Come Dalí siamo arrivati a questo punto

Articolo di Marco Cicala
tratto da il venerdí di Repubblica
numero 1310 – 26 aprile 1013

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Lo showman e il provocatore. Il visionario e il falsario di se stesso. A Madrid,una grande mostra riapre il caso del celebre catalano. Fenomeno della pittura o fenomeno da baraccone? E quanto gli somiglia l’arte oggi?

MADRID. Nei primi anni Sessanta Salvador Dalí avviava una nuova fase della propria opera. Quella della bufala dop. Invasato dal demone della riproducibilità tecnica, il Divino prese a macinare quattrini autografando in bianco a ritmi da Topolino apprendista stregone. C’è chi giura che – nei momenti più tonici – arrivasse a firmare mille fogli l’ora. Altri ritoccano il record al rialzo, parlando di una firma ogni due secondi. Comunque sia, l’impresa raggiunse presto organizzazione e cadenze quasi tayloristiche: un collaboratore allungava il foglio a Dalí, lui apponeva l’imprimatur e già un terzo complice aveva ritirato il pezzo per impacchettarlo e spedirlo. Su quelle candide superfici sarebbero state impresse immagini più o meno daliniane. Poco importa. Salvador se ne fotteva maestosamente. La direttiva era: “Dei fogli firmati in bianco fate quello che vi pare”. L’importante era incassare. Subito. Secondo Peter Moore – il più leggendario tra i segretari di Dalí – le tariffe viaggiavano sui dieci dollari ad autografo. Moore, detto El Capitán, per via di un passato da militare sparviero – succhiava una commissione del dieci per cento. Esosa, concluse Dalí. Che, in breve, prese a firmare ad insaputa del consigliori.

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Credits: il venerdí, la Repubblica.

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