Una lettera – Emanuele Trevi

di Emanuele Trevi
Tratto da nostro lunedì
n. 3 – Libri

Caro Francesco, se è vero quello che dice Freud e ripetono i surrealisti,
cioè che la prima associazione, la prima cosa che ti viene in mente è la più importante
e profonda, allora, per me l’idea stessa di “libro importante” si collega immediatamente
a “il grande meaulnes” di Alain-Fournier. Non a quest’opera considerata in astratto, però, come mi è possibile pensarla adesso. Di questa, non saprei cosa dirti
di molto interessante: probabilmente, si tratta di un libro sul viale del tramonto,
di stile un po’ enfatico, che sta perdendo irreversibilmente i suoi lettori
come una trottola perde i suoi giri.
Lo so anche perché una volta un grosso editore mi ha chiesto di scrivergli l’introduzione
a un classico per la sua collana economica, e quando gli ho proposto “il grande meaulnes” mi ha detto di no, che non vendeva più tanto nemmeno in Francia – così va la vita.
Ma io sono stato uno degli innumerevoli ragazzini che si sono imbattuti in questo libro quando erano appena in grado di leggerlo: che non vuol dire solo essere in grado
di “capirlo”, ma anche di scavarsi una tana da qualche parte, uno spazio di solitudine inviolabile, un luogo fisico oltre che mentale da dedicare alla relazione con quelle pa-gine. Quindi l’idea del “grande meaulnes” che subito si associa in me a quella
di “libro importante” è inseparabile d’altra parte dalla memoria di una particolare veste editoriale, una collana di classici dei fratelli Fabbri di prezzo molto popolare,
con assurde copertine dure di cartone imitanti la pelle, di diversi colori a seconda
della nazione dello scrittore. I miei genitori ne avevano parecchi, tutti molto puntuti
agli angoli, con il titolo finto-dorato sulla costa che tendeva a sbiadire – decisamente, oggetti poco invitanti già allora, figuriamoci oggi. Proprio lì, secondo me, nella loro aria sfigata e dignitosa, da europa dell’est, stava il bello di questo tipo di libri con i quali siamo cresciuti. Era il 1978. Mi ricordo bene la data perché in quelle settimane leggevo,
oltre al “grande meaulnes”, anche le lettere di Aldo Moro dalla prigione delle BR,
che uscivano sulla “Repubblica”, il giornale dei miei genitori. Non ero tanto bravo a scuola, non mi interessava nulla di quello che insegnavano e facevano leggere, non stavo nemmeno a sentire. Non guardavo la tv, a quei tempi si faceva ancora poco.
Andavo ai cortei, e con l’incoscienza dei ragazzini avevo già conosciuto la prima linea,
la terra di nessuno dove rotolano i sassi e le bottiglie e dove avanzano i caschi e gli scudi dei celerini. Ma non avevo idee particolari, ero felice di stare nel mucchio, un soldato semplice di un esercito in rotta, arruolato all’ultimo momento, quando ormai non c’è più nulla da fare. Nella mia testa, insomma, c’era ampio spazio per Aldo Moro
e Alain-Fournier. La parte del romanzo che mi era più piaciuta non era tanto quella
del “reame misterioso” e della festa in cui meaulnes conosce Yvonne.

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Certo, è un’invenzione narrativa stupenda, che non può passare inosservata agli occhi
di un ragazzino di quindici anni. Ma, come ricorderai sicuramente anche te, oltre a questa storia struggente e a suo modo terribile nel romanzo ce n’è un’altra, più segreta, raccontata senza linearità, per sussulti e apparizioni. E’ la storia degli zingari, e del fratello di Yvonne. Si tratta di incontri fortuiti, di messaggi ambigui, di contatti umani intessuti
di sorpresa, violenza, seduzione. Meaulnes è progressivamente, inesorabilmente attratto verso il centro di questa cospirazione serale. Non può resistere al richiamo
dei messaggeri dell’altrove. Il protagonista di una storia d’amore diventa il beneficiario
di un’iniziazione, che sbriciola e rende impossibile la storia d’amore. E’ questo spreco
che mi affascinava, quel raccontare due storie dove una sarebbe stata più che sufficiente – ci vedevo una conoscenza preziosa, qualcosa di utilissimo da sapere
anche se impossibile (oggi come allora) da definire in parole. In effetti, Roma in quei tempi era piena di “zingari” di ogni tipo. Brulicavano addirittura nei vicoli intorno a Piazza Navona e Campo de’ Fiori, che ancora erano luoghi reali della città e non vetrine per turisti
come adesso. Si ascoltavano strane storie, si faceva tardi, si chiamava da una cabina
per avvertire a casa che non saremmo tornati a cena, ci si appartava, si guardava gli altri appartarsi. Si infilavano portoni, si entrava in stanze con letti sfatti e luci e basse, in cucine con la cannella del lavandino gocciolante e pacchi di sale umido ridotto in blocchi.
Ogni incontro presupponeva e causava un vacillamento, un improvviso allargarsi
e deformarsi dello spettro delle conoscenze. C’era gente che aveva navigato sull’oceano indiano e gente che era marcita per anni in galera e gente che aveva preso la mescalina
e gente che scriveva poesie e gente che vendeva vestiti usati e due gemelli tossici, identici e bellissimi, che a casa loro, un sottoscala fetido a via dei gigli d’oro, mettevano
in scena la “lettera al padre” di Kafka in cambio di un po’ di soldi o anche di cibo e sigarette e bottiglie di vino. Bene, tutti i salmi finiscono in gloria, e anche alla fine di questo ricordo c’è solo da dire che ormai non resta niente, nemmeno quell’edizione del “grande meaulnes” con la copertina verde. Mi accorgo adesso, caro Francesco,
che invece di “libro importante” si potrebbe parlare di “libro sparito” – i due concetti
si sovrappongono. Niente più “grande meaulnes”, niente più ragazzino che lo leggeva. Spariti, inghiottiti dal mutamento. mi ero ripromesso di non farlo, ma non posso
che far finire questa storia su una nota malinconica. La malinconia, penso,
non è il peggiore dei mali. E’ il prezzo inevitabile che si paga quando qualcosa di bello ci è apparso, è rimasto di fronte a noi il tempo sufficiente a deriderci e proteggerci,
e poi se ne è andato via, lasciandoci giusto sull’orlo del capire,
del tirare la somma, dell’afferrare…

 

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