Futuro tecnologico: al MIT è già domani

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50 scienziati, 140 ricercatori, centinaia di studenti: così a Boston un trust di cervelli senza frontiere geografiche o mentali inventa il nostro futuro. Tra i luoghi del pianeta che aspirano ad essere i “laboratori” del nostro domani, un posto speciale spetta al Media Lab del Massachusetts Institute of Technology (Mit). Dalla sua fondazione, 25 anni fa, a opera di un visionario della società digitale come lo scienziato Nicholas Negroponte, il Media Lab del Mit è stato una prodigiosa fucina di invenzioni: molte delle sue creature sono ormai parte integrante del nostro modo di navigare su Internet, di usare i telefonini, o più di recente hanno segnato gli usi dei tablet per la lettura digitale. Da sempre il Media Lab s’interessa della “convergenza” tra diverse sfere della creatività umana: elettronica, informatica, scienza delle comunicazioni. Ma adesso, se possibile, ha “alzato il tiro” con una sfida perfino più ambiziosa: disegnare le nostre città del futuro. Il progetto si chiama City Science, e sotto questo cappello collaborano 27 centri di ricerca, specializzati in discipline scientifiche molto diverse tra loro. Più che “interdisciplinare”, una parola talmente abusata da suonare un po’ retrò, il Media Lab preferisce definirsi “anti-disciplinare”, per abbattere le barriere che separano gli specialismi. È proprio dal progetto di “scienza delle città” che emerge una rassicurante rivalutazione del nostro passato: intendo dire, il modello urbanistico delle città d’arte italiane, dei nostri borghi medievali. “Back to the future”, un balzo indietro nel futuro, insomma. Due dei leader di City Science, gli architetti Ken Larson e Ryan Chin, lo hanno dichiarato esplicitamente: “Le città che funzioneranno meglio nel futuro saranno molto simili a quelle antiche, costruite prima dell’avvento dell’automobile, con piccoli quartieri e comunità di vicinato, aree larghe al massimo uno o due chilometri di diametro ma capaci di contenere tutti i servizi che gli abitanti desiderano per la loro vita quotidiana. Perciò noi abbiamo deciso di trapiantare tecnologie avanzatissime sulla migliore forma abitativa ereditata dalla storia umana“. Il terzo millennio appartiene quindi a una “città cellulare”, ripensata su misura per l’era digitale, ma con quartieri piccoli, a dimensione umana: proprio il modello italiano rivisto e adattato. La chiave tecnologica di questa nuova forma di città, la si può intuire seguendo due dei progetti di ricerca che vedono la luce nel campus del Media Lab. Da una parte c’è il prototipo della Robo-Car che presto vedrete anche nelle strade d’Europa. È un incrocio fra una Smart, un’auto elettrica, con in più il concetto della “share-economy”, l’economia della condivisione. Piccola ma soprattutto pieghevole, questa CityCar può trasportare comodamente quattro passeggeri, ma una volta arrivata a destinazione si “auto-riduce”, si avvolge su se stessa e occupa il posto-parking di un motorino. Non è solo a emissione zero, è soprattutto un’auto nata per non avere un proprietario. Ispirata al modello ZipCar che nacque a San Francisco ed è dilagato in tutte le città americane, la CityCar prende atto che le nuove generazioni vivranno davvero in una “economia dell’accesso” come quella teorizzata da Jeremy Rifkin. Vuoi per ristrettezze di reddito, vuoi per un cambiamento di paradigmi valoriali, la “share-economy” o economia della condivisione è già una realtà di massa: molti giovani si disinteressano dell’aspetto proprietario, cio che vogliono è avere l’accesso, poter usare un bene o un servizio quando serve. I “dinosauri” affezionati alla proprietà, non si rendono conto di quanto questa sia inefficiente: il padrone di un’automobile mediamente la usa solo per il 7% del tempo disponibile. Ripensare le città del futuro, su misura per un’etica dell’accesso, ecco una delle sfide più avvincenti su cui si misurano le équipe di ricerca del Media Lab. La CityCar non è fantascienza: in Europa l’anno scorso le ferrovie tedesche (Deutsche Bahn) ne compreranno un vasto contingente da mettere a disposizione dei passeggeri in arrivo nelle loro stazioni. Il modello successivo, che sta già vedendo la luce nel campus Mit vicino a Boston, è interamente automatico, si guida da solo, è una RoboCar con software in grado di minimizzare i rischi di incidenti (compresa la “voce amica” che avvisa il pedone del suo passaggio e lo invita a traversare con precedenza). Se la casa si trasforma Il traffico urbano, e l’inquinamento connesso, è solo un tassello dei problemi da risolvere con la City Science. Un’altra sfida, che intreccia anch’essa la tecnologia con i problemi socio-economici, riguarda le abitazioni. I giovani non hanno capitali da investire nel mattone. E tuttavia amano abitare in centro. Come conciliare lo scarso patrimonio, con le esigenze di qualità della vita? Ecco nascere la transformable CityHome: un appartamento di modeste dimensioni, ma anch’esso “robotico” e pieghevole, con pareti che si adattano e si trasformano tra il giorno e la notte. Di giorno mini-uffici, di notte mini-camere da letto con salottini per la vita sociale. In quanto al verde urbano, non è solo decorativo: grazie all’agricoltura idroponica, pomodori e zucchine crescono in “borse d’acqua” sospese ed hanno qualità nutritive perfino superiori (l’ortofrutta idroponica è già in vendita a New York negli scaffali di Whole Foods, la più grande catena di ipermercati “bio”). Tutto ciò vi sembrerà molto astratto, la classica fuga in avanti degli scienziati avulsi dalla realtà sociale. E invece il Media Lab vuole restituirvi anche la sovranità. La progettazione delle nuove città a dimensione umana, è stata studiata secondo un percorso democratico, dal basso. È il modello Lego. Per davvero: al Mit hanno deciso di usare i modelli Lego per coinvolgere le popolazioni nel riassetto urbano. Il Lego è facile da usare, molti di noi ci hanno giocato da bambini, è un “linguaggio architettonico” che consente ai profani di cimentarsi con l’urbanistica, di non sentirsi esautorati da progetti che calano dall’alto. Non parliamo di élitismo: anche questo pericolo viene contrastato. Il Media Lab ha negoziato alleanze e collaborazioni con diversi governi di nazioni emergenti in Asia, Africa, America latina. Giusto: è là che stanno accadendo processi di urbanizzazione sconvolgenti, le città del futuro rischiano di essere dei mostri proprio in quei paesi. Con 50 scienziati da tutto il mondo, 140 dottorandi con borse di ricerca, e anche centinaia di studenti in corso di laurea, il Media Lab lavora a 360 gradi. Un altro dei suoi scienziati di punta, Hugh Herr, è balzato agli onori delle cronache dopo l’attentato alla maratona di Boston dove molti feriti hanno subìto amputazioni degli arti. Herr aveva perso le sue gambe in un incidente molti anni fa, è all’avanguardia nella progettazione di nuove protesi “intelligenti”, che usano un software di “interazione sensoriale” col cervello per essere sempre più simili agli arti naturali, ridurre dolori e disagi. Il Media Lab riesce a stupire anche nella persona del suo grande capo. Il successore di Negroponte è uno scienziato giapponese, Joi Ito, che nonostante il suo genio tecnologico non è mai riuscito… a laurearsi. Ito ha frequentato corsi sia alla University of Chicago che alla Tufts, ma senza mai arrivare fino in fondo. Un drop-out alla Bill Gates è un fenomeno non particolarmente raro nell’industria hi-tech, ma ai vertici di un’istituzione accademica sì. Quando c’è stata la cerimonia inaugurale dell’anno accademico (“commencement”), Ito ha preferito non partecipare: indossare la toga di ordinanza sarebbe stato scorretto, per un non laureato. Questa è l’America che ancora ha una lunghezza di vantaggio sul resto del mondo: guarda al talento, ai risultati, più che ai pezzi di carta.

Fonte: la Repubblica, Federico Rampini.

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