Ancona, novembre. Alla Mole Vanvitelliana, in uno spazio straordinariamente suggestivo e nell’allestimento in tutto degno di un artista tra i maggiori del nostro tempo, Valeriano Trubbiani espone con De rerum fabula il mezzo secolo abbondante della sua attività di scultore e incisore. Trubbiani è un uomo schivo, tenacemente legato alla pratica del lavoro, sospetta le interviste ma sa essere disponibile, affettuoso, specie se sollecitato a parlare delle presenze che hanno costellato la sua personale biografia di individuo e di artista. Tramite del colloquio che segue (svoltosi in una saletta semibuia della Mole, quasi nel baricentro del percorso) è suo figlio Massimiliano, pittore, alla cui silenziosa tenacia De rerum fabula deve la sua realizzazione.
Che senso ha oggi questa mostra complessiva, riassuntiva di un così lungo percorso?
Immagini una donna sgravata, subito dopo il parto… insomma mi sono liberato di tutti i miei pesi. Ricordo una frase, profetica, del giornalista Beppe Severgnini che una volta mi disse ‘ecco, vedi, tu costruisci queste immagini come in un conato di vomito’… poi, sembrerà retorico dirlo, si è trattato anche di un atto di amore verso la città, Ancona, che mi ha sollecitato tanto a lavorare, che mi ha suggestionato a partire dalla sua struttura urbanistica. Della storia di Ancona mi colpisce il periodo classico, quello greco soprattutto, quando ha dato il meglio di sé. Qui ci sono alcuni punti fermi per me, il colle Guasco, con la cattedrale di San Ciriaco, l’anfiteatro romano che mi ha spinto a riscrivere in maniera visionaria la vita del gladiatori e poi il ricordo di Ciriaco Pizzecolli, il grande umanista di Ancona, viaggiatore infaticabile, talentuoso e furbo, persino ruffiano e lenone nel senso che cercava di arruffianarsi con tutti i regnanti del suo tempo nel tentativo di pacificarli e il fatto è che ci riusciva, regalando loro qualche vestigia, qualche moneta antica…
Ma anche Trubbiani, alla maniera di Ciriaco Pizzecolli, ha esordito collezionando o anzi ritrovando monete antiche, che è una cosa paradossale per un artista collocabile da giovane nell’area delle nuove avanguardie…
Si dà il caso che il mio paese nativo, Villa Potenza di Macerata, sorga sulle ceneri di una colonia romana, Helvia Ricina, la quale, rispetto alla stessa Macerata, era considerata la città del piano, lambita dal fiume Potenza. Fin da bambino sono cresciuto nel ricordo di queste muras ad Recinas che, storpiando le parole in dialetto, i contadini chiamavano le ‘murècine’. Ho fatto moltissimi rinvenimenti ma epocale fu quello nel letto del fiume Potenza dove trovai tutta la necropoli di Ricina smontata, simile a quella che fu trovata nel fiume Reno dalle parti di Bologna, e lì, passeggiando lungo il fiume col mio cane Liborio, ritrovai dei blocchi marmorei, cippi di marmo scolpito che spuntavano dal letto del fiume, e su indicazione della soprintendenza mi misi a numerare con la vernice rossa tutti quei frammenti. Ma il rinvenimento più clamoroso fu un vaso fittile, il tesoretto di un collezionista di allora, pieno di denari repubblicani che io, prima di consegnarli alle autorità, numerai moneta per moneta, classificandole e studiandole: allora insegnavo all’Istituto d’Arte di Ancona, ebbi un premio di dodicimila lire per un tesoro che oggi, compreso il vaso, non vale meno di mezzo milione di euro. Erano gli anni in cui, posso dire, sono riuscito a impastare il ricordo della antichità con una ricerca mia personale, assolutamente moderna, ricavandone, e penso ai miei primi aratri che divenivano macchine belliche, un corpo informe. E vivevo per quel corpo, ne ero suggestionato, se posso usare una parola oggi così impronunciabile.
Ma quei primi aratri, quelle macchine belliche, uscivano dalla bottega di suo padre, no?
Da ragazzo, la mattina, aiutavo mio padre a strigliare le ‘gumère’, cioè a ripristinare il taglio dei vomeri degli aratri, perché niente c’è di più corrosivo rispetto al solco disseccato che, inesorabilmente, lima l’acciaio. Questo è stato per me il primo suggerimento artistico da parte di mio padre che lavorava a cottimo, quasi gratuitamente, per i contadini che dopo la mietitura lo ricompensavano con un sacchetto di grano.
In che cosa, però, gli aratri, alludevano alle cosiddette ‘macchine celibi’ o più in generale alle forme della avanguardia storica?
Anche se in maniera rozza, stavo già seguendo il lavoro di Alberto Burri e del maceratese, purtroppo meno noto, Sante Monachesi, uno che non è mai riuscito a esprimere appieno il suo grande talento di pittore, ma purtroppo Monachesi dipingeva i muri di Parigi… e pensare che le sue idee anticipavano la pop art… Sullo sfondo c’era l’esempio di un altro grande conterraneo, Gino Bonichi in arte Scipione, il capostipite della scuola romana. Scipione l’ho scoperto in un periodo di formazione giovanile a Roma, stavo alla Garbatella e lavoravo nello studio dell’architetto Franco Petrucci: la sera uscivo e spesso frequentavo la galleria “La Tartaruga”, un piccolo tempio dell’arte contemporanea, dove esponevano Schifano, Angeli, Bignardi e dove appunto ho visto per la prima volta i sacchi di Burri e i tagli di Lucio Fontana. Furono esperienze decisive anche se ancora indirette o fatte per interposta persona.
Oggi, visitando la mostra e guardando al suo lavoro in retrospettiva, anche un profano si accorge che la prima fase della sua produzione, fino ai pieni anni sessanta, corrisponde alla materia e agli oggetti inanimati, poi c’è una seconda fase dedicata agli animali e ai supplizi infiniti di cui sono oggetto, mentre solo in una terza fase, a partire dagli anni ottanta, compare, non meno coartata, la figura umana. E’ così?
Con molta semplicità, riconosco che sono tre fasi consequenziali. Man mano che subentrava una maturità interiore, morale-spirituale ma anche fabrile-professionale, sentivo l’urgenza di andare avanti, di esplorare e di aggiungere qualcosa di nuovo. Quanto alla presenza dell’uomo, subentra inizialmente in forma di bambino e qui va detto che mi sono sempre alimentato coi giornali, ne ero e ne sono un feroce lettore, e mi hanno sempre impressionato le vicende di bambini seviziati, violati, bambini innocenti, martiri, proprio come gli animali che sono super-innocenti e infatti non esiste un animale capace di esprimere una ferocia paragonabile a quella degli esseri umani. Fui sconvolto in particolare da due libri letti negli anni sessanta, Se questo è un uomo di Primo Levi e Tu passerai per il camino di Vincenzo Pappalattera, due libri fondamentali che hanno aperto un vallo, una spaccatura evidente fra il bene e il male in termini etici, fra sinistra e destra in termini politici. Allora capii che la destra può esprimere solo la violenza.
Ma gli anni sessanta sono anche anni di passione per il cinema, di cui sono testimonianza alcuni suoi cortometraggi. Cosa la interessava, in particolare, del cinema?
Voglio fare subito il nome di un artista che è quasi un mio coetaneo e che è stato per me un esempio, Gianfranco Baruchello, anche lui un film-maker. E poi non va dimenticato il grande vate e il grande padre di tutti noi, Marcel Duchamp, perché è impossibile sfuggire alla sua amorevole tenaglia. Quanto a me, ritenevo di poter dire attraverso delle immagini in movimento quello che non potevo dire con la scultura e con il disegno.
Negli anni ottanta, viceversa, l’ingresso della figura umana si lega ad una esplicita meditazione dell’opera di Giacomo Leopardi. Come è nata questa consuetudine?
E’ nata anche questa da una specie di choc o di incanto infantile perché affacciandomi dalla finestra alta della mia casa a Villa Potenza vedevo la lingua di terra orizzontale, popolata da tante casine, che mi avevano detto si chiamava Recanati. Quando nominavo Recanati e Leopardi, mia nonna Aida, una donna religiosissima, mi diceva sempre ‘mi raccomando non lo leggere, è gobbo, non crede in dio, vuole male ai preti, per carità non lo leggere…’ Io naturalmente non davo ascolto a mia nonna, anzi mi precipitavo a leggerlo, così che presto ho cominciato a subire il bagno salutare della lettura di Giacomo, l’immenso Giacomo.
Nel ciclo leopardiano degli anni ottanta si sente vibrare una tenerezza esplicita, non così ovvia nel complesso della sua opera. Come mai?
Ho sentito e interpretato la tenerezza di lui, la sua tenerezza, il suo modo particolare di aggredire gli animi, cioè il parlare male di una cosa e tuttavia facendotela amare: parla male della natura e te la fa amare, parla male delle donne e te le fa amare… la sua è una presenza costante, io leggo sempre Leopardi. Ma oltre a Leopardi, l’altro riferimento è Pier Paolo Pasolini, cui è legato anche un episodio della mia vita, purtroppo una occasione mancata. Stavo già lavorando per Fellini ai bozzetti di E la nave va quando lo scenografo Dante Ferretti mi disse che Pasolini avrebbe voluto mettere all’esterno della sua casa di Chia, una torre nella campagna di Viterbo, le mie aste di Stato di assedio, che lo avevano colpito: purtroppo pochi giorni dopo seppi dalla televisione la notizia del suo assassinio, ma di Pasolini rimangono versi per me indimenticabili, specie quelli di Poesia in forma di rosa, “si apre come un’aurora Roma, dietro le spirali del Tevere,/ gonfio di alberi splendidi come fiori,/ biancheggiante città che attende i non nati,/ forma incerta come un incendio,/ nell’incendio di una nuova preistoria”.
Tutta la sua opera di artista dialoga con i poeti del Novecento, come Edoardo Sanguineti che scrisse per lei degli acrostici…
Caro Edoardo, conservo tante sue lettere… ci siamo conosciuti si può dire per caso, negli anni sessanta, ad una mostra della galleria “Il Punto” di Torino intitolata Disegni e parole. E’ venuto anche qui negli anni settanta per un dibattito sull’urbanistica della città e in particolare sull’utilizzo dell’attuale piazza Pertini, che un tempo era occupata dall’enorme ex Panificio militare: è allora che disse, di fronte a una platea sbigottita, alludendo alla mia scultura Ractus ractus (stato d’assedio), che nella nuova piazza bisognava metterci i topi di Trubbiani e anzi che Ancona doveva essere invasa dai topi di Trubbiani… immagini lo scandalo delle autorità… Il ricordo di Sanguineti mi fa venire in mente altri maestri, penso al critico Giuseppe Marchiori, grandissimo intenditore di scultura, uno che andava negli studi a veder lavorare gli artisti, che io ho pensato sempre come un padre, e poi Giulio Carlo Argan, che presentò una mia mostra ad Amsterdam, infine Enrico Crispolti, il curatore di questa stessa mostra. Ma come posso dimenticare, qui in Ancona, due grandi poeti con cui ho tanto collaborato, Franco Scataglini e Francesco Scarabicchi? La poesia si lega indissolubilmente alle mie due forme espressive, la scultura e poi il disegno che di quella è e rimane la parte propulsiva.
8/01/2012 inserto “Alias” del “Manifesto”
L’intervista è stata realizzata il 7/11/2012 durante la visita alla Mole Vanvitelliana, all’interno della mostra “De Rerum Fabula” da Massimo Raffaeli e Francesco Scarabicchi; le foto sono state realizzate da Francesca Di Giorgio e Giandomenico Papa.
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