L’indignazione e la speranza

 Francesco Scarabicchi colloquia con Emanuele Zinato

Qual è, secondo te, il punto centrale del rap­porto di Paolo Volponi con la sua città? Volponi possedeva la qualità di far sentire al lettore – o all’ascoltatore della sua oralità – che Urbino era un universo e non solo quel paesaggio entro le mura di cinta. È così?

Il punto centrale credo sia la coesistenza di smi­surato amore e di inguaribile claustrofobia, è dunque l’ossimoro: la figura che tiene insieme gli opposti. Ciò determina, nel rapporto con Urbino, l’oscillazione permanente fra la fuga e il ritorno. Volponi nasce come poeta, nel 1948. Mentre nelle due prime raccolte Il ramarro e L’antica moneta, lo spazio è vissuto panicamente (orti e campagne, animali e piante, amori e violenze, espressi in ver­sicoli senza rime), la raccolta Le porte dell’Appen­nino nel 1960 segna una svolta: la voce poetica esce dalla prigione dell’io, lo spazio esterno viene giudicato e oggettivato. Qui compare per la prima volta il mito bifido di Urbino. Il poemetto Le mura di Urbino si organizza per undici strofe, costruite ciascuna su due o tre rime, con versi spesso legati da rime interne e consonanze: la superba bellez­za dell’architettura di Urbino e la dolcezza del suo paesaggio collinare provocano nell’io poetante un insopprimibile desiderio di fuga

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«La nemica figura che mi resta, / l’immagine di Urbino / che io non posso fuggire, / la sua crudele festa, /quieta tra le mie ire. // Questo dovrei lasciare / se io avessi l’ardire / di lasciare le mie care / piaghe guarire» 1

Con Le mura di Urbino s’inaugura insomma lo spazio volponiano maturo, se­gnato dall’irrisolta dialettica tra il restare e il partire, fra paesaggio appen­ninico e grande città industriale. Lo spazio natale è trasformato, mediante una serie di ossimori (care piaghe, sorte nemica, nemica figura, festa crudele), in quello che anche gli etnologi chiamano «festa crudele»: la supremazia primitiva dei fantasmi pulsionali capaci di disgregare l’individualità dell’io.

A partire dalla raccolta Foglia mortale (1974) lo spazio appenninico non è più contrapposto a quello industriale. Qui s’inaugura la rima ossessiva e litaniante, del Volponi maturo.

L’utopia politica ed economica, capace ancora fino ai primi anni Sessanta di animare un autentico progetto riformista, quello olivettiano, diviene ora un non-luogo dove non s’intravede più confine tra centro e periferie.

«Il paesaggio collinare di Urbino, / che innocente appare quercia per quercia / mentre colpevole muore zolla per zolla, / è politicamente uguale / […] ai giar­dini della utopica Ivrea / ricca casa per casa: / tutti nella nebbia che sale / dal mare aureo del capitale» È già lo scenario territoriale delle poesie e dei poe­metti di Con testo a fronte e di Nel silenzio campale, le ultime due raccolte in cui Urbino apparirà – nell’ansia e nell’insonnia, – in un cosmo strabicamente lunare e del tutto colonizzato dalla circolazione dei capitali. Urbino come città “astrale”, universale, da cui si può contemplare il paesaggio globale:

Vedo ormai dalle mura di Urbino/ Il paesaggio intero, terrestre e mari­no/Di tutta l’Italia nella sua naturale /Grandezza fisica (…)/Persa l’im­pronta e spezzato il catino

Analogamente, il mito di Urbino si presenta irrisolto in un ossimoro anche nella scrittura narrativa. Nei primi anni sessanta, Volponi scrive Repub­blica borghese, un romanzo lasciato incompiuto per l’urgenza compositiva di Memoriale (1962), accantonato per un quarto di secolo e, infine, ripro­posto col titolo La strada per Roma, edito da Einaudi nel 1991 (e vincitore del Premio Strega): un romanzo di apparente impostazione tradizionale, che narra il trapasso dalle speranze del dopoguerra ai trasformismi del miracolo. Nella Strada per Roma si oppone lo spazio chiuso del mondo urbinate a quello aperto dell’industria e della storia: è il tema dell’ab­bandono della provincia per approdare alla capitale, tipico del romanzo di formazione europeo. Nello schema binario in cui sono concepiti i due personaggi principali, Ettore e Guido, si consolida la dialettica tra chi re­sta e chi parte, nella disperata, appassionata, fallimentare ricerca di una sintesi, individuale e collettiva.

Sul piano formale, il linguaggio poetico del primo Volponi viene riuti­lizzato in direzione narrativa: ciò è evidente nelle numerose «focaliz­zazioni interne» in cui il centro della narrazione è cioè occupato dallo sguardo nostalgico, narcisistico e adolescente di Guido che si posa sul paesaggio urbinate. Sul piano tematico, nel romanzo trovano spazio le elezioni del 1953, la battaglia politica contro la legge truffa e l’invaden­za della speculazione finanziaria.

La fuga e le speranze si corrompono progressivamente in un euforico e cieco bisogno di arricchimento individuale. Per Guido, la fuga da Urbino non coincide insomma con una guarigione. I rapporti sociali preindustriali, di cui Urbino è splendida metafora, frettolosamente rimossi dal giovane, ritornano come spettri, in forme perturbanti. Il «seme» di Urbino, la cui connotazione seminale e paterna è palese, scatena in lui, la paura del­la contaminazione e della malattia. Significativamente, in apertura del romanzo, la prima apparizione del padre del protagonista è interamente contrassegnata dal ribrezzo della contaminazione.

L’intento volponiano di offrire del mondo contadino e della provincia ur­binate un’immagine tormentata e stravolta, in via di decomposizione per il vertiginoso incalzare storico dello sviluppo capitalistico, si gioca attorno a un campo metaforico incentrato sull’immagine della putrefazione, della mummificazione e della contaminazione.

Urbino appare come il cappotto infetto di un morto o come «un castello di ammalati» con le case «visitate dalla peste» (p.199). La strada per Roma presta in tal modo una voce alle ragioni storiche condannate dalla mo­dernizzazione che vanno trasformandosi in fantasmi e in ossessioni di un inconscio non solo individuale ma anche oggettivato nel sociale.

L’importante libro – da te curato per Il lavoro editoriale di Ancona – Del naturale e dell’artificiale, che accoglie articoli e saggi tutti tenuti dal filo di Urbino e ciò che Urbino rappresenta nel mondo, offre uno sguardo perfino sensuale – in termini di sentimento e di scrittura – di Volponi con il luogo in cui è nato e cresciuto. Come è passato tutto ciò nei suoi romanzi, nella sua poesia?

In quel libro, gli articoli e brevi saggi sono caratterizzati da un alto tasso di figuralità. Contrassegnati cioè non da un intento puramente argomen­tativo ma da una tensione immaginativa, a un tempo polemica e utopica. In Cantonate di Urbino (1981), Volponi guida il visitatore della sua città all’incontro col palazzo di Federico, “motore spaziale rotante” di tutto il Rinascimento. La Città e il Duca tuttavia sono anche attualizzati come exempla, figure di una possibile modernità liberata.

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L’immaginario volponiano, acronico e divagante, è sempre popolato dalle vicende ducali: il linciaggio di Oddo Antonio, l’affilata roncola contadina, la flagellazione di Piero, la tavola dell’ostia sconsacrata di Paolo Uccello, la venere opulenta di Tiziano, le tele immense di Barocci.

Analogamente, fra gli articoli pubblicati fra il 1983 e l’84 sul “Corriere della sera”, compresi in quel volume, ci sono cinque scritti fra loro omo­genei: Elogio di quei lupi solitari ed ostinati, Guerra di piume sopra la città, Cosa insegnano quei gabbiani, Quei passeri dell’infanzia, Toro italiano in solitudine. Si tratta di apologhi, o di vere e proprie leopardiane “operette morali”, i cui protagonisti sono animali, solitari superstiti bersagliati dal­la derealizzazione mediatica e dai disastri ambientali. Gli ultimi quindici lupi intenti ad arrotare i denti sui tralicci dei ripetitori televisivi, il toro, solitaria allegoria della sopravvivenza spettrale dei paesi appenninici, i passeri ridotti a cubi alimentari surgelati e importati dalla Cina, i gabbia­ni che abbandonano le coste e si spingono nell’entroterra, le cornacchie metalliche nate dalle discariche, sono figure di fine di un mondo. I duelli fra stormi nei cieli di Urbino, infine, celano a malapena quel “cataclisma” che passa sempre, secondo Franco Fortini, nella pagina volponiana, “con scarti e accensioni quasi surrealistiche”. I piccioni e le cornacchie in guerra fra loro sono la degradazione e il pervertimento dei danteschi “colombi adunati alla pastura” (Purg., II, 125), come già accade nell’agghiacciante iconografia postatomica del Pianeta irritabile. Queste “operette“ volpo­niane, cui occorre aggiungere il Dialogo sull’industria fra pianta e mac­china apparso autonomamente sul “Corriere” il 10 gennaio 1984 e in seguito incorporato ne Le mosche del capitale, rappresentano l’illimitata naturalità con cui si configura l’odierno capitalismo, il suo riprodursi, cioè, su scala mondiale sotto forma di cieca e automatica legge di natura.

Quale il ruolo di stile e di senso di un libro come Il sipario ducale?

Il sipario ducale (1975) guarda dalla specola periferica di Urbino all’avvio della “strategia della tensione”, al potere persuasivo e falsificante delle televisioni, al fallimen­to della forma federale dello Stato sognata da Cattaneo.
Il romanzo si chiude con l’uscita di strada di una Mercedes che scivola su una lastra di ghiaccio, nel gennaio 1970, a po­chi giorni dalla strage di piazza Fontana.
L’auto percorre ad alta velocità la medesima via urbinate su cui transita­va Aspri in Corporale, ma in senso discenden­te anziché ascendente. Nel macchinone di lusso viaggiano il conte Oddi­no e il suo pingue auti­sta Giocondini, due ma­rionette dell’Italia più detestabile, beneficiaria delle trame occulte di quegli anni: quella del­la corruzione, dei servizi deviati, del sottopote­re DC, delle Bombe, dei privilegi mai intaccati, del servilismo, dell’ar­roganza. Il volo fatale del veicolo, è dipinto dunque come invettiva e possibilità utopica di rigenerazione. Il Sipario insiste sul paesaggio ur­binate innevato, come una grande metafora individuale e collettiva: Urbino diviene luogo universale, emblema delle tante italie pro­vinciali, delle tante no­stre piccole patrie, la cui negazione e implo­sione ha poi generato

i fenomeni degeneri dei leghismi egoistici. Il protagonista, il vecchio anarchico Subissoni, si libera liberandosi dai lacci della nostalgia e del ricordo, partendo da Urbino verso Milano: per un’inchiesta politica, che sveli le trame dei Ser­vizi e del Potere. Vale la pena dunque di ripren­dere in mano questo romanzo, considerato in­giustamente minore. Il Sipario ducale è un testo “leggibile”, di struttura tradizionale ma di forte impegno poetico e storiografico.

Ne Il sipario ducale Volponi affronta dal punto di osservazione periferico e “rinascimentale” di Urbino un tema tutt’altro che provinciale: vale a dire l’uso politico del terrorismo che, dal 1969 in poi, ha annichilito i movimenti e ridotto a ca­ricatura mediatica le speranze di cambiamento di un’intera generazione. La vicenda è racconta­ta in terza persona da un narratore onniscente, ed è formata da due storie parallele e alternate: quella del prof. Subissoni e della sua lucida com­pagna Vives e quella del giovane nobile Oddino, delle sue grottesche zie e del suo viscido tas­sista-scudiero. È ambientata negli ultimi giorni del 1969, tra l’esplosione della bomba di Milano del 12 dicembre e il primo annuncio del mini­stro degli Interni che addossava agli anarchici, in base alla testimonianza di un tassista, la re­sponsabilità del massacro. L’immagine del sipa­rio nel titolo suggerisce al lettore in primo luo­go l’artificialità provinciale delle quinte in cui si muovono i personaggi ma anche la costante presenza falsificante della televisione. Il sipario ducale è il primo romanzo italiano a tematizzare l’influenza ulcerante del video casalingo, detto «treppiede occhialuto», sull’immaginario politico di massa. Davanti alle notizie diffuse dal tele­giornale, Subissoni infatti escalma: in silenzio davanti a questo teatrino, – indicò il treppiede occhialuto, – che fa tutto da solo, in­venta e commenta; e spaventa. (p. 24)

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Nel secondo capitolo avviene un vertiginoso sal­to all’indietro di quattrocentotrentanove anni, per passare in rassegna la cruenta e insieme far­sesca fuga di vicende «ducali» urbinati mediante  televisioni il repertorio degli antenati del giovane Oddino tutti morti di morte violenta: Oddo Oddi «travol­to lungo la strada della fortezza», e Oddoanto­nio, trucidato dal popolo inferocito nel 1444. (S. 10-17). Vicenda ricavabile da una celebre opera pittorica che si trova in Urbino: La tavola della flagellazione di Piero della Francesca. La com­ponente strabicamente storiografica del Sipario consiste insomma nel collocare la vicenda all’in­crocio fra Rinascimento e contemporaneità, al punto in cui la genealogia dei nobili di Urbino, gli Oddi-Semproni, e l’orgoglio cittadino anar­chico e repubblicano di Subissoni incontrano le bombe di Milano, la “Strage di Stato”, amplifi­cata ad arte dal teatrino dei media audiovisivi.

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C’è un sentimento che mi abita dalla morte di Volponi: che si sia spenta anche una parte del­la sua città. Camminando le vie di Urbino lo si avverte, soprattutto attraversando la geogra­fia tracciata nei versi e nella prosa. Concordi?

Questa tua domanda, più intima e soggettiva, mi evoca la ragione forse più segreta e profonda della mia “lunga fedeltà”, della mia passione e del mio amore per la scrittura di Paolo, per il suo potere rivelante e cognitivo. Per me, in fondo, la sua Urbino è anche la mia Venezia: un’altra città piena di storia, di arte, di scienza e di industria che la cecità di una modernizzazione incentrata sui simulacri e sulla fiction economy ha ridotto a una grottesca Disneyland, a una periferia del triangolo padano dell’intrattenimento, fra Gar­daland e Rimini. Da quando ho conosciuto la passione utopica di Volponi, queste due Città mi sono sembrate unite, in un cortocircuito perma­nente. E così, sia quando passeggio per le calli veneziane che quando cammino lungo le mura di Urbino, sento accanto l’ombra di Paolo, la sua assenza che si fa presenza e urgenza dolorosa dentro lo spreco smemorato e sciagurato che saccheggia e desertifica le nostre città.

Un aspetto centrale di Volponi uomo e autore è quello costituito dalla pittura, dalla forma­zione, dalla passione, dalla competenza (baste­rebbe Corporale a sancirlo). Cosa puoi dirmi in merito a questo aspetto non certo secondario?

Quello del rapporto fra scrittura e arti figurative in Volponi è uno straordinario tema di lettura e di ricerca, che in futuro spero verrà colto e approfondito. Anche controcorrente rispetto a chi lo considera “autore troppo sperimentale” e soprattutto in senso contrario all’irrazionali­tà miope e bassamente mercantile dell’editoria, che si ostina a non ripubblicarne i libri.

È nota l’appassionata attività volponiana di col­lezionista ed è nota anche la generosità e la re­sponsabilità civile con cui lui e la sua famiglia (la moglie Giovina e la figlia Caterina) hanno donato le due splendide collezioni private alla Galleria Nazionale delle Marche. Qui mi basta solo sottolineare come il lessico della luce e dei colori permei letteralmente la lingua narrativa di Volponi e diventi nelle sue pagine uno stru­mento potentissimo di animazione degli oggetti e dei corpi. Un mezzo espressivo al servizio del “realismo”, inteso come rappresentazione della materialità concreta delle cose.

Questo fenomeno si può apprezzare in vitro nella sua prefazione a uno dei rizzoliani classici dell’arte, in cui la lingua scritta entra in corto­circuito con quella visiva di un grande pittore: Masaccio. In Volponi luce e colori sono di specie squisitamente materiale. Masaccio è da lui pen­sato e raffigurato come un artigiano, intento a dare forma a una materia fatta «di terra e di cielo», e i corpi che dipinge sono frammentati o rimodellati dalle lame di luce: la testa del Cristo in croce «allettante e respingente» è staccata e rimessa al suo posto, la macchia pelosa del pube genera curiosità spasmodica, la Vergine ha un «ghigno», Adamo, cacciato dal Paradiso, è colto nella tensione del «primo urlo». 2

Nella prosa volponiana, dunque, si avverte sem­pre l’agguato di una materia vivente e pesan­te, luci, spazi, misure, personaggi, attinta dal­la grande tradizione pittorica italiana. Non si tratta solo di uno degli esiti di quello che per Pasolini e per i sodales di “Officina”, attraverso l’insegnamento di Roberto Longhi, è stato chia­mato “manierismo” (destrutturazione sintattica congiunta al massiccio richiamo a esperienze figurative: Masaccio, Piero e Caravaggio).

La visionarietà poetica e narrativa di Volponi diviene “di specie pittorica” soprattutto da­vanti alla concreta possibilità del caos. Credo che la pittura, tradotta in scrittura, sia in lui un contrappeso vitale alle forze del caos. Que­sta funzione della luce è evidente nei romanzi maggiormente “esplosivi” come Corporale o Il pianeta irritabile, ma anche nel più tradiziona­le Lanciatore di giavellotto, in cui è il corpo del giovane Damìn che sembra poter esplodere da un momento all’altro:

la luce dorata del tramonto distendeva la città nelle sue ampie proporzioni, serena e solenne in ogni piazza e strada. Damin ne fu colpito anche per la somiglianza che trovava fervida tra ogni architettura e la sua bellezza e il volto e la figura della madre: lo stesso portamento e lo spesso ansare calmo della luce e dei gesti. Sua madre era bella e nobile come Urbino, come quella cit­tà piena di tempo e di storia eppure aperta e viva. Anche sulla città erano passati tiranni e prepotenti e anch’essa era stata invasa e piegata a poteri contrari. Dovevano esserci ancora i posti e i segni delle loro violenze e distruzioni; anche se quella luce avvolgeva tutto di uguale bellezza e continuava, caduto il sole, come se promanas­se dalle stesse superfici che toccava. (…) La luce divenne più bianca, come per seguire il rimorso che ormai risorgeva nel petto di Damìn.

A quel biancore cercò di tenersi per non essere di nuovo travolto dalle ondate della sua verità: per potere fermarsi prima delle consuete scari­che di associazioni e di dolore.

La casa urbinate di Via degli Orti è all’ingresso sulle mura di cinta, memoria e vuoto. Quanto manca la voce necessaria di Volponi a Urbino e all’Italia, in senso politico, civile e letterario?

La passione civile di Volponi è ben esemplificata dagli interventi parlamentari (che ho curato due anni fa per Ediesse col titolo di Parlamenti, e con l’aiuto di Massimo Raffaeli, Enrico Capodaglio e Sofia Pellegrin). Quando Paolo Volponi, nel luglio del 1983, è eletto al Senato, l’Italia sta imboccando la via che la porterà dritta al nostro presente. Il 4 agosto s’insedia il primo governo Craxi, la cui parola-chiave è “modernizzazione”: il lemma destinato a diventare luogo comune sia nel lessico del “centro-destra” che in quello del “centro-sinistra”. In quel preciso momento s’ inizia ad esaltare la forma privata dell’appropriazione mentre la politica si spettacolarizza: viene varato il decreto che taglia la scala mobile e si affermano le televisioni commerciali.

Alle prime privatizzazioni fa da sfondo una vitalità inaudita del malaffare e paral­lelamente, l’economia italiana vive momenti di cieca euforia: si forma un nuovo ceto di arrampicatori, la Borsa di Milano aumenta di quattro volte la propria ca­pitalizzazione, giungono alla ribalta nuovi spregiudicati “condottieri”, come Raul Gardini nel campo della chimica o Silvio Berlusconi in quello dei media.

Volponi, anche da senatore, è innanzitutto un grande scrittore: in una lettera a Franco Fortini, scritta all’indomani della propria elezione, dichiara infatti di voler impostare i suoi rapporti con la politica “da scrittore”, per “tentare di organizzare una verità sociale come romanzo o poema”.3 Solo per fare un esempio, per contrastare la fiducia alla legge Mammì che spalancava la porta alle televisioni Fininvest, Volponi si batte smascherando e rovesciando ironicamente i significati del termine “fiducia”: questo Governo sembra anche avere poca fiducia per se stesso: la realtà è che esso non tanto chiede la fiducia al Parlamento, ma la chiede ai due grandi enti della televisione, alla Rai e alla Fininvest. Il Governo sa di vivere attraverso questi due grandi canali. Questi sono i veri agenti della fiducia ai quali si rivolge il Governo e dai quali il Governo riceve fiducia! La successiva trasformazione di quel duo­polio in monopolio della Presidenza del Consiglio, sotto i colpi ben asse­stati dei professionisti del marketing, rende ragione di quanto senno vi fosse nelle poco ascoltate parole del grande senatore-scrittore.

Contro questa fissità, “segretezza” e “devozione”, Volponi, con la passione linguistica e civile che abita i Discorsi parlamentari, ci attesta come un’altra Italia sarebbe stata possibile se solo avessero trovato ascolto l’onestà cul­turale, i progetti e le tensioni ideali e morali di cui la sua molteplice espe­rienza industriale, poetica, politica e letteraria è il più prezioso documento. Se un’etica pubblica in Italia, in futu­ro, sarà di nuovo possibile, e se le nuo­ve generazioni troveranno un varco, ciò avverrà anche grazie all’eredità di Paolo Volponi, alla sua indignazione e alla sua speranza.

 

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