“leopardi amava la vita” Giorgio Caproni

Elisa Donzelli con Bruno Mangiaterra e Gabriele Pagnini

Il 7 gennaio di cent’anni fa nasceva Giorgio Caproni. In questo nostro lunedì mi piace ricordarlo tramite il suo Leopardi, doppiamente “pericoloso” da rileggere perché vitale ma anche lunare. Pensando alla poesia di Caproni, ai suoi titoli e alle sue matrici, la eco più sonora è certo quella di Dante. Guai a non ascoltarla e con lei a non ascoltare il ricorrere di considerazioni sulla Commedia all’interno delle numerose interviste cui il poeta di Livorno si era pazientemente sottoposto a partire dagli anni Cinquanta. Non così per il Recanatese perché a cercare il suo nome tra i preziosi autocommenti di Caproni si resta un po’ delusi se rare, o rarissime, sembrano essere le testimonianze a lui dedicate. Almeno in superficie della poesia di Leopardi nella poesia di Caproni c’è poco e in un certo qual senso la critica lo ha spiegato passando prima attraverso altri classici che con Dante sono Cavalcanti, Michelangelo poeta, Poliziano, Tasso, Carducci e Pascoli. Tuttavia in un celebre saggio del 1980, dedicato alla formazione culturale di Giorgio Caproni, Antonio Barbuto annoverava tra i molti anche il nome del Recanatese e, attenendosi alla complessità del lavoro di ricerca, gran parte della critica avrebbe riportato di volta in volta le sue parole. In effetti in Caproni Leopardi esiste anzitutto perché presente tra le letture giovanili che il poeta livornese divorava “con gusto” e perché custodito tra i libri della Biblioteca privata del poeta. Diversamente da Dante, scoperto sin da bambino in un’edizione a dispense comprata dal padre in edicola, Leopardi era arrivato soprattutto sui banchi di scuola per poi essere riletto dopo i vent’anni. Nel 1937, alle prese con le prime esperienze sui giornali, Caproni aveva pubblicato sulla rivista romana “Augustea” un articolo intitolato Attualità di Leopardi in cui osannava “l’eterna nostalgia di gioventù” sostenendo che “nessuno, come lui aveva amato la natura e, quindi, la vita, quella stessa vita contro cui tante volte aveva amaramente imprecato”. Ma un certo vitalismo anni Trenta, attribuito a quelle sue parole di presunto gusto rondista, Caproni lo avrebbe chiarito in un’intervista su “Il Tirreno” nel 1985: “Avevo ventitré anni. Detti gli esami da privatista [per l’insegnamento nelle elementari]. Gli esami, allora, erano una cosa seria […]. Ma agli orali litigai con un professore che interrogandomi su Leopardi voleva che in una parola dicessi cosa aveva di particolare la sua poesia. Non capii bene la domanda e non risposi. ‘Ma è il pessimismo!’ gridò. Non seppi star zitto e replicai che la storia del pessimismo di Leopardi era un luogo comune e che nessuno più del Leopardi aveva amato la vita. Però venni promosso ugualmente”. È probabile che la questione del pessimismo leopardiano, Caproni l’avesse affrontata anche tramite la filosofia di Giuseppe Rensi che nei primi anni Trenta aveva tenuto dei corsi universitari proprio a Genova. Ma nel materialismo pessimistico di Rensi, nel suo scetticismo filosofico, non c’era tanto il Leopardi che Caproni in quegli anni di apprendistato incominciava ad assorbire. C’era senz’altro il pensiero leopardiano e la riflessione sul Male del mondo che, fresco dei versi di Come un’allegoria, il poeta livornese avrebbe scoperto, di lì a poco, per una via tutt’altro che filosofica. Accanto al Leopardi “datore di vita” esiste in Caproni un Leopardi “lunare” che si nasconde nella poesia ma soprattutto nella prosa coeva. Due anni dopo l’Attualità di Leopardi, su “Augustea”, era apparso il racconto Chiaro di luna (rielaborato poi in Un ricordo e nel più noto Il gelo della mattina). La prosa di natura autobiografica traeva spunto da un episodio tragico della vita di Caproni costretto ad assistere alla scomparsa della prima fidanzata Olga Franzoni, morta di setticemia in Val Trebbia il 7 marzo del 1936. “Dolce compagna la luna, sebbene tanto lontana, m’aveva guidato dunque a quell’ora e con quell’ansia ancor più acuta nel cuore, presso il tuo asilo. […] sapevo che tu saresti finita; con precisione matematica lo sapevo, benché non rinunziassi a sperare, e coscientemente mi illudessi […] che ciò non dovesse avvenire”. Alla memoria della fanciulla Caproni aveva dedicato la prima edizione di Come un’allegoria e, attorno al suo ricordo, avrebbe costruito il finale di Ballo a Fontanigorda oltre ai Sonetti dell’anniversario del 1942.  Presto le reminiscenze scolastiche di A Silvia e della Nerina delle Ricordanze erano divenute presenze vere nell’immaginario della scomparsa di Olga e il fantasma metamorfico della “fidanzata così completamente / morta” avrebbe continuato ad aggirarsi anche nei dintorni della poesia successiva, camuffandosi via via sotto false sembianze. Ma in origine anche Caproni, come Leopardi, quella scrittura del primo amore, sfociata nella composizione in versi, l’aveva appresa attraverso la forma moderna della scrittura autobiografica. Quasi tutti i racconti dal poeta livornese (oggi raccolti da Garzanti nei Racconti scritti per forza a cura di A. Dei) sono spesso incompiuti o abbozzati proprio come i percorsi frammentati di gran parte della prosa leopardiana (dai Ricordi alle Memorie della mia vita). Oltre che nella poesia, è anzitutto in quel genio auto-interpretativo che va cercata la fratellanza vera di Caproni con Leopardi. In un’atmosfera senz’altro più onirica, la voce narrante del Chiaro di Luna caproniano ricorda quel giovane figlio del conte Monaldo che nel 1817, infatuato dall’incontro con la cugina Gertrude Cassi, avrebbe sperimentato il dramma della perdita nel Diario del primo amore (qui partenza, in Caproni decesso). Per entrambi i poeti l’esperienza d’amore (e con lei della colpa) si definisce per assenza nello spazio transitivo della narrazione che dà vita alla poesia. Scrivendo nel 1962 su René Char, Caproni sorpassava curiosamente Petrarca per proiettare il pensiero direttamente su Leopardi: “Non c’è proprio nessun rapporto tra il radicale pessimismo del grande Leopardi e il “pessimismo” di Char, teso ad affermare […] il pieno adempimento dell’umana sorte? Ma certi quadri leopardiani esaltanti la vita (Primavera d’intorno / Brilla nell’aria, e per li campi esulta, / Sì ch’ha mirarla intenerisce il core. / […] Gli altri augelli contenti, a gara insieme / per lo libero ciel fan mille giri) non vedo perché non dovrebbero piacere, per la loro luce, a Char”.
E non si vede perché non dovessero piacere anche a Caproni che, a suo modo nel 1933, li aveva trasposti, condensandoli, nel finale di una radiosa poesia giovanile dal titolo Prima luce: “(Gli uccelli sono sempre i primi / pensieri del mondo)”

Quale pericolosa luce emana oggi il Leopardi “lunare” e “vitale” di Giorgio Caproni?
Con disincantata leggerezza, forse, una risposta a questa domanda il poeta di Livorno l’aveva data tra le righe di un articolo uscito su “La Stampa” nel 1987 e intitolato Poesia e Scienza: si può ancora cantare la Luna: “Quando Leopardi annotava: rara traluce la notturna lampa, e Montale sulla sua scia: rara la luce della petroliera, figuriamoci se ignoravano scientificamente la natura vera di quei loro soggetti di canto. Si contentavano di nominarli, quasi a riprova che il “dominio delle luci” (come puro e semplice effetto ottico) non ha toccato soltanto Magritte. […] anche il poeta è spesso un ricercatore, il quale magari comincia, per la salute e la fortuna dell’uomo, proprio dove la scienza finisce”.

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