Un’altra musica, un’altra Italia

 

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nostro lunedì n.2 - forme

Colloquio con Gastone Pietrucci

Quando e come nasce “La Macina”?

“La Macina” nasce nell’agosto ’68 perché ho avuto la fortuna, a Spoleto, mentre preparavo il mio esame di stato, di assistere allo spettacolo “Bella ciao” di Roberto Leydi e Filippo Crivelli, al Teatro Caio Melisso, durante il “Festival dei Due Mondi”. Fu per me una folgorazione giovanile. Conoscevo della musica e della canzone tutto quello che passava la radio di quei tempi: improvvisamente ho visto e sentito che c’erano un’altra musica e un’altra Italia che cantava, per parafrasare le note di regia dello stesso Crivelli, e da lì ho avuto la voglia imitativa di riproporre quelle cose perché, nella mia ingenua ignoranza di allora, ritenevo che la musica popolare fosse solo quella che avevo conosciuto a Spoleto, particolarmente lombarda e piemontese, attraverso Giovanna Marini, Caterina Bueno, Sandra Mantovani, solo per ricordarne alcuni. Per diversi anni ho frequentato il repertorio di quel disco. Poi, naturalmente, come comprendi bene, ho avuto bisogno di staccarmi da quel lavoro capendo che la musica popolare era presente in tutte le regioni grazie anche alla tesi universitaria che ho preparato sulla letteratura tradizionale e orale marchigiana e spoletina, partendo appunto dalla ricerca di tradizione e di oralità della mia terra e da lì non mi sono fermato più.

E la ricerca?

La ricerca vera e proprio inizia un po’ più tardi, nel ’73. Lo scopo della mia vita. Voglio dirti, a questo proposito, che i rischi sono stati moltissimi. Ti avvicini, all’inizio, ad un mondo e ad una cultura che non sono tuoi e puoi fare dei danni incredibili senza neanche avvedertene. Accosti persone anziane. Se non sai registrare, se non sai scavare e interrogare, puoi non trovar niente. Puoi offendere, sbagliare, violare intimità. Sono stato fortunato perché ho trovato il mio primo informatore indimenticabile ed indimenticato come il primo amore: Pietro Bolletta, anziano, piccolo, abitava nelle campagne di Monsano (i figli lavoravano fuori), solo in quella vecchia casa, in quella cucina. Il primo giorno con lui ho registrato per la bellezza di tre ore. Non finiva mai. Era in fiume in piena. Sono tornato, ritornato, è stato un continuo di visite ed incontri. E’ lui il mio maestro. Aveva capito il lavoro che facevo. Gli portavo le cose trascritte e me le correggeva. Quando partivo, si ricordava delle cose che faceva annotare dal nipote sulle scatole delle medicine perché non sapeva scrivere e quando ritornavo, facendosi leggere quei versi rammentati, ricordava tutto il brano oralmente. E’ stato come portare alla luce un mondo sommerso, anni sepolti che riemergevano dalla memoria anche e soprattutto sua che si riappropriava di un passato giovane e me lo metteva a disposizione. Trovava in me un ascoltatore che lo stimolava e dal quale si sentiva riconosciuto. Per me è stata una guida fondamentale. Non sapevo dove, come e soprattutto cosa cercare. Gli anni erano quelli della canzone di protesta, dei figli dei fiori. Inizio a catalogare, passando da un informatore all’altro sulla scorta dei segnali che Pietro mi aveva indicato. Ognuno aggiungeva un tratto di strada. L’aprirsi di quegli universi ignoti e stata la meraviglia e la ragione della mia esistenza.

Perché il nome “La Macina”?

Appoggiata ad un muro di una casa all’inizio del paese c’era un’enorme macina di mulino che ora non esiste più. Aveva, ingenuamente, anche una valenza metaforica: la pietra che stritola i vecchi pregiudizi, le mode andate, le false coscienze. Ci aiutò un prete giovane, don Giuliano, zio di uno dei componenti del gruppo, Marco Gigli. In lui avemmo un sostegno e uno stimolo. In una vecchia cantina della parrocchia demmo vita ad un centro. Pensa, il primo anno presentammo le canzoni di Luigi Tenco dopo la sua morte. Poi quelle di Fabrizio De André. Immagina tutto questo in un borgo di provincia come Monsano, in quegli anni. Fu una grossa scossa. Eravamo incosciamente di sinistra. I democristiani di allora ci osservavano come un fastidio e ci osteggiavano, i comunisti nemmeno ci ascoltavano. Successivamente, la cosa assunse un diverso livello poltico, inevitabilmente legato ai testi e ai temi della canzone popolare che, per sua natura e necessità, non può che rivolgersi alla storia ferita degli uomini, al loro dolore e ai loro sentimenti, a tutti coloro che non sono ascoltati.

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