libro-chiave per la mia formazione poetica è quello “di ferro vestito” di Mallarmé, che avevo scoperto al ginnasio (grazie a un’altra insegnante straordinaria), ma che mi investì davvero soltanto a vent’anni (1969), quando dovetti preparare (primo anno di Filosofia, docente Sergio Antonielli) un esame di Storia della letteratura italiana (il seminario su Mallarmé aveva un solo partecipante: il sottoscritto). Di fronte alla “Prose pour Des Esseintes”, all’”Après-midi d’un faune”, al “Coup de dés” – letti attraverso Blanchot: “L’éspace littéraire”- ero incantato e sgomento (ancora oggi li rileggo con circospezione). Incanto e sgomento erano centuplicati dall’incontro, negli stessi anni, con altri libri per me decisivi, ma diversissimi: quelli di Marx – dalla ”Miseria della filosofia” alla “Critica dell’economia politica” – che proprio allora la nostra generazione andava riscoprendo. Cerco di ricordare quali altri opere, negli anni successivi, abbiano costituito per me una svolta e mi vengono in mente soprattutto testi filosofici o parafilosofici: la “Filosofia nel boudoir” di Sade, “Angelus novus” di Benjamin, la “Teoria estetica” di Adorno (che funestò la mia giovinezza e i miei conati creativi come un arcignissimo grillo parlante), ma soprattutto “Aut-Aut” di Kierkegaard, che avevo già studiato, naturalmente, ma che solo verso i trent’anni mi si è rivolto. è stato forse il primo libro che mi abbia dato la sensazione di chiamarmi in causa non solo in veste di lettore studioso, ma per intero e fino in fondo, come “singolo” (per usare un termine kierkegaardiano). Lo stesso effetto mi fecero, pochi anni più tardi, le opere di Nietzsche, di Wittgenstein (il “Tractatus”, ma soprattutto le “Ricerche filosofiche” e “Della certezza”), quelle di Heidegger (i “Saggi e discorsi”, “Sentieri interrotti”, “Essere e tempo”) e di Bataille (“L’erotismo”, i romanzi). Anche in questo caso, si trattava per lo più di libri che avevo accostato all’università, ma sempre attraverso lenti deformanti come quella di Lukàcs (“La distruzione della ragione”). Rilette fuori dall’ambito accademico e da un certo contesto politico, in un momento tra i più difficili della mia vita, queste pagine mi sfidavano, mi trapassavano, mi costringevano a buttarmi nelle domande senza più il paracadute dell’ideologia. Fondamentali per la formazione di un mio ideale di poesia sono poi le “Fleurs du mal”, che cominciai a rileggere e a tradurre fra i trenta e i quarant’anni. In Baudelaire mi conquistava – a questa tardiva rilettura – soprattutto la centralità delle immagini, la costruzione del testo attorno alla semplicità potente di una figura – i ciechi, la passante, il cigno, i sette vecchi -, la concentrazione del senso in una presenza visibile, in una scena memorabile. Un altro autore riscoperto in età non più giovane è Kafka: i racconti, i romanzi e – non ultimi – i frammenti filosofici. Era come se la mia uscita dall’età illusa illuminasse di luce nuova quelle immagini risapute, le riempisse improvvisamente di senso. “Il processo” e “Il castello”, mi insegnavano la distanza nella quale abitiamo, la scissura che allora mi si faceva sentire più dolorosamente che mai. Nelle “Indagini di un cane”, nei capricci della topolina-cantante Josefine, le mie inquietudini prendevano finalmente una forma riconoscibile. Anch’io – come tutti – ero l’uomo di campagna fermo di fronte alla porta della Legge. I libri da ricordare sarebbero molti altri, dalla “Waste Land” di Eliot alle “Elegie duinesi” di Rilke, dal “Faust” di Goethe alle “Poesie statiche” di Benn, ma l’elenco rischierebbe di diventare prolisso e troppo ovvio: come si vede, sono un lettore di gusti ben poco eccentrici. Un lettore “a scoppio ritardato”, di stomaco lento, ruminante. I grandi libri mi esplodono dentro quando altri li hanno da tempo digeriti e archiviati. Ancora oggi sento sprizzare, laggiù, la lunga miccia di mille scontatissimi capolavori. È questo scintillio che mi tiene sveglio.

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