Hotel Residence #3

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Batouly e Pacifico stringono la mano alla donna e al marito che ancora non parla l’italiano. Pochi minuti dopo sono di nuovo in ascensore. Scendono al piano terra e si ritrovano nell’ingresso dell’Hotel Residence, con l’andirivieni di donne e uomini africani e slavi che entrano e si riversano su e giù per le scale. Ci sono le cassette della posta imbullonate alle pareti, sono gigantesche scatole di alluminio argentato che sembrano grattacieli in miniatura, tappezzati di etichette di carta con una miriade di cognomi stranieri scritti a penna. Fuori, nel cortile, l’energia cinetica dei bambini è vorticosa. Tutti in cerchio girano in bicicletta come rondini, con le magliette colorate, le guance porporine e le urla cristalline. Per Pacifico ciò che più conta è affondare le mani nell’urna magica della lontananza e quel luogo è lontanissimo da lui, eppure è come se ci fosse già stato, come se vi avesse già cercato rifugio dopo una fuga da casa, una rottura.

Batouly lo conduce in una delle gallerie di cemento che attraversano il piano terra del Residence e mettono i quattro cortili in comunicazione fra loro. Il palazzo è sopra le loro teste, squadrato, rosso, pulsante di volti, carico di relitti che sbocciano da ogni nicchia. Sbucano su un altro cortile sovrastato da una parete altissima di balconi. C’è una pista di pattinaggio e in mezzo felpa rossa e felpa nera giocano con altri bambini. Calciano un pallone, sono concentratissimi. Batouly li richiama a sé con un gesto: “Accompagnate il signor Pacifico nei sotterranei”, comanda ai due. Felpa nera e felpa rossa sembrano contrariati, quasi perplessi ma smettono di giocare mentre Batouly si congeda da Pacifico. “Spero che racconterai solo quello che hai visto, che non inventerai nulla”, gli dice prima di torna indietro e imbucarsi nella galleria di cemento per risalire nel suo appartamento, sospeso sull’orizzonte della costa in uno dei diciassette piani del grattacielo.

“Allora vieni, ti portiamo nei sotterranei del Residence”, dicono felpa nera e felpa rossa e imboccano una rampa che scende di fianco alla pista di pattinaggio e porta nei garage sotterranei. Sul fondo, aprono una porta di ferro verniciata di verde e entrano. Dentro è scuro, la luce che arriva passa dai varchi di areazione sul soffitto.

“I garage ora sono tutti vuoti” dice felpa nera, mentre cammina lungo una grande galleria dove a destra e a sinistra si susseguono saracinesche rugginose. Il soffitto invece è venato di tubature. Fasci di cilindri che si snodano sopra le loro teste come inesplicabili nervature. Pacifico si ferma e guarda fra le grate d’una delle saracinesche sbarrate. Dentro vede una Fiat 500 coperta di polvere, sembra posare addormentata, dimenticata da qualche decennio con le sue curve di lamiera miti, come un relitto che si è perso per strada, che è riuscito a sfuggire alla coscienza e alla memoria.

Poi arrivano a una biforcazione, imboccano una delle due gallerie sotterranee. Sentono dei rumori, in lontananza c’è qualcuno ma i due bambini non si spaventano. Un garage ha la porta basculante sollevata e dentro due neri  con movimenti veloci maneggiano delle borse foderati di plastica, le tirano fuori da degli scatoloni. Gli scatoloni sono dappertutto, impilati uno sull’altro, sembrano cadere. La plastica dell’imballaggio scrocchia sotto le dita dei due neri che si girano fra cataste di borse Gucci e Louis Vuitton, tra giacche e magliette dal marchio Prada. Mentre rimestano in quei mucchi alcuni capi  cascano dagli scatoloni ricolmi. I due si accorgono di Pacifico e si fermano per un attimo a fissarlo, uno sorride impercettibilmente, lo guarda con occhi sottili e poi continua il suo lavoro troppo indaffarato per smettere e preoccuparsi di qualcuno che non sia un poliziotto. “Tu lo sai che qua è pieno di ambulanti? Soprattutto d’estate, quando vengono da tutta Italia a vendere la loro merce. La tengono qui sotto, nei sotterranei, oppure negli appartamenti. Ci sono tanti piccoli laboratori di merce taroccata nelle case, con le persone che fabbricano tutte queste borse e vestiti falsi”, fa felpa rossa. “D’estate il palazzo si riempie come un uovo. Diventa pieno di ambulanti che arrivano da tutta Italia, da Milano, da Bergamo. Dormono qua per farsi la stagione”. Pacifico osserva i box garage, sembrano bocche scure che trattengono pezzi della nostra coscienza. Sopra quell’oscurità ci sono diciassette piani d’alveare e i popoli che abitano lì sono i custodi inconsapevoli di tutto quell’oblio, di quel reliquario, dell’emorragia di merci abbandonate e contraffatte che abitano il fondo della nostra anima. Loro senza saperlo sono venuti a liberarci dei nostri brutti sogni, dalle nostre colpe ancestrali.

Felpa nera e felpa rossa non si curano dei due uomini che trafficano borse contraffatte nel garage ma camminano oltre. Arrivano in un androne pieno di cassapanche e armadi rovesciati, di oggetti fracassati, di cartacce appallottolate. Pacifico si ferma a guardare qualcosa di colorato che sta lì per terra. Sono delle fotografie, tre o quattro, sparpagliate sulle piastrelle cremisi del pavimento e coperte da una patina di polvere granulosa. In una delle foto c’è una donna africana. Ha le gambe fasciate in dei pantacollant di pizzo e le labbra turgide per il rossetto viola. La donna, appoggiata allo stipite di una porta, guarda dritta e imbambolata. Più in là, su un’altra foto, un’altra donna africana è ritratta in primo piano. I capelli ricci, le mani in tasca, una giacca stretta che la slancia e una camicia bianca dal collo a becco. Su una terza foto c’è un gruppetto di donne con indosso abiti policromi, sembrano sorprese dallo scatto. Sono a una festa, si guardano intorno non prive di una sensualità che incuriosisce. Pacifico si stacca dalla visione delle foto e dallo strato di polvere che vela le immagini e le rende più familiari, più consumate. Alza la testa e gli occhi gli cadono sopra una grande svastica sbilenca che qualcuno ha disegnato con lo spray sopra una pesante porta di metallo aperta sul corridoio sotterraneo. Chissà chi l’ha marchiata lì? Se qualche ragazzino scemo o un esaltato, un povero idiota come tanti, pensa Pacifico prima di dire “andiamo via” a felpa rossa e felpa nera che lo attendono guardandosi distrattamente attorno e che scattano a quella richiesta come due ranocchi impazienti. Felpa nera e felpa rossa lo guidano dentro un corridoio stretto come un budello, pieno di altre porte color crema e fasciato di tubi polverosi che cadono a pezzi. Si infilano in una stretta rampa di scale, in cima filtra già la luce del cielo, salgono, aprono una porta e sono fuori, all’aperto.

Ora sono in un altro piazzale, uno dei quattro quadrilateri disegnati dalla pianta a croce del grattacielo. Pacifico avvista subito un uomo corpulento, peloso, con la pelle olivastra e gli occhi che sembrano avvolti da una membrana. È lì, che presidia un angolo del piazzale. Si guarda intorno simulando disinteresse, fa come chi è solo di passaggio e  non vuole chiedere nulla, non vuole interagire con lo spazio attorno. Ma la sua dissimulazione è così recitativa da apparire volutamente artefatta. Scorre qualche istante e arrivano un ragazzo e una ragazza, sbucano dal parcheggio passando silenziosi fra le carrozzerie delle auto. La ragazza è pallida, vestita di nero. Ha le gambe magrissime e le articolazioni dei ginocchi sono così sproporzionate rispetto coscia e femore da sembrare due bubboni calcificati. Il ragazzo, al suo fianco, ha i pantaloni a tubo, scarpe da tennis sudice, volto grigiastro e patinato di sudore acido da ragazzino invecchiato. I due vanno dritti dall’uomo che piantona il marciapiede, parlano un attimo, armeggiano, confabulano, si passano un minuscolo  quadrato di carta stagnola, poi dei soldi, poi la ragazza e il ragazzo camminano via, veloci e soddisfatti, scompaiono di nuovo nel parcheggio da cui sono sbucati, hanno compiuto la loro missione, rimediato quella sostanza che, consumata nel rito, li renderà rilassati, eccitati, euforici, meditativi, impauriti, nel chiuso del tinello di casa loro. Ora l’uomo grasso con gli occhi opachi è di nuovo il perno di tutta la scena, è di nuovo inoperoso e fissa con insistenza Pacifico. Alcuni gabbiani garriscono nel cielo color cenere, vorticano  attorno le scheletriche scale antincendio del palazzo. Felpa nera e felpa rossa si sono tenuti un po’ distanti dalla scena dello spiaccio. Hanno lasciato  Pacifico avventurarsi da solo nel parcheggio dove gli italiani vengono a comprarsi la roba. Ma è arrivato il momento di andare, così lo richiamano a loro, gli fanno cenno di seguirlo e riconducono Pacifico davanti ai portoni d’entrata del Residence. “La droga se la vengono a prendere tutte le sere. Una mattina hanno trovato un morto qua dietro, in un campo. Sotto un albero, sembrava dormisse”, dice felpa nera. E poi l’altro, felpa rossa, continua: “Una volta i nostri genitori volevano mandarli via, agli spacciatori. C’è stato un macello una notte. Si sono presi a urla, quasi a botte. La gente del Residence, i padri e le madri che lavorano sono riusciti a cacciare gli spacciatori dai cortili. Ma poi ecco che i giorni dopo gli spacciatori sono tornati di nuovo. Sono arrivati in gruppo. Avevano spranghe, bastoni. Uno teneva anche una accetta lunga in mano. Hanno fatto tanto casino, spaccato vetri, poi sono andati via. E poi sono ancora tornati e hanno ripreso tutte le loro postazioni e tutto è tornato come al solito”. All’ingresso del Residence e tutt’intorno al quadrilatero del cortile ci sono alcune panchine e seduti sulle panchine è pieno di anziani che si guardano attorno e discutono a bassissima voce. Hanno le barbe bianche, indossano copricapi e abiti lunghi e vaporosi. Pacifico osserva il groviglio delle biciclette che arrugginiscono sulla rastrelliera. Si sentono bambini giocare, le loro grida riecheggiano nei cortili, fra le facciate del Residence e le parabole sui balconi che si abbeverano delle onde magnetiche nel cielo. Pacifico vorrebbe incontrare ancora Batouly, ora che è a un passo dal cancello e sta per uscire. Invece arriva un uomo piccolo, brizzolato, dallo sguardo carnoso. Sbuca dal fondo del cortile e felpa nera e felpa rossa appena lo vedono non riescono a trattenersi e gli si fanno subito incontro. È loro padre. Quando Pacifico s’avvicina l’uomo gli stringe la mano con l’atteggiamento sicuro di chi è avvezzo a parlare in pubblico: “Spero che oggi lei abbia imparato qualcosa. E che i miei figli si siano comportati bene. Si vergognano, loro, di vivere qua, in questo posto. Perché tutti qua attorno dicono che è un ghetto, un palazzo pieno di sbandati. Ma non è vero, siamo brave persone. Vogliamo solo vivere in pace. Il nostro problema è  che siamo tappati qui, rinchiusi, isolati in questa torre di cemento, tagliati fuori da tutto il resto della città”. Mentre il padre parla felpa rossa e felpa nera sono già sgattaiolati chissà dove, verso antri e luoghi nascosti del residence che solo loro conoscono. Tra non molto è ora di pranzo, Pacifico sente la fame.

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Marco Benedettelli

Marco Benedettelli, giornalista professionista, collabora con varie testate nazionali.

E’ fra i fondatori e direttore responsabile di “Argo, rivista di esplorazione”.
Nel 2012 ha pubblicato la raccolta di racconti La regina non è blu.

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