“Muse” piccolo viaggio di poche parole – Francesco Scarabicchi

lampadari x copertina

“Muse” piccolo viaggio di poche parole – parte 3 di 3

di Francesco Scarabicchi
tratto da nostro lunedì
n.1 scene – prima serie

La distribuzione del chiaroscuro sceglie i diversi rapporti di grandezza, i toni degli spazi, la consistenza dei vuoti, la non pesantezza dei pieni, anche se tutto si concentra al crocevia di una stabilità e di una solidità rare, quella del mattone faccia a vista che determina il senso delle gigantesche, austere dimensioni e le remote distanze in cui lo sguardo si annulla e scompare, rapito da un mistero difficile da decifrare, che forse consiste nella coscienza di riconoscere vero il luogo, il tempo, l’anno del mese, il giorno, i rumori, l’odore acre di ferro tagliato da una fresa, le scintille ardenti, la polvere dappertutto, i fischi, l’andirivieni, i dialetti della babele del cantiere, le bottiglie, il disordine. Uno vento strano e un’aria sconosciuta abitano quell’arca che termina a tetto, oltre il salone delle feste, sotto nuvole grandi e bianche, su altri coppi e terrazzi e antenne di un’Ancona che forse ancora non sa che è stato possibile arrivare fin lassù, increduli per decenni, tutti, senza illusione alcuna d’avere il bene tanto atteso, lo stesso che, già così, muta in altro l’anima del luogo, il suo destino d’isola ad oriente, porto e pietra bianca, dalla Cattedrale del Guasco alla Mole, lungo le vie che la fanno faticosa, ostica, tenera e dolce come il sesso salmastro di un’ostrica o di una cozza.

Argento, nero e oro dominano la scultura che Valeriano Trubbiani ha pensato, ideato e realizzato per il sipario tagliafuoco, le tonnellate di saracinesca metallica che sostituiscono l’antica tela dipinta da Giovanni Bonsignori (Traiano trionfante, a cavallo, dalle vittorie sui Daci come nel fregio a rilievo della colonna romana del Foro omonimo) andata in fiamme e cenere dopo le bombe inglesi del primo giorno di novembre 1943. Sulle doghe e i fasciami di nave di terribile grazia opaca – acciaio inox satinato e bullonato come la fiancata di un incrociatore – stanno le nicchie dei sette angeli telamoni, reggitori di tre putti con le ali e di quattro mascheroni (gorgone sui generis senza chiome di serpenti e senza sguardo impietrito, figlie sceniche d’un’altra teatrale macchina scultorea, sorta di ennesima favola barocca nel regno simbolico e visionario di un artista votato al fondo incandescente e buio d’ogni sua solitaria notte).

ruota

Al centro, il vano del sole che poggia sull’arco dell’Imperatore con, sotto, la triremi e poi la combinazione figurale di sette cavalli e un cavallino dalle undici zampe quasi rampante sulla chiocciola d’onda (nera anch’essa). La regia plurale degli elementi che costituiscono il cuore del sipario è pura rappresentazione nell’atto perenne che precede l’altra scena coperta finchè lentamente il meccanismo di argani e contrappesi non lo chiama verso l’alto, a scomparsa, nel sonno delle pause. quest’opera si combina in una soluzione di forme che scelgono l’intensità non clamorosa dell’opaco specchio che inghiotte e restituisce, con perenne moto, la composita narrazione che si fa confine di epoche ed eventi, allegoria e memoria del tempo che non ha ritorno, sepolto eppure lucente frammento dell’umano che transita verso il “mai” che l’attende e lo cancella. Trubbiani ha offerto la sintesi che dimora all’interno d’ogni fibra del teatro, l’ossimoro che fa di questa città della scena la metafora dell’altra, l’Ancona storica e urbana, mercantile e politica, civile, aristocratica, plebea, colta, ignorante, elegante, rozza, sensibile e indifferente “ai suoi crimini e alle sue musiche”.

Lo scarto sta nel sogno di una architettura di armonie, nel suo definire, dal niente senza forme, il senso e la coniugazione dei contrasti, la virtù classica della tradizione e l’esigenza d’essere contemporanei del presente in un’epoca che predilige la cancellazione della misura e del gusto e ferisce a morte ogni omaggio alla bellezza che consegna un’idea meno precaria e brutale dell’esistere di ognuno che non si ripeterà. “Ci resta ancora da parlare di come si debba consegnare al pubblico ciò che si è costruito durante le prove. è necessario che la rappresentazione pubblica si impronti al gesto di consegnare una cosa finita. Allo spettatore si presenta ora quello che non si è respinto dopo averlo provato più volte; e le figurazioni ultimate debbono essere consegnate in piena coscienza, affinché in piena coscienza possano essere accolte.”

operai2

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