Una vitaccia

nostro lunedì n.9 - marche

brano tratto da nostro lunedì n.9 – marche – prima serie

Sono stato sempre piuttosto sospettoso nei riguardi del mondo. C’è un motivo, a quanto mi hanno raccontato poi. Ero nato da una diecina di minuti, quando mio padre mi afferrò con una mano per i polpacci e mi portò in giro a penzoloni per tutto l’ospedale, urlante a testa in giù, a mostrarmi ai colleghi. Questo accadeva nell’Ospedale Civile di Ancona, dove mio padre era chirurgo, aiuto del primario, il professor Cappelli. Mio padre si chiamava Eitel Alessandri. Il nome gli era stato conferito a suo tempo da sua madre colpita dalle foto del bellissimo principe Eitel Hohenzollern, in visita nel nostro paese al principio del secolo scorso. Credo che in Italia l’unico altro Eitel sia stato Eitel Monaco, dell’ambiente cinematografico. Mio padre aveva un caratteraccio. Il professor Cappelli, che aveva fama di essere una persona intrattabile (credo che soltanto così si possa mandare avanti un ospedale con efficienza) diceva del suo assistente: “Con Alessandri bisogna stare attenti…” (Personalmente mi ricordo il professor Cappelli come un allegro signore dai capelli bianchi, con sua moglie sempre sorridente, la signora Giacomina, ma probabilmente perché si trattava di incontri fuori dall’ospedale.). Per quel che riguarda il carattere di mio padre, una spiegazione poteva essere che aveva partecipato alla guerra d’Africa, impiantando un ospedale ad Addis Abeba, dovendo trattare con corruttori, gerarchi, gente che cercava di farsi un nome da ‘eroe’ con qualche sbucciatura, tutto a spese dei feriti veri.

E per lui i feriti e gli ammalati erano sacri.
Bene, era cominciata la guerra e dalla casa nostra, in via della Cupa si vedevano arrivare nel porto le navi ospedale dalla Grecia e dall’Albania. Mio padre era stato destinato come chirurgo all’ospedale militare e praticamente si trovava a dover fare più di una diecina di operazioni al giorno, perché ovviamente venivano sbarcati immediatamente i feriti gravissimi. A casa aveva messo una branda sotto il telefono in corridoio e dormiva lì. Quasi sempre, quando la mattina ci alzavamo, lui se n’era già andato all’ospedale e il corridoio era pieno di fumo delle sue sigarette. Mi raccontarono anni dopo che per questioni di tempo faceva venire i soldati da operare presso la sala operatoria e faceva uscire con le sue gambe un operato con anestesia locale per fare entrare il successivo. Oggi quella di far muovere subito un operato è una prassi molto comune, ma allora…
D’altra parte i casi erano tanti che non si poteva fare altrimenti. Una volta lo andai a trovare all’ospedale. Subito dopo l’entrata c’era una scala ripida che portava direttamente al primo piano. Sull’ultimo gradino c’era seduto un soldato che leggeva un giornale. Mentre mi apprestavo a salire in cima passò mio padre che gli tirò una pedata, facendolo ruzzolare per molti gradini.

Mi fermai allibito e spaventato. Da lassù mio padre gridò al malcapitato: Lo senti di là quel bersagliere? Lo senti che ti chiama: “Piantone…” per un po’ d’acqua? Lo senti? Quello è gravissimo, domani muore, ti chiede da bere e tu te ne freghi e resti qui a leggere il giornale…

Sì, aveva un caratteraccio, ma anche dei motivi per averlo. Venne il primo dei settantadue bombardamenti che funestarono Ancona. Mi ricordo che da via della Cupa si vedevano esplodere giù le case con le travi che volavano e sembravano dei fiammiferi…
Mio padre si affrettò a trasferire la famiglia nel Montefeltro, ma ovviamente lui rimase all’ospedale e se li fece tutti settantadue.

Con l’8 settembre ci fu una smobilitazione generale. Lui rimase all’ospedale assieme a una suora (che era la sorella del cardinale Shuster, ma non ne ricordo il nome.) Da soli i due curavano i feriti, facevano le operazioni, facevano le pulizie, se uno moriva lo seppellivano, se uno era di nuovo in grado di camminare lo buttavano fuori. Dentro non facevano differenza tra italiani, tedeschi, alleati: appena uno era in piedi, fuori.
La cosa durò qualche mese, finché dall’ospedale uscì l’ultimo. Finalmente poté raggiungere la famiglia.

(Incidentalmente nel dopoguerra ebbe delle noie perché aveva continuato a prestare servizio dopo l’8 settembre, come se in quel periodo e in quelle condizioni di bombardamenti quotidiani fosse in grado di badare a quello che succedeva fuori, ma venne riconosciuto che come medico non poteva fare altrimenti.) Quando dopo la guerra tornò in Ancona a vedere cosa si poteva recuperare dalla casa bombardata, questa era occupata dai polacchi dell’VIII Armata. Avevano visto qualche copia della rivista italo-tedesca “Signal” che tutti compravano perché le notizie sulla guerra erano meno censurate (tipo: “Il nostro reggimento si è ritirato,” mentre la radio italiana diceva “Le nostre forze si sono gloriosamente spostate su posizioni prestabilite”…)

Viste le foto con militari tedeschi, avevano deciso: qui ci abita un nazista.
E avevano bruciato la biblioteca. Erano centinaia di libri, comprati fin da quando era studente. Davanti casa, in una grande aiuola, al posto della palma che aveva contenuto e che un bombardamento aveva distrutto, c’era un enorme mucchio di cenere ancora fumante.  Mio padre non comprò più un libro in vita sua. Durante le sue prime ferie mi portò in giro per l’Italia sulla sua “Topolino” (la prima 500) recuperata dalle macerie di Ancona e restaurata alla meno peggio.

Bene, dovunque ci fermassimo, dovunque, giuro, c’era qualcuno che gli si avvicinava cordiale. Era un ripetersi di “signor dottore,” “signor tenente,” “signor capitano, “ “signor maggiore,” a seconda del periodo in cui erano stati curati.

Lui, ovviamente, non po­teva ricordarsi di chi fossero, date le migliaia di feriti e ammalati di cui si era occupato, ma faceva cortesemente finta di ricordarselo, aggiungendo una scherzosa frase di pram­matica: “Ma non eri morto?” Negli ultimi anni di vita mi disse una volta: “Tutto quella che ho fatto, lo rifarei. Ho solo un rimpianto, di non essere mai riuscito a mandare in prigione neanche uno di quei medici collusi con farmacisti a spese degli ammalati, anche se ogni volta che ne scoprivo qualcuno, lo de­nunciavo. E molti an­ni prima, parlando del mio futuro mi aveva detto: “Non fare il medico, mi raccomando. Perché o lo faresti solo per fare soldi, e al­lora saresti un mascalzone, o lo faresti per fare davvero il medico, e allora faresti una vitaccia per tutta la vita.”

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