Per Valeriano Trubbiani

Gli anni dei giorni, Valeriano, vanno,
della gentile vita, ad ardere nel fuoco,
nell’eterna fucina che non spegne
fiamma di brace e sogno.
Così le forme che abitano il tempo,
luce del buio più infinito e chiuso,
se appena lascia uno spiraglio al vento
che quel chiarore invita
a illuminare l’aria d’ogni nome.

Gli anni dei giorni, Valeriano, vanno,
ma un po’ si attarda la domanda persa,
quel chiedere ostinato in riva al senso,
l’interrogare che non ha mai fine,
il bussare alla porta che non s’apre,
l’insistere tenace, arreso niente
che guida i passi verso abisso e sponda.

Per cosa questa fede che non smette,
il bagliore che guida nella notte,
il lume tremolante di fiammella?
Per chi, se attorno è vuoto e bianco,
ovale di cornice senza volto?
Per l’unico destino che ci tiene
legati ad una sola dedizione.

 

Francesco Scarabicchi

 

 

 

III – Lena

Intina da almeno cinquant’anni
vive intrappolata
nella coscienza di una bambina.
Tutto il giorno
vaga tra i padiglioni
abbracciando una bambola
come se fosse l’unica erede
della sua estraneità…
la domenica pranza con noi
esile come una creatura innocente
si ciba d’incanto…
parola dopo parola
diventa sempre più libera
di abitare il suo poema apatico
ma pieno di bambole e silenzi
che pettinano l’ira impavida
dei suoi coinquilini…
la sua follia ha una logica
che la proietta nella libertà:
ha scelto di non essere donna
per contenere l’odore infernale degli uomini.

Fernando Lena
da “La quiete dei respiri fondati

librolena

Fernando Lena è nato a Comiso (RG) nel 1969 dove vive e lavora.
Diplomatosi all’Istituto d’arte ha fatto per alcuni anni l’orafo.
La poesia è stata sempre una dominante nel suo cammino esistenziale abbastanza tortuoso ,in vari periodi di silenzio editoriale ha pubblicato due libri fondamentali
e qualche silloge, il più recente a parte quello edito dalla Archilibri dal titolo
Nel Rigore Di Una Memoria Infetta“, è un poemetto edito Nei Quaderni Dell’Ussero
(Puntoacapo editrice) “La Quiete dei Respiri Fondati” è presente in alcuni blog
ed è stato finalista in premi (Tivoli Europa Giovani, Astrolabio, Vola alta la parola, Torre Dell’Orologio ecc..)

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Fra la gente del sabato

Francesco Scarabicchi
da Il cancello 1980-1999
Luca Sossella Editore, 2012

 

Fra la gente del sabato

Nel freddo alla fermata,
solo come chi attende,
a lungo ti ho guardata
fra la gente del sabato
passare illuminata
dalla luce che in me,
nel farti vera,
ti ha seguita lontano
e poi si è spenta.

 

Opera: Amalasunta, Licini

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L’immagine

Francesco Scarabicchi
da Il cancello 1980-1999
Luca Sossella Editore, 2012

 

L’immagine

Di te resta l’immagine
bionda che dal cancello
ridi stringendo in mano
un fiore d’oleandro,
un’istantanea d’album
che tengo cara
ora che tutto è andato
così come scompaiono
i treni nel silenzio.

 

Opera: Il convegno, A. A. Alciati

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Voltato

Francesco Scarabicchi
da Il cancello 1980-1999
Luca Sossella Editore, 2012

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Adele

Francesco Scarabicchi
da Il cancello 1980-1999
Luca Sossella Editore, 2012

 

Adele

Quasi tutti entrati,
seduti o in piedi,
ad ascoltarle il cuore
che lento congedava
sé dal mondo.
Si assopì
nella sua camicia bianca
pulita come il pane,
la testa reclinata
verso la porta verde.
Qualcuno, in silenzio,
pensò alle persiane.

 

Opera: Danae, Klimt

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La cristalliera

Francesco Scarabicchi
da Il cancello 1980-1999
Luca Sossella Editore, 2012
La cristalliera

Ci si rammenta, a volte,
di un nome, un volto
còlto dalla memoria
con tac d’interruttore,
lui che ragazzo
giuoca agli indiani
e solo per errore
con il gomito infrange
la cristalliera ad angolo;
in ginocchio raccoglie
i frantumi di vetro
e chi lo scruta avverte
l’appena bisbigliato
come tornare indietro?

 

Opera: Ritratto della signora Simboli, G. Balla

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Sabato con pioggia

Sabato con pioggia

Leopardi era una collina. La indicava mio nonno nel paesaggio, individuandola fra altri villaggi con i monti sullo sfondo e una riga di mare di lato.
“Lo vedi Loreto?”
“Quello con la cupola?”
“Più a destra c’è Recanati. Lì è nato Leopardi, aveva la gobba, ma è stato il più grande poeta d’Italia”.
Un coetaneo da Roma venne in visita dai parenti. Facemmo amicizia. Lunghe passeggiate per mostrargli le meraviglie di Osimo.
Lui, gentile, condivideva il mio entusiasmo. Imitai mio nonno.
“Lì c’è la casa del più grande poeta d’Italia;era gobbo però”.
“Lo so. Era innamorato di Silvia. A lei faceva pena.”
All’inizio degli anni cinquanta di Leopardi sapevo questo: poeta di Recanati innamorato senza speranze perché aveva la gobba.
Non era il mio eroe. Il mio eroe era Bartali.
Venne a correre per le feste patronali. Mio nonno mi portò al campo sportivo. Bartali fece più gare in pista con altri ciclisti. Vinse sempre. Risalimmo al centro. Il campione era in un bar attorniato dagli organizzatori. Mio nonno conosceva tutti. Si avvicinò:
“Ecco un suo ammiratore”.
Bartali mi sollevò in braccio con un mezzo sorriso. Indossava la maglia gialla sudata. Emanava un odore di fatica aspro e invadente. Sembrava molto meno eroico dell’immagine nelle figurine incollate sull’album la domenica pomeriggio, dopo la fine del cinema e prima della cena, al suono dai pedali della Singer di mia madre.
La luce del lampadario a sfera diffondeva un giallino mesto su tutto.
Quella cupa fine del giorno era una mia personale sfortuna? No, la fine di tutte le feste è così. La delusione per Bartali? Regolare anche quella. Il meglio della vita è l’attesa.
Il viaggio, non la meta. La fanciullezza, non l’età adulta. Il sabato, non la domenica.
Lo spiegò anni dopo, con una voce di sigarette e un filo di cantilenante snobismo, la professoressa di lettere.
Una contessa. Ci faceva imparare tutto a memoria ignorando le nostre timide proteste. Eravamo tutti timidi all’epoca. Ci fece del bene però, la contessa.
Il sabato del villaggio è stato il mio primo sguardo disincantato sul mondo. Un’illuminazione. Negli anni ascolterò usarne frammenti per infiorare discorsi banali o come insulsa spiritosaggine: godi fanciullo mio, altro dirti non vo’, parca mensa.
L’autorevolezza di quei versi resisterà a tutto.

Nelle Marche si fanno due pellegrinaggi. Uno a Loreto per la Santa Casa.
L’altro a Recanati, per visitare la dimora del poeta. A Loreto si andò a piedi.
L’autobus lo prendemmo per il ritorno. Ho più di una foto del pellegrinaggio guidato da un sacerdote che, nella piazza piena dei malati di un treno bianco, invitò a fumare qualche sigaretta per proteggerci dai microbi (sic).
A Recanati, invece, ci portò un autobus traballante affittato dalla scuola.
Attraversammo distratti la biblioteca del poeta con la nausea non ancora smaltita, impegnati a decidere la strada più breve per tornarcene a casa a piedi incuranti della probabile nota sul registro di classe. Visiterò altre volte Recanati.
Una, la più imprevista e memorabile, invitato lì per scrivere un racconto.

Dicembre del 1997. Dall’albergo dove sono alloggiato vedo le luminarie natalizie del corso. Un gatto obeso color miele mi guarda col suo unico occhio mentre faccio colazione.
Piove fitto. Munito d’ombrello, vado. Per due giorni, venerdì 12 e sabato 13, m’insinuo in ogni angolo della città. Sosto più volte nei pressi di Palazzo Leopardi. Immagino, dietro le finestre, la madre di Giacomo in stivali mentre misura con un cerchietto le uova dei contadini; pretende di essere presente quando il parroco confessa i figli; discute sulle spese eccessive per la carrozza di Monaldo.
Appunti presi consultando biografie alla ricerca di idee. Meglio cercare il tema qui, all’origine dei versi che ancora ricordo a memoria, nella piazzuola dove i fanciulli giocavano sotto lo sguardo del poeta. Felici senza saperlo. In discesa, con le indicazioni di un bar e di una pizzeria, sfiorata dalle auto sotto la pioggia battente, sembra un luogo di passaggio da attraversare in fretta.
Come la felicità dell’infanzia e i sabati della vita?
Le gocce s’insinuano sotto l’impermeabile. Torno in albergo.

Il testo – una storia inventata mescolata alla cronaca di quelle due giornate – fu pubblicato in un’antologia curata da Daniele Garbuglia, Recanati, la città raccontata, edita dal comune in occasione del Bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi, nel 1998.

Gilberto Severini

Una lingua di terra

Non sono io a conoscerti, ma il nome
che si posa sulle labbra ferme,
quell’umido mistero di vocali
dette alle rive d’aria, ad una quiete
di riposo e madre, al consonare
del più muto canto, all’odore del giorno,
al fuoco, all’acqua,
a una lingua di terra familiare.

Francesco Scarabicchi,
da L’ora felice, Donzelli, 2010

Che vuoi da quei tuoi occhi, dagli abissi

Che vuoi da quei tuoi occhi, dagli abissi
di vento e verde che non ha confine,
che vuoi da me che tremo da quest’ora
in cui si perde una canzone bianca
e non ho vita per tenerti ancora,
non ho vita ma il semplice saluto
che ti lascia, carezza mia furtiva,
se scompari e mai più per questa notte
posso con te confondermi, mai più.

Francesco Scarabicchi,
da L’ora felice, Donzelli, 2010