Roma e non più Roma

città

nostro lunedì n.5 - città

brano di Andrea Cortellessa
tratto da nostro lunedì n. 5 – Città – Prima serie

Roma / è come / Amore /. (Ne è infatti un anagramma.) Dice di quest’ultimo lessema, Manganelli appunto in Amore, che il continuo pronunciarlo tende a smaterializzarne il referente. Come fosse un mantra. Ed è dunque parola per eccellenza, parola quintessenziata: Amore. Che cos’è / Amore /, se non quelle tre ipnotiche sillabe? quella nasale e quella liquida rotacizzata, quelle vocali fra loro così diverse, all’ingresso e in uscita – sempre pronte a coniugarsi, nei versi dei poeti, nelle più diverse, musicali sinalefi? Non diversamente mi si polverizza nella memoria, / Roma /, ogni volta che compilo uno stampato, alla voce residenza. Si fa puro suono, affrettata e sciatta ecolalìa, / Roma /, se rispondo a chi mi chiede di dove sei?

Nella mia mente d’improvviso cancellata non c’è più, allora, Piazza Navona, non c’è il Mandrione, non c’è Campo de’ Fiori, non c’è il Coppedè, non lo Zoo di Parioli, non il Colosseo Quadrato, non Muro Torto, non Piazza del Popolo, non San Lorenzo bombardata, non l’astronave bizantina di San Paolo fuori le Mura, non la rampa dell’Aracoeli, Monteverde Vecchio, il suk all’Esquilino, il Bowling sul Tevere, le case rosse a Garbatella, Borgo Pio, il Gazometro all’Ostiense, i tetti-viscere di Scipione, il silenzio a Casal Palocco, le foglie secche di Viale Pilsudski, la Minerva urlante di Martini, l’Augusteo sprofondato, l’universo di plastica del Leonardo da Vinci, il Pie’ di Marmo a Santo Stefano del Cacco, i Tabernacoli e i Greppî, il caracollare della Circolare a Centocelle, sempre azzurro Castel Sant’Angelo, Piramide Cestia ventosa, le frasche accoglienti sotto la curva dello Stadio Flaminio, i trompe-l’oeil di Piazza del Gesù, i marmi muti del Foro Italico, il vuoto luminoso dell’Eclisse. Sparite nel nulla Scale Sante, Estasi di Sante Terese, Macchine da Scrivere. Bersaglieri Corviali Colonnati Spinaceti Punti Magici Tritoni Obelischi Basilischi.

Per secoli Roma ha coltivato, in un’anarchia solo apparente, la propria estensione longitudinale, il proprio mostruoso dilagare a raggiera. E poi, per decenni, ha sapientemente sabotato ogni ipotesi di trasporto pubblico (coi suoi infiniti strati di monumentalità sedimentate, dimenticate, riscoperte, a tutti gli effetti inventate da ingenue trivelle di impossibili metrò; coi suoi inflessibili guardiani, Sovrintendenti ai Beni Archeologici più misteriosi e inaccessibili d’un guerriero etrusco a Valle Giulia…), e infine, in convulsi magma di lamiere – mattutine e poi serali e poi felicemente perpetue –, di trasporto tout court. Così, molto più di Londra o di Los Angeles, Roma ha saputo guadagnarsi lo statuto mitico di città multipla.

Se sei del Tiburtino sei profondamente, antropologicamente, topograficamente straniero: rispetto a un Pariolino. Siete proprio di due razze diverse: e vi guardate con diffidenza, sospetto, odio atavico e segreto.
Se nasci e cresci in periferia – in una delle Cento fra loro riottose e diversissime Periferie –, alla Città delle Cartoline, di Goethe e Stendhal, Gogol’ e Henry James, puoi recarti, certo; ma è esattamente – in termini di spaesamento geografico e investimento esistenziale – come andare a Firenze. Per procrastinare il momento del suo sbriciolarsi definitivo, il Sovrintendente Etrusco l’ha per tempo recintata, la Città Cartolina, con un’invisibile muraglia di fotocellule. Che possono aggirare i Romani Padroni, fieri Cives con Permesso di Circolazione. Che lasciano fuori dal limes, invece, noi Sub-Romani del Laurentino della Bufalotta della (appunto) Subaugusta. È più che giusto, crolla il capo l’Etrusco.

E noi d’accordo, fuori, a invecchiare e morire tra lamiere graffiate e abbrunati parapetti. Ma certo, bisognava capirlo dalla parola. Rispetto ad / Amore /, / Roma / è aperta sì, ma solo in uscita: da dove dilaga da sempre, infatti, la sua luce. Mentre all’entrata ruggiscono, invalicabili, le fauci d’un mostro di fuoco.