Gente di teatro – Ezio Bartocci

Di Ezio Bartocci
tratto da nostro lunedì
n. 2 forme – prima serie

ll testo che qui si offre è uno scritto inedito di Ezio Bartocci
nato, nel 1996, durante la stagione lirica del Teatro Pergolesi di Jesi.
Gli sguardi che, nelle diverse “visite”, egli lancia al lavoro degli operai dietro le quinte
si condensano in segni, inchiostri, tecniche miste, matite, pastelli e parole,
come in una sorta di insolito taccuino o diario che si discosta dal suo stile consueto perché ogni “scena” è colta dal vivo, con la rapidità della mano che traccia forme
o annota frasi assai diversamente dai suoi cicli di opere d’invenzione o da quelle pensate al tavolo dello studio. La “presa diretta” è il comune denominatore di questi passaggi,
la sintassi di un’esperienza particolarissima e rara che vibra dell’intensità del “momento”
fissato sulla carta, una memoria venata di istanti colti prima di perdersi e segnati
da quella particolare musica estemporanea che accompagna tanta parte dell’arte cosiddetta d’occasione che invece nasconde e rivela le silenziose sapienze
che definiscono uno stile e la sua vocazione ad esprimersi là dove la precarietà
sembra assoluta e invece è solo un’ulteriore opzione del cammino che contiene
il privilegio ineffabile del viaggio.

30-31

Le luci sono basse e il tam tam delle martellate nel bollare le assi supera i diversi timbri delle voci. I richiami disordinati degli operai che passano gli attrezzi, o tirano le funi
per sollevare finte pareti, tavole e parti di scene si mescolano allo strusciare di bauli
e al trascinamento di mobili.

Tutta questa gente che traffica qui e va e viene in questi giorni non vestirà mai sulla scena
i costumi di Romeo e Giulietta. Nei volti non c’è tensione, né trucco: niente cerone, please; e se un po’ di sudore bagna la fronte, non è certo per le forti luci dei riflettori.
Tra i tipi che abitualmente lavorano per lo spettacolo e sanno di non essere attori,
c’è sempre quello che non resiste alla contaminazione dell’ambiente e recita un po’
forse per misurare la tenuta dei colleghi, un po’ per piacere a se stesso.
Così un facchino, mettiamo, entrando in scena attraverserà il palco diversamente
da come farebbe passando da un lato all’altro di una bottega, o si muoverebbe lavorando in un capannone industriale.

32

Salite le scale, in un ambiente più tranquillo c’è la sartoria teatrale. Tra le sarte,
la più esperta, che  mi piace disegnare, viene da Macerata – chi sa quante ne avrà aggiustate di gonne, di giubbe e di gobbe, e quante imbottiture avrà messo a generazioni di teatranti? Incurvata e calma dentro il suo grembiule con il colletto e i polsini merlettati,
fa tenerezza. La stoffa è il suo elemento, il rosa il suo colore. I suoi movimenti mi portano alla mente altre immagini familiari, mani abili, aghi da infilare. Le altre sarte le chiedono consigli; allungano, accorciano, misurano, palpano e scherzano
con le comparse e tra loro.

Il capo macchinista, romano di Napoli, bravissimo e conosciuto in tutti i teatri, coordina
i lavori aiutandosi con due esclamazioni: “Eccàllà!” e “Vabbè!”. E’ inconfondibile tra tutti, tanto per la padronanza del mestiere quanto per il connubio tra rotondità e agilità.

Come per sottolineare, semmai ce ne fosse bisogno, che qui si lavora sul serio, ogni tanto si ode qualche urlo. Quello ricciuto tra gli elettricisti si “becca” di continuo col tecnico
alla consolle squadrato come un armadio; costui lo ammonisce ad ogni buone occasione, esclamando: “Hai da stare in campana! Sennò…!” I due, dovendo collaborare,
si mandano vicendevolmente affanculo ogni sette minuti, o dieci e mezzo al massimo.

Tra chi va e chi viene frequentemente c’è una ragazza piccola di statura, rapida
nei movimenti, con una chioma a coda di cavallo. E’ pronta a sistemare ogni oggetto
di scena con la colla a caldo o con la cucitrice a punti metallici. Lei avvolge corde
o sistema drappi e teli, adesso si ficca dentro un baule per vedere se una persona
ci entra. Lei così minuta ci sta senza problemi, ma a volerci mettere
uno come il tecnico hai voglia a spingere.

Il macchinista in canottiera, seduto in questo momento ai bordi del letto a baldacchino, durante una pausa di riposo, è il fantasista della comitiva; lui spesso e volentieri si agita come un naufrago su un’isola sperduta. Bolla chiodi, sposta legnami, sbuffa, trascina corde e tutto quel che trova, come se stesse attrezzando una grande zattera di salvataggio o un’arca antidiluviana dove imbarcarsi con l’umanità intera – esclusi, naturalmente,
quei tre o quattro che sa lui.

Curioso com’è, è dotato di grande immaginazione, e di ogni scoperta o invenzione sa tutto; anzi, praticamente il primo a pensarci…

No, non intendo soffermarmi sugli attori e accompagnatori, né voglio provare a descrivere una per una tutte le persone che durante queste mie visite mi è stato possibile osservare
e ritrarre. Sarebbe superfluo sottolineare che ognuno, qui, per il ruolo che ha,
dalla custode all’impiegato, svolge il suo compito.

Adesso sono arrivate tre ragazze altissime e ben fatte. Sono parrucchiere, truccatrici; agili, profumate e “bionde” come da copione. Si dirigono in fretta verso i camerini.
Dal loro modo di parlare, dall’accento, si capisce che provengono da Pesaro.
E’ un piacere osservare come sfumano  il fard e come illuminano il volto con gli ombretti
e le matite, o tirano col rimmel il nero intorno agli occhi.
Dopo il trucco tutto è pronto. Sta per iniziare lo spettacolo. Non si sentono più le voci.

La calma immediata nasconde una tensione generale. Dal vuoto della fossa
degli orchestrali schizza via un accordo di violino. Ogni strumento è pronto,
mentre sul palco un cono di luce, al centro, esaspera il buio intorno e l’attesa.

 

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedi.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it