Paolo Gubinelli – parte 2

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“Parlare delle mie carte è pretendere un distacco emotivo-intellettuale e un trasferimento da un linguaggio a me più proprio (quello dell’opera) ad un altro più estraneo,
quello verbale, con l’inquietudine e il disagio, sempre di travisare i contenuti
e le motivazioni del mio lavoro. Questo, per onestà; il resto, se può agevolare
una lettura dell’opera.

Il concetto di struttura-spazio-luce si muove nell’ambito di una ricerca razionale analitica
in cui tendo a ridurre sempre più i mezzi e i modi operativi in una rigorosa ed esigente meditazione. Il mezzo: la carta; anzi un cartoncino scelto per la sua morbidezza e docilità al tatto, e per il suo candore (luce) incontaminato da ogni intervento esterno di colore, capace di rimandarmi a emozioni di purezza, di contemplazione quieta e chiarificante.
Su questa superficie traccio, con una lama, un’incisione secondo linee geometriche, progettuali (proiezioni, ribaltamenti di piani); quindi intervengo con la piegatura manuale delicata, attenta, che crea un rilievo sottile, capace di coinvolgere lo spazio, strutturarlo
e renderlo percettibile. La superficie vibra di una struttura-luce che non ottengo con effetti di chiaroscuro dipinto, ma con l’incidenza della luce (radente) sul mezzo stesso, la carta incisa e piegata, in cui mi oppongo rigorosamente alla tentazione di un arricchimento dell’opera. Inoltre, le superfici mutano, variano secondo i punti di vista e l’incidenza
della luce; ne deriva una spazialità dialettica che coinvolge lo spettatore in una serie
di rapporti dinamici, permettendogli una riappropriazione creativa dello spazio circostante. Le mie carte pretendono una lettura non superficiale, ma attenta e prolungata;
il loro discorso non è immediatamente percepibile e hanno bisogno di un lettore disponibile per mediare contenuti, motivazioni e stimoli di ricerca.”

Firenze, Gennaio 1975. Autopresentazione, Ed. Galleria Indiano Grafica

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Gubinelli 03 [1024x768]Paolo Gubinelli nasce nel 1945 a Matelica,in provincia di Macerata.
Vive e lavora a Firenze. Si diploma presso l’Istituto d’arte di Macerata, nella sezione pittura, continua gli studi a Milano, Roma e Firenze come grafico pubblicitario, designer
e progettista in architettura. Da giovanissimo scopre l’importanza del concetto spaziale
di Lucio Fontana che determina un orientamento costante nella sua ricerca: conosce
e stabilisce un’intesa di idee con gli artisti e architetti: Giovanni Michelucci,
Bruno Munari, Ugo La Pietra, Agostino Bonalumi, Alberto Burri, Enrico Castellani, Piero Dorazio, Emilio Isgrò, Umberto Peschi, Edgardo Mannucci, Mario Nigro, Emilio Scanavino, Sol Lewitt, Giuseppe Uncini, Zoren. Partecipa a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero.
Le sue opere sono esposte in permanenza nei maggiori musei in italia e all’estero.
Nel 2011 viene ospitato alla 54° Biennale di Venezia, nel Padiglione Italia,
presso L’Arsenale invitato da Vittorio Sgarbi e scelto da Tonino Guerra.
Nella sua attività artistica è andato molto presto maturando, dopo esperienze pittoriche
su tela o con materiali e metodi di esecuzione non tradizionali, un vivo interesse
per la “carta”, sentita come mezzo più congeniale di espressione artistica:
in una prima fase opera su cartoncino bianco, morbido al tatto, con una particolare ricettività alla luce, lo incide con una lama, secondo strutture geometriche che sensibilizza al gioco della luce piegandola manualmente lungo le incisioni.
In un secondo momento, sostituisce al cartoncino bianco, la carta trasparente, sempre incisa e piegata; o in fogli, che vengono disposti nell’ambiente in progressione
ritmico-dinamica, o in rotoli che si svolgono come papiri su cui le lievissime incisioni
ai limiti della percezione diventano i segni di una poesia non verbale.
Nella più recente esperienza artistica, sempre su carta trasparente, il segno geometrico, con il rigore costruttivo, viene abbandonato per una espressione più libera che traduce, attraverso l’uso di pastelli colorati e incisioni appena avvertibili, il libero imprevedibile moto della coscienza, in una interpretazione tutta lirico musicale.
Oggi questo linguaggio si arricchisce sulla carta di toni e di gesti acquerellati
acquistando una più intima densità di significati.
Ha eseguito opere su carta, libri d’artista, su tela, ceramica, vetro con segni incisi
e in rilievo in uno spazio lirico-poetico.

 

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“La donna mancina” – un’altra lettera – Lella Marzoli

di Lella Marzoli
Tratto da nostro lunedì
n. 3 – Libri

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Carissimo Francesco, il libro che mi cambia la vita è quasi sempre l’ultimo che leggo.
Ti sembra un paradosso? Il fatto è che i cambiamenti della vita sono così tanti,
a volte così impercettibili.
E poi quando leggo, le emozioni e i pensieri corrono sulle parole in tempo reale.
Allora, eccoti la mia rapida impressione su un libro per me recente, ancorchè non ultimo
in ordine di lettura: La donna mancina, di Peter Handke, che sicuramente conosci.
Trovo Marianne, la protagonista, un personaggio indimenticabile. Ha il coraggio
di dichiarare la sua disperazione senza deliri, di assumersi la responsabilità principale
di un dolore (anche di quello profondo che provoca negli altri con le sue decisioni),
ha la lealtà esplicita di fare una scelta di solitudine, magari non irreversibile.
Una donna comune, apparentemente egoista, una donna qualunque di fronte al dramma della sua estrema sincerità, incapace di continuare a fingere per tenere in equilibrio il vuoto della sua vita. Ma devo dire che non dimentico neppure Bruno, suo marito, così vero
nella sua umana reazione , tutt’altro che un uomo ideale, vittima non sempre dignitosa
(ma chi lo è nel dolore improvviso e lancinante?) Essere lasciato senza spiegazioni. Eppure fra le righe ho visto molte negative spiegazioni fra queste due persone, ho visto una infinita serie di gesti privi di densità affettiva, vuoti di motivazione e di progetti comuni. Succede, non è una cosa nuova.Fine del senso stesso dello scambio, black out.

Ma è nuova nel testo letterario, così mi sembra, la naturalezza, la realtà nebbiosa
e tranquilla della disperazione, del clima di lucido fallimento purtroppo possibile
ad ogni passo per tutti noi. Conviene mettere tutto questo nel conto, senza drammi.
Cosa resta? Mi piace molto la resa letteraria di questo deserto umano, trovo Handke
un autentico specialista, un fuoriclasse della descrizione del nulla interiore, nuovo Sartre della nausea (esagero?). Si parla fra persone come dentro uno schermo televisivo grigio, come quando saltano le valvole, computer saturo imballato. Non di-mentico Marianne,
an-che se non è certo quella che può definirsi una bella persona
(chissà forse non la dimentico proprio per questo). Sceglie una solitudine trasparente esplicita, al riparo da ogni giudizio mo-rale, ma non è ri-nuncia definitiva all’amore.
Nel presente della storia non sa più amare, ma in generale: non lo ha mai saputo fare
o non vuole amare più quel determinato uomo?  L’esito della storia non c’è,
il suo buon punto di valore ai miei occhi è nella sua infinita sospensione. Nulla può chiudersi, nulla nella nostra vita si chiude mai definitivamente. Siamo in ogni momento
il centro di mille destini. Per questo non è semplicemente una esistenza arida e cinica quella di Marianne, anche se sembra senza soluzione il suo disagio di madre.
Ma quanto spiace ai più – oggi come sempre – una donna che evita di bamboleggiare con se stessa e con gli altri! La sua sincerità turba, ma se ne prenda atto, sempre e una volta per sempre. Che colpo per il suo speranzoso appassionato corteggiatore sentirla dire:
‘La prego, non faccia progetti su di me’.  E Handke chi è? è questa donna comune
e stanca o quest’uomo ferito e  dunque reattivo? Ambedue le persone, apparentemente. Anche se questo sembra proprio l’ultimo dei problemi che riguardi il lettore.
Marianne ascolta sempre un disco, le piace molto questa canzone,
‘The lefthanded Woman’, la donna mancina appunto. E’ un bel testo. Dice per esempio: “era sdraiata con altri sul prato del parco, rideva con altri in un labirinto di specchi, gridava con altri sull’ottovolante e poi sola la vidi soltanto camminare nei miei desideri” e poi finisce così: “vederti in un continente straniero io vorrei, perché finalmente in mezzo agli altri
ti vedrei sola e tu fra mille altri vedresti ME e finalmente ci verremmo incontro”.

 

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Resistenza Artigiana

Ve ne abbiamo già parlato di questo nostalgico tipografo napoletano,
ora invece vi mostriamo il trailer del docu-film Resistenza Artigiana,
prodotto da Gika Productions, che Antonio Manco ha girato
nell’Officina d’arti grafiche di Carmine Cervone.

Resistenza Artigiana è la storia di chi resiste e persiste nel proprio lavoro
a dispetto della globalizzazione e della crisi economica che caratterizza la società attuale. Protagonista del documentario della durata di 21′ è Carmine Cervone,
giovane artigiano del quartiere San Lorenzo, nel centro storico di Napoli.
Custode dell’antica arte della tipografia. L’utilizzo di antiche macchine da stampa consente a Carmine di realizzare prodotti unici, che la grande industria non può produrre: utilizza carte impastate con i materiali più disparati, dal tufo al caffè, all’orzo.
A rendere ancora più dura e forte la resistenza di Carmine è la situazione
di inadempienza burocratica che non gli permette di essere legale.
Infatti, le sue attrezzature, i suoi strumenti da lavoro, non sono riconosciuti dalle norme in vigore che non riescono a dargli una “sistemazione”, proprio per il suo essere
in qualche modo “fuori dal tempo”. La sua è una forma di protesta discreta,
ma piena di energia contro un sistema di produzione che non lascia spazio
agli antichi saperi artigiani.

Non perdeteci d’occhio, perchè la storia ancora non è finita!

Antonio Manco su Facebook
Officina d’arti grafiche di Carmine Cervone

 

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Land Art, l’arte contemporanea mimetizzata nella natura

MANIFESTO LAND ART V EDIZIONE

Cinquanta artisti provenienti da tutta Italia si ritroveranno in un bosco,
su un fiume, a mostrare le loro opere. Accade nelle Marche, nei pressi della suggestiva Gola del Furlo in provincia di Pesaro Urbino, dove dal 23 agosto fino al 21 settembre
è in corso la quinta edizione di Land Art al Furlo 2014.
Una mostra sotto il cielo tra sculture, installazioni, performance, concerti, incontri,
video e reading poetici. Quest’anno il tema della rassegna lo si può sintetizzare
in una parola: Limo, la quale è simbolo di “fertilità, eredità, sedimento, un’onda creativa che allagherà il borgo antico di Sant’Anna, a Fossombrone, nella selvaggia e bellissima Gola del Furlo”, così ne parla la giovane curatrice artistica Alice De Vecchi,
docente urbinate di Arte Contemporanea. Per un mese si svolgerà
la famosa, Passeggiata d’Arte organizzata dall’associazione culturale no-profit
Casa degli Artisti che ospita gratuitamente tutti i partecipanti non marchigiani.
Si tratta di una casa in stile liberty-razionalista del 1919, che fu costruita per ospitare
gli addetti alla diga e alla centrale idroelettrica del posto, ma che nel 2003 è stata trasformata in una residenza creativa che fa capo a un’associazione culturale
senza scopo di lucro cresciuta nel tempo, unica realtà marchigiana,
che ha ottenuto quest’anno l’iscrizione allo SPAC, il Sistema Provinciale
di Arte Contemporanea. I visitatori potranno incontrare gli artisti e toccare con mano
le opere all’aperto: antichi sedimenti, relitti fantastici, ninfee, sabbie, ceramiche,
terre crude, e ancora nidi di fiume, sculture in legno e in ferro e performance dedicate
alla dea Hathor, divinità egizia della grande inondazione, nelle quali saranno coinvolti
gli studenti dell’Accademia di Belle Arti e dell’ISIA di Urbino.
Non mancheranno le poesie, la musica delle piante e i concerti per flauto e arpa.
Un “limo” fertile che lascerà un seme grazie all’attesa performance del MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, Roma, che sceglie solo i luoghi italiani
dove si esprime la cultura indipendente, come a Sant’Anna del Furlo. Continua a leggere

Storie di un artigiano fuorilegge

L’Officina d’arti grafiche di Carmine Cervone

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Al posto delle vecchie stilografiche e delle biro abbiamo il touchscreen ultrasensibile
del nostro smartphone o tablet; al posto delle vecchie attrezzature da disegno tecnico abbiamo i moderni software Apple; al posto dei mellotron abbiamo di nuovo i potenti software di musica della Apple. Al posto di questa serie di cose, tra le mani, abbiamo
il piacere di avere niente.

Napoli c’è un artigiano che non è proprio incline con i vantaggi decantati dai devoti del progresso tecnologico dispiegato.
Carmine Cervone ha quarant’anni e fa il tipografo, le sue mani non hanno a che fare
con le tastiere degli ultimi computer apparsi sul mercato e tanto meno con i tasti
con su scritto “start” degli ultimi ritrovati tecnologici in campo tipografico. Non lo trovi presso un’area industriale, bensì in una bottega e quando lavora le sue mani vengono
a contatto con macchine strane e antiquate che le rendono annerite, unte, “zozzose”. Per Carmine i segni di una giornata lavorativa non si denotano molto a livello psicologico, ma proprio nelle mani, che al lavoro toccano tutt’altro che “niente”.

francesca ciafrè

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Flowery letters

Le lettere dell’alfabeto vestite con elementi floreali multicolori
espressione di un visual fresco e divertente per costruire emozionali esperienze visive.
Oggi proponiamo la P del Courier.

P-Courier

P/Courier

Courier è un carattere monospazio di tipo  progettato per assomigliare ai caratteri
delle macchine per scrivere. Il carattere originale fu creato da Howard “Bud” Kettler
nel 1955. Il design del Courier New apparve però per la prima volta nel 1950 e fu usato dall’IBM nelle proprie macchine da scrivere, ma non avendone l’uso esclusivo
dal punto di vista legale è diventato presto uno standard per l’industria delle macchine
da scrivere
. Come carattere monospazio è stato largamente usato negli anni successivi
nel mondo dei computer nelle situazioni in cui le colonne che contengono i caratteri dovevano essere esattamente allineate. È anche usato come standard industriale
per tutte le sceneggiature scritte a 12 punti in Courier o in una sua variante
ed è ampiamente usato dai programmatori per scrivere codice sorgente.

Kettler ha rilasciato una dichiarazione circa “come” il nome è stato scelto;
il carattere stava per essere rilasciato con il nome di “Messenger”, dopo aver preso
il nome in considerazione, Kettler ha dichiarato “una lettera può essere
solo un messaggero ordinario, o può essere il corriere (Courier), che irradia la dignità,
il prestigio e la stabilità”.

 

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Gabriele Via. La dignità umana

“La dignità umana (dire e fare)”

Tu ricordati questo:
noi siamo stati qui.
Detto e fatto.

Sono cambiati i tavoli, certo;
le sedie e le luci delle città.
I circoli, le tribù, le corti e i parlamenti…

Ma noi, coi pochi nomi
di chi sa e di chi vuole ricordare;
noi che ricordando abbiamo costruito
quel respiro dove la pigrizia degli altri
ha potuto solo arenare gli occhi
come il vecchio Mosè
chiamandolo promessa del domani;
noi
ci eravamo già stati.

Perché, come scrisse il poeta,
abbiamo frequentato il futuro
nella vita di ogni giorno.

Tu, dunque, ricordati questo:
noi siamo coloro i quali
ad un certo punto
(e qui i brividi non bastano mai)
abbiamo rinunciato
al sonno, al giusto cibo,
e al conforto protettivo
delle consuetudini
per dire una parola
-quella parola-
perché il dopo prendesse
finalmente un nuovo corso
dalle devianze malate dello ieri.
E ciò perché noi siamo stati
nella piena capacità di dire “oggi”.
Oggi. Oggi.
Ad una maniera tale
-quale una pasqua-
che nulla, nel dopo
che ne sarebbe stato,
avrebbe più saputo,
potuto, voluto dimenticare
la formidabile scossa della nostra fermezza.
Ricorderai che allora essere uomini,
con la giusta parola
diviene immediatamente la virtù;
quando, poco prima, pareva
davvero essere una condanna.
Ricorda questo: uomo nato da una donna.

Tratto da “Una disordinata bellezza”

foto Gabo per libro

Gabriele Via è un poeta, filosofo, performer e fotografo. Ricerca l’essere, col fare: drammatico, pratico e poetico. Cammina: due volte dalla Francia a Capo Finisterre
lungo il cammino di Santiago. Studia filosofia, teologia, natura e umanità.
Cucina, suona, plasma l’argilla e apprende i nomi delle cose.

 

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Le opere di Paolo Gubinelli

Grande rotolo incisioni piegature su carta trasparente 1979 [1024x768]

La collezione d’arte Spazio Miralfiore di Pesaro, prestigiosa sede espositiva
della Fiam Italia si arricchisce con le opere di Paolo Gubinelli

Ci sono percorsi che non vogliono essere solo delle strade, ma vogliono indicare mete molto più lontane. Così la Fiam, sin da quando ha iniziato la sua attività, si è impegnata
a valorizzare un materiale, il vetro, dandosi come prima mission
“il design nel cristallo curvato”.

Lungo questo percorso l’azienda ha incontrato personaggi formidabili le cui esperienze hanno contribuito a valorizzare la sua arte e cultura. Tutto questo si è materializzato
in una collezione esposta permanentemente in Spazio Miralfiore; forse si tratta
dell’unico museo dove le opere sono realizzate esclusivamente in vetro con tecnologie
e sperimentazioni inedite, dove l’arte e il design si fondono per dare vita alla bellezza.
Così tra gli artisti se vogliamo ricordarne alcuni, Emilio Isgrò, Arnaldo Pomodoro, Bruno Munari, Walter Valentini, Enrico Baj, Danny Lane e tanti altri ancora.
Mentre nel design troviamo: Giorgetto Giugiaro, Ron Arad, Philippe Starck,
Cini Boeri
, Doriana e Massimiliano Fuksas, Daniel Libeskind, più tanti altri prestigiosi maestri del design ed architettura internazionale.
Molte di queste opere sono presenti nei musei di New York, Roma, Berlino, Parigi, Milano, ma tante altre sono presenti nelle abitazioni e studi di professionisti che hanno collaborato a rendere prestigiosa la Fiam nel mondo.

Questa collezione oggi ospita le opere di Paolo Gubinelli, artista molto rigoroso,
con esperienze concettuali di alto valore, con la sua arte ha impresso nel vetro
quel messaggio che ha reso grandi tanti artisti contemporanei, lasciando una traccia indelebile proiettata nel futuro.

Paolo Gubinelli nasce nel 1945 a Matelica, in provincia di Macerata. Vive e lavora
a Firenze. Si diploma presso l’Istituto d’arte di Macerata, nella sezione pittura,
continua gli studi a Milano, Roma e Firenze come grafico pubblicitario, designer
e progettista in architettura. Da giovanissimo scopre l’importanza del concetto spaziale
di Lucio Fontana che determina un orientamento costante nella sua ricerca: conosce
e stabilisce un’intesa di idee con gli artisti e architetti: Giovanni Michelucci,
Bruno Munari, Ugo La Pietra, Agostino Bonalumi, Alberto Burri, Enrico Castellani, Piero Dorazio, Emilio Isgrò, Umberto Peschi, Edgardo Mannucci, Mario Nigro, Emilio Scanavino, Sol Lewitt, Giuseppe Uncini Zoren.
Partecipa a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero.
Le sue opere sono esposte in permanenza nei maggiori musei in italia e all’estero.
Nel 2011 è ospitato alla 54° Biennale di Venezia, nel Padiglione Italia, presso L’Arsenale invitato da Vittorio Sgarbi e scelto da Tonino Guerra.
Nella sua attività artistica è andato molto presto maturando, dopo esperienze pittoriche
su tela o con materiali e metodi di esecuzione non tradizionali, un vivo interesse
per la “carta”, sentita come mezzo più congeniale di espressione artistica:
in una prima fase opera su cartoncino bianco, morbido al tatto, con una particolare ricettività alla luce, lo incide con una lama, secondo strutture geometriche che sensibilizza al gioco della luce piegandola manualmente lungo le incisioni.
In un secondo momento, sostituisce al cartoncino bianco, la carta trasparente,
sempre incisa e piegata; o in fogli, che vengono disposti nell’ambiente in progressione ritmico-dinamica, o in rotoli che si svolgono come papiri su cui le lievissime incisioni ai limiti della percezione diventano i segni di una poesia non verbale.
Nella più recente esperienza artistica, sempre su carta trasparente, il segno geometrico, con il rigore costruttivo, viene abbandonato per una espressione più libera che traduce, attraverso l’uso di pastelli colorati e incisioni appena avvertibili, il libero imprevedibile moto della coscienza, in una interpretazione tutta lirico musicale.
Oggi questo linguaggio si arricchisce sulla carta di toni e di gesti acquerellati acquistando una più intima densità di significati.
Ha eseguito opere su carta, libri d’artista, su tela, ceramica, vetro con segni incisi
e in rilievo in uno spazio lirico-poetico.

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Fiam Italia

 

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Una lettera – Emanuele Trevi

di Emanuele Trevi
Tratto da nostro lunedì
n. 3 – Libri

Caro Francesco, se è vero quello che dice Freud e ripetono i surrealisti,
cioè che la prima associazione, la prima cosa che ti viene in mente è la più importante
e profonda, allora, per me l’idea stessa di “libro importante” si collega immediatamente
a “il grande meaulnes” di Alain-Fournier. Non a quest’opera considerata in astratto, però, come mi è possibile pensarla adesso. Di questa, non saprei cosa dirti
di molto interessante: probabilmente, si tratta di un libro sul viale del tramonto,
di stile un po’ enfatico, che sta perdendo irreversibilmente i suoi lettori
come una trottola perde i suoi giri.
Lo so anche perché una volta un grosso editore mi ha chiesto di scrivergli l’introduzione
a un classico per la sua collana economica, e quando gli ho proposto “il grande meaulnes” mi ha detto di no, che non vendeva più tanto nemmeno in Francia – così va la vita.
Ma io sono stato uno degli innumerevoli ragazzini che si sono imbattuti in questo libro quando erano appena in grado di leggerlo: che non vuol dire solo essere in grado
di “capirlo”, ma anche di scavarsi una tana da qualche parte, uno spazio di solitudine inviolabile, un luogo fisico oltre che mentale da dedicare alla relazione con quelle pa-gine. Quindi l’idea del “grande meaulnes” che subito si associa in me a quella
di “libro importante” è inseparabile d’altra parte dalla memoria di una particolare veste editoriale, una collana di classici dei fratelli Fabbri di prezzo molto popolare,
con assurde copertine dure di cartone imitanti la pelle, di diversi colori a seconda
della nazione dello scrittore. I miei genitori ne avevano parecchi, tutti molto puntuti
agli angoli, con il titolo finto-dorato sulla costa che tendeva a sbiadire – decisamente, oggetti poco invitanti già allora, figuriamoci oggi. Proprio lì, secondo me, nella loro aria sfigata e dignitosa, da europa dell’est, stava il bello di questo tipo di libri con i quali siamo cresciuti. Era il 1978. Mi ricordo bene la data perché in quelle settimane leggevo,
oltre al “grande meaulnes”, anche le lettere di Aldo Moro dalla prigione delle BR,
che uscivano sulla “Repubblica”, il giornale dei miei genitori. Non ero tanto bravo a scuola, non mi interessava nulla di quello che insegnavano e facevano leggere, non stavo nemmeno a sentire. Non guardavo la tv, a quei tempi si faceva ancora poco.
Andavo ai cortei, e con l’incoscienza dei ragazzini avevo già conosciuto la prima linea,
la terra di nessuno dove rotolano i sassi e le bottiglie e dove avanzano i caschi e gli scudi dei celerini. Ma non avevo idee particolari, ero felice di stare nel mucchio, un soldato semplice di un esercito in rotta, arruolato all’ultimo momento, quando ormai non c’è più nulla da fare. Nella mia testa, insomma, c’era ampio spazio per Aldo Moro
e Alain-Fournier. La parte del romanzo che mi era più piaciuta non era tanto quella
del “reame misterioso” e della festa in cui meaulnes conosce Yvonne.

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Certo, è un’invenzione narrativa stupenda, che non può passare inosservata agli occhi
di un ragazzino di quindici anni. Ma, come ricorderai sicuramente anche te, oltre a questa storia struggente e a suo modo terribile nel romanzo ce n’è un’altra, più segreta, raccontata senza linearità, per sussulti e apparizioni. E’ la storia degli zingari, e del fratello di Yvonne. Si tratta di incontri fortuiti, di messaggi ambigui, di contatti umani intessuti
di sorpresa, violenza, seduzione. Meaulnes è progressivamente, inesorabilmente attratto verso il centro di questa cospirazione serale. Non può resistere al richiamo
dei messaggeri dell’altrove. Il protagonista di una storia d’amore diventa il beneficiario
di un’iniziazione, che sbriciola e rende impossibile la storia d’amore. E’ questo spreco
che mi affascinava, quel raccontare due storie dove una sarebbe stata più che sufficiente – ci vedevo una conoscenza preziosa, qualcosa di utilissimo da sapere
anche se impossibile (oggi come allora) da definire in parole. In effetti, Roma in quei tempi era piena di “zingari” di ogni tipo. Brulicavano addirittura nei vicoli intorno a Piazza Navona e Campo de’ Fiori, che ancora erano luoghi reali della città e non vetrine per turisti
come adesso. Si ascoltavano strane storie, si faceva tardi, si chiamava da una cabina
per avvertire a casa che non saremmo tornati a cena, ci si appartava, si guardava gli altri appartarsi. Si infilavano portoni, si entrava in stanze con letti sfatti e luci e basse, in cucine con la cannella del lavandino gocciolante e pacchi di sale umido ridotto in blocchi.
Ogni incontro presupponeva e causava un vacillamento, un improvviso allargarsi
e deformarsi dello spettro delle conoscenze. C’era gente che aveva navigato sull’oceano indiano e gente che era marcita per anni in galera e gente che aveva preso la mescalina
e gente che scriveva poesie e gente che vendeva vestiti usati e due gemelli tossici, identici e bellissimi, che a casa loro, un sottoscala fetido a via dei gigli d’oro, mettevano
in scena la “lettera al padre” di Kafka in cambio di un po’ di soldi o anche di cibo e sigarette e bottiglie di vino. Bene, tutti i salmi finiscono in gloria, e anche alla fine di questo ricordo c’è solo da dire che ormai non resta niente, nemmeno quell’edizione del “grande meaulnes” con la copertina verde. Mi accorgo adesso, caro Francesco,
che invece di “libro importante” si potrebbe parlare di “libro sparito” – i due concetti
si sovrappongono. Niente più “grande meaulnes”, niente più ragazzino che lo leggeva. Spariti, inghiottiti dal mutamento. mi ero ripromesso di non farlo, ma non posso
che far finire questa storia su una nota malinconica. La malinconia, penso,
non è il peggiore dei mali. E’ il prezzo inevitabile che si paga quando qualcosa di bello ci è apparso, è rimasto di fronte a noi il tempo sufficiente a deriderci e proteggerci,
e poi se ne è andato via, lasciandoci giusto sull’orlo del capire,
del tirare la somma, dell’afferrare…

 

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Giotto: l’humilité radieuse

Nel 2009 i 28 affreschi di Assisi, un capolavoro della pittura murale italiana,
vengono proiettati di notte sulla facciata della chiesa di Notre-Dame du Val-de-Grâce
a Parigi dagli artisti italiani Gianfranco Iannuzzi e Massimiliano Siccardi.
La ricostruzione monumentale, alta 3 metri e lunga 70, del ciclo francescano dipinto
da Giotto è mostrato all’interno della chiesa, nel coro, grazie alle ektachromes
del fotografo fiorentino Antonio Quattrone.

Gianfranco Iannuzzi è un artista multimediale.
Nativo di Venezia, ha studiato sociologia e fotografia. Utilizza l’immagine, il suono e la luce come supporti di comunicazione sensoriale per la creazione artistica.
Durante più di vent’anni ha realizzato numerosi spettacoli e installazioni nelle cave di pietra sotterranee della Provenza svolgendo un ruolo di direttore artistico
per Cathédrale d’Images. Nel 2011 ha ideato e diretto una nuova installazione tecnologica delle stesse cave investendo 7000 metri quadrati di superfice di proiezione con un centinaio di video-proiettori, un sistema sonoro spazializzato e un’illuminazione dinamica. La società Culturespaces gli ha affidato la realizzazione artistica
dei nuovi spettacoli per il sito ribattezzato per l’occasione Carrières de Lumières.
Nuovi progetti internazionali lo portano a investire altri spazi che accoglieranno
le prossime installazioni in particolare in Giappone dove è rappresentato
da Yoshihiro Arakane. Nella realizzazione dei suoi progetti collabora
con Renato Gatto e Massimiliano Siccardi.

Massimiliano Siccardi è un videoartista, fotografo, coreografo e regista teatrale.
Formatosi alla London School of Contemporary Dance di Londra, nel 1990 si allontana temporaneamente dalla sua esperienza come danzatore per iniziare un percorso
nel mondo della videoarte con collaborazioni internazionali.
Studia con vari maestri della vocalità cantata e parlata, realizzando un proprio percorso didattico-formativo che pone al centro il rapporto corpo-voce, gesto-suono.
Dal 1986 è docente di Tecnica Vocale in numerose scuole di teatro tra le quali:
Scuola del Teatro l’Avogaria di Venezia, Civica Scuola d’Arte Drammatica
“Paolo Grassi” di Milano, Civica Accademia Arte Drammatica “Nico Pepe”
di Udine, Accademia dei Filodrammatici di Milano.
Collabora, come docente e interprete ai Progetti Didattici del Teatro La Fenice
di Venezia. Nel 1996 fonda e dirige fino al 2002 il Centro d’Arte Vocale,
nato come spazio di incontro e diffusione delle pratiche della voce.
Dal 1999 al 2003 lavora con InCanto – Suoni per Azioni di Milano in récital per voci, strumenti e immagini e con la regia di Ambra D’Amico.
Dal 1990 cura inoltre, con il fotografo-regista Gianfranco Iannuzzi, installazioni d’immagini
e musica realizzate in numerose località di Francia e Italia.

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