Di medici, cartografi, filosofi notturni dell’amore – Valerio Magrelli

di Valerio Magrelli
Tratto da nostro lunedì
n. 3 – Libri

illustraz

In un’intervista di qualche tempo fa, Roberto Rebora ricordò la propria formazione letteraria, affermando tra l’altro: “A chi mi sento vicino come autore?
Qualche volta a me stesso. Ma molte volte mi sento lontanissimo anche da me”.
Ho ripensato a questa considerazione al momento di scegliere un’opera da illustrare,
e in certo modo eleggere, rispetto a tutte le altre. Infatti, se è indubbiamente vero
che chi scrive cerca di risalire innanzitutto alle origini della propria scrittura
per approssimarsi a se stesso, non bisogna però dimenticare che un’operazione simile può compiersi soltanto grazie alla scrittura altrui. Altrimenti detto, non c’è che un modo
per verificare la presenza di una “vocazione” letteraria, ed è quello offerto dalla tradizione, ossia dalla vivente comunità culturale, habitat e humus in cui ogni alfabetizzato affonda
le sue alfabetiche radici. (Immaginiamo la linfa luminosa delle lettere, il nutrimento estratto dal terriccio, e allo stesso tempo la proiezione verticale nel cielo delle fronde, delle foglie, dei fogli). Di conseguenza, non sarebbe eccessivo sostenere che la voce di un autore
può risuonare soltanto attraverso quella di coloro che, precedendolo, lo hanno svelato
a se stesso. L’incontro con un classico agisce insomma come uno strumento
di auto-scopia e auto-ascolto, specchio, eco, sonda, sonar, modello da seguire e insieme da evitare: come dire, la pietra dello scandalo.
Per quanto riguarda la mia passione di lettore, ad esempio, ho scoperto la lirica
di John Donne durante il liceo, cercando di sfuggire al soffocante clima della letteratura scolastica. Ebbi la fortuna di imbattermi nella traduzione e nel commento preparati
per l’Einaudi da Cristina Campo in Poesie amorose Poesie teologiche.
In diverse occasioni, negli anni successivi, cercai di ricostruire l’entusiasmo
di quella mia scoperta adolescenziale, tra conferenze, dibattiti, articoli? Vorrei partire appunto da quei lontani appunti, per provare a ripercorrere
la complicata bellezza di questo poeta.
Complicata, ingegnosa, meccanica: questi versi convogliano un carico espressivo addirittura intollerabile. Tutto è raccolto in poche  battute, gettato in un precipitato emotivo che ricorda le manipolazioni delle sostanze alchemiche. E viene spontaneo associare
i distillati sillabici dei suoi sonetti e delle sue canzoni alle Lachrymae musicate
da John Dowland, quelle composizioni per viola e liuto che sembrano variare all’infinito
lo sfarzo buio, concettoso, melanconico, del Seicento. In ambedue gli autori si impone infatti la concentrazione, la densità, l’esorbitante peso specifico di un’opera che sembra procedere per lente fitte cardiache. “Più dotto e preciso il pensiero, più alta la bellezza,
la passione”. Questa frase di Y. B. Yeats, che la Campo prescelse come esergo
della sua traduzione, illumina il senso e la direzione di una ricerca volta a produrre congegni inceppati, teoremi logico-teologici divelti dall’amore della donna e del Cristo.

Nato a Londra nel 1572 da una ricca famiglia cattolica che vantava tra i suoi avi
San Tommaso Moro, Donne soggiornò prima a Cambridge, poi nella capitale,
dove, verso il 1592, si dedicò a studi di legge. Risale a quest’epoca la sua conversione all’anglicanesimo, testimonianza di una tormentata crisi spirituale e insieme politica.
La persecuzione religiosa aveva infatti colpito direttamente i suoi parenti: il fratello Henry era morto in prigione per aver dato asilo a un prete, mentre lo zio era stato impiccato
sotto l’accusa di aver detto messa. Dopo un lungo viaggio in Spagna e in Italia,
lo scrittore sposò in segreto la nipote del guardiasigilli, e dovette a sua volta subire
un duro carcere prima di veder riconosciuta la validità del matrimonio. Più tardi, superato un periodo di gravi difficoltà economiche (la moglie morirà di parto dando alla luce, morto,
il dodicesimo figlio), divenne diacono, cappellano di corte e infine decano della Cattedrale di San Paolo, dove venne sepolto alla sua morte nella primavera del 1631.
La poesia di questo celebre predicatore fu dunque il risultato di profonde tensioni:
da un lato il contrasto tra l’eredità del medioevo e la nuova scienza,
dall’altro quello tra cattolicesimo e protestantesimo. Ma a caratterizzare
tutta la sua produzione fu soprattutto l’intreccio di erotismo e di amor dei.
La donna redentrice e il Cristo amante, dominano il poeta nel segno della violenza
e della redenzione. Su tutte queste liriche regna la tortuosità, ma come se si potesse immaginare un’unica radice etimologica in grado di connettere “tortuosità” e “tortura”,
nella stessa maniera in cui si uniscono, nella lingua del grande mistico tedesco
Jacob Böhme, i due termini di “tortura” (Qual) e di “fonte” (Quelle). Le contorsioni,
l’artificio della scrittura di Donne, finiscono per essere investiti e dilaniati da un’energia incontrollata e squassante. L’esperienza privata subisce così una radicale trasposizione, diventando puro tramite di un’avventura al tempo stesso mentale e cosmogonica.
Per spiegare il procedimento con cui Donne rende concreto e talora sensuale
la sua riflessione, T. S. Eliot parlò di “pensiero apprensibile dai sensi”
(un’espressione simile dà il titolo al studio di Esther Finz Menascé, Un cuore che pensa:
la poesia di John Donne
). Proprio dove più urgente è il richiamo spirituale,
e quindi la vocazione all’oltremondano, si sviluppa il ricorso a una materia tangibile, sontuosa o corrotta, smagliante o lacerata. Ecco balsami, armille, carcasse, compassi, costellazioni, urne, sudari, strumenti musicali, tutti gli oggetti che popolano le grandi nature morte del XVII secolo. E’ una natura da cui trapela la morte (“rivestirsi di morte”),
ma una morte da cui trapela luce, nel vertiginoso ossimoro del sacrificio: annichilirsi
per potere rinascere alla vera vita. In questo lirico volta a volta definito “cartografo
della parola” e “filosofo notturno d’amore”, storia e simbolo si alimentano reciprocamente. Tuttavia, le dispute religiose filosofiche o politiche che innervano la sua opera si risolvono sempre in un supremo gioco linguistico e figurativo, organizzato intorno
a quella vertiginosa telescopia d’immagini di cui parlò la Campo.
Basti pensare al Notturno sopra il giorno di Santa Lucia, che è il più breve dell’anno,
dove fisica e metafisica, scienza amorosa e tradizione biblica, medicina e liturgia,
si sposano in una meditazione sul Nulla corporeo ed astronomico. Nel giorno più breve dell’anno, il giorno dedicato alla patrona della vista, la cecità dell’autore
e quella dell’universo vengono a congiungersi.
Caduta la linfa del mondo, il sole appare esausto, la terra idropica, e la vita sembra ritrarsi ai piedi del letto (lo stesso che compare in Inno a Dio, il mio Dio, nella mia infermità, laddove i medici, diventati cartografi, frugano nel corpo-mappa del poeta alla ricerca
del passaggio a Sud-Ovest). Gettato nella notte della notte, nella mezzanotte del cuore
e dello zodiaco, sgomento, vuoto, cieco, prosciugato, l’occhio di chi scrive ha ancora
la forza di volgersi agli altri in un richiamo estremo: “Dunque studiatemi, voi che sarete amanti / in altro mondo, un’altra primavera”.
E’ questo l’appello che il lettore, l’amante, viene chiamato a raccogliere, il saluto
che giunge intatto attraverso i secoli, l’augurio fraterno che sale dal fondo di questo definitivo annichilimento: “Voi, amanti, per i quali il minor sole / a quest’ora è passato
in Capricorno / per succhiarne voluttà nuova e donarla a voi, / o voi tutti, godetevi l’estate”.

 

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