Un’arte senza pop

Le opere di Marco Puca

Immaginate un’opera di arte pop.
Una tela di Mario Schifano, più che di Warhol o Lichtenstein.
Con i suoi colori squillanti, le campiture piatte, sfacciate, i contorni marcati,
l’irresistibile attrazione per le icone mediatiche, i segni del nostro tempo.
Provate, ora, a desaturare il colore. Rimarrà il negativo. Che rimanda
sì al modello, ma senza concessioni alla sensualità. Come se, d’un tratto,
le luci dello show si fossero spente, rivelando le impalcature, lo scheletro, il non detto.
Il volto crudo del clown, prima di andare in scena.
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Può essere questa la suggestione che, a prima vista, ispirano i quadri del giovane artista marchigiano Marco Puca (Ancona 19673).
Opere della tradizione, la pop art italiana su tutti, cui sia stato però sottratto
– rubato, ci verrebbe da dire – il colore. Come una tela, passata ai raggi X,
della quale rimangono le tracce, le orme, i frammenti, i contorni delle figure,
perse su fondo nero, al di là di ogni riferimento spaziale.
Le ragioni possono essere più di una. Se la pop art conservava un ottimismo di fondo che le consentiva di mettere alla berlina i feticci della società di massa senza timore
di rimanervi imbrigliata, nella convinzione di lanciare un messaggio al pubblico
per ripartire, le opere di Puca mantengono un riserbo per certi versi crepuscolare.
Perché gli spauracchi dell’omologazione e della globalizzazione, che negli anni ‘60 erano negli incubi di pochi visionari, si sono nel frattempo manifestati.
Hanno messo radici, si sono propagati e hanno infranto le barriere.
Con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di confusione,
smarrimento, perdita di senso.

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Come molti suoi contemporanei, Puca non può allora che guardare al passato
con nostalgia. Il suo bisogno di certezze, navigando a vista nel mare magno
della postmodernità, trova nelle forme piane, razionalmente rassicuranti, della pop art un richiamo irresistibile. Ci prova, il giovane pittore a rilevarne gli spunti, le ossessioni,
i contorni, restituendoli su tela, con viva partecipazione. Ma subito se ne stacca. L’informe sale a galla, il rimosso, il non detto premono in superficie, risucchiando
il colore e deformando la figura. Lo spazio si dilata, preme al centro, lasciando emerge
il vuoto, il silenzio. Pure, ossessivamente, Puca prova a lasciare i segni
di una presenza. Piccoli tratti, ancore di salvezza in questo mondo alla deriva,
che individuano forse una rotta, una direzione. Un fascio misterioso di luce,
piuttosto che un dettaglio, le dita di una mano o di un piede, ove concentrare l’attenzione, e che rimandano forse ad una narrazione superiore, magari virata
in chiave onirica, e perennemente interrotta dalla Storia.
Cogliere quei segni è compito, più che dell’artista, dello spettatore.
Nell’era della perdita dell’aureola, ove l’artista è confinato a poche, impalpabili certezze, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, spetta a lui il compito di riprendere il filo della narrazione interrotta, colmando la distanza.

Roberto Rizzente

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