Penso quindi…suono

nostro lunedì n.7 – pensare

brano di Paolo Capodacqua, tratto da
nostro lunedì
n.7 – Pensare – prima serie

Tema: “Pensare la musica…”. Come se fosse facile …
Ci penso, lascio, riprovo. Il pensiero e la musica, due oggetti immateriali messi insieme, un’associazione che dà come risultato una sorta di astrattismo al quadrato. Lascio da parte tutta la letteratura in materia, sorvolo su Croce, Bergson, Langer, tutti gli autorevoli interventi sull’argomento e, più modestamente, parto dalla mia esperienza (due punti…). Io “penso musicale” con tutto il bagaglio culturale (inteso come “cultura musicale”) di una creatura umana del secolo ventunesimo, con alle spalle la monodia medievale, la polifonia fiamminga, il temperamento armonico, la a-tonalità, la dodecafonia, il rumorismo e… il silenzio di Cage. Il pensiero musicale, (e quindi il pensare musicale) è storicizzabile.
Insisto sempre con i miei allievi nel presentare la Storia come un magma in movimento in grado di trascinare con sé tutti gli aspetti della vita, della società, dell’Arte, elementi tra loro interagenti e influenzabili a vicenda. Il musicista medievale pensava “monodicamente” (una sola voce, una sola linea melodica), così come l’artista medievale dipingeva a due dimensioni. La “scoperta” della polifonia dell’Ars Nova equivale alla “scoperta” della prospettiva nella pittura: le tre dimensioni, il senso della profondità. La forma-sonata del Classicismo musicale corrisponde al tentativo di “razionalizzare”, in pieno Illuminismo, il processo creativo e, via via sorvolando, la dissoluzione della tonalità nel ‘900 è la perdita del “Centro” di quella umanità dolente che assiste a tragedie mondiali ed olocausti. Il pensiero musicale, insomma, è figlio del proprio tempo. Pensare la musica non può prescindere da ciò che siamo e dal tempo che viviamo. Nel nostro patrimonio genetico sono incastonati secoli di musica, (paradossalmente anche quella che non abbiamo mai ascoltato), che saltano fuori, e che inconsapevolmente noi mettiamo in gioco, nel momento dell’ascolto. La musica ha (è) un linguaggio che tutti, o quasi, comprendono, anche se non tutti sanno spiegare o motivare. Non vorrei addentrarmi in discorsi teorici, ma ritengo che tutti siano in grado di percepire “fisicamente” la differenza tra una cadenza perfetta ed una cadenza evitata, così come simili suppongo che siano le reazioni emotive di ognuno di fronte a queste due diverse “comunicazioni” musicali. Per terminare l’esempio: la cadenza perfetta ci dà la sensazione del lieto fine, della storia che si chiude in maniera compiuta e senza strappi, la cadenza evitata fa sbandare la catarsi dell’ascoltatore e trasmette tutta l’ambiguità di un finale “aperto”, suscettibile di sviluppi o, addirittura, tragico. Tornando alla mia esperienza: posso dire che, personalmente, penso sempre in musica?

Penso in musica i pensieri, i concetti, le frasi, le parole, i volti, le azioni, come se la musica fosse connaturata ai miei processi cerebrali e da essi inscindibile, come se la musica fosse l’elemento poetico del pensiero stesso.

La mia esperienza professionale mi ha portato a confrontarmi con le parole, la poesia, le immagini, la narrazione, il teatro, e questo mi ha abituato a pensare la musica spesso per associazione ad altri linguaggi, ad altre forme d’espressione. In tutti questi casi non ho mai inteso la musica come un mero sottofondo di “colore”, ma, piuttosto, come amplificazione emotiva dell’altro linguaggio, come componente fondamentale di una composizione unitaria fatta di musica e… poesia, immagine, racconto… Nell’”accompagnamento” delle letture poetiche, ovvero nella sonorizzazione delle poesie, per esempio, il mio “pensare musicale” è sempre teso verso la ricerca di una sorta di dilatazione semantica della parola, nel tentativo di ricreare quella magnifica zona franca dove l’agognata unità di poesia & musica possa realizzarsi in tutta la sua compiutezza. In questo pensare musicale c’è, innanzitutto, il sentire e l’ascoltare.

Poi c’è la ricerca del nervo scoperto del testo, la compenetrazione “fisica” ed emotiva del linguaggio “gemello”. Infine c’è la risalita verso la creazione di una cosa altra.  Un processo istintuale (ed istantaneo) filtrato dall’emotività, dalla passione… dal pensiero…. Ci sarebbe poi da dire della trasmutazione fisica del pensiero musicale, delle dita che “pensano”, ma ci vorrebbe un numero intero di “nostro lunedì”. Voglio invece brevemente soffermarmi, così come mi è stato richiesto, sull’esperienza concernente la composizione di canzoni.

Anche scrivere una canzone è uno straordinario viaggio de chambre. L’annosa questione del “prima il testo o prima la musica” che ci assilla da Metastasio in poi è un falso problema che può riguardare tutt’al più certa musica leggera scritta a tavolino da parolieri e melodisti di professione. Per quanto mi riguarda, all’inizio è l’Idea!

Che può presentarsi attraverso un flash, una frase, un finale di frase, spesso con già la musica. Poi subentra un lavoro di tessitura: un passo avanti il testo, un passo avanti la musica. In genere si arriva a scrivere quasi com­piuta­mente una stro­fa mu­sicale, ma­gari con il testo ancora incompleto e intanto si va avanti, o indietro, con l’inserimento di parti di testo sulla struttura musicale che via via si va definendo.

In seguito inizia un la­voro di limature, cambi, adat­tamenti metrici, arretramenti o avanzamenti d’in­te­re strofe e così via.

I risultati possono essere straordinari (non è il mio caso, ma lo è sicuramente di alcuni “Cantautori” italiani e francesi), discreti o mediocri.

La cosa certa è che, almeno all’inizio di questo processo, non c’è un pensiero per la musica ed uno per il testo, ma si crea e si inventa pensando mu­sica e testo insieme, in una sorta, anche qui, di utopia realizzata, quella evocata dal pensiero dei lirici greci o dai buoni auspici di Giacomo Leopardi: l’unità primigenia di poesia e musica.