Il mare del tempo

Scataglini

 

brano tratto da nostro lunedì n.4 – Scataglini – prima serie (2004)
a cura di Francesco Scarabicchi

Colloquio con Franco Scataglini
Gennaio 1990
Pomeriggio in una casa anconetana

Il senso del mare per te, nella sua temporalità, nell’esperienza, nella memoria.
Mi viene in mente un tema che feci da ragazzino (la terza, la quarta elementare): rammento che diedi, del mare, un’immagine profondamente triste perchè la associavo all’infanzia e al rapporto con le cose che non era ludico, bensì pensoso e giudicante. Allora, per esempio, mia madre mi portava alla Salute (una spiaggia di povera gente con, vicina, una costruzione che chiamavano “Lo Stabilimento”) e mi annodava in testa un fazzoletto perchè avevo un fastidiosissimo rapporto con il sole e, con il mare, inquietante. Qualche anno dopo, in Sicilia, mi sorprese vedere mio fratello entrare in acqua e nuotare: non lo aveva mai fatto. Rammento l’acqua limpida di Barcellona (si vedeva Milazzo, la punta lontana) e lui che nuotava come un piccolo dio. Invece io, con il mio senso angoscioso…sicuramente era con la mia corporalità  che non stavo bene. Per molto tempo il mare l’ho sentito come una gioia denegata; non mi era consentito quell’abbandono. Soprattutto durante l’estate. Più tardi, quando avrò una differente percezione del corpo, un’altra coscienza, le cose si modificheranno radicalmente. Mi fai pensare a quello che dice Michelstaedter del mare rilevando una contraddizione: non puoi guardarlo e, insieme, starci dentro. Quando lo guardi dall’alto, è una promessa di appagamento senza fondo perchè l’immagine è negli occhi: ci vai dentro ed è una cosa banale, a parte il piacere; si perde il senso della totalità. Noi non pensiamo mai alla  singola onda, ma alla  distesa. Come per il prato: lo osservi e senti il desiderio di buttartici dentro, di abbracciarlo; non  appena lo fai, non è più prato. Questa contraddizione, in me, si relava  al bambino disturbato, nevrotico, più portato a pensare che a giocare, pensare giudicando il mondo che aveva intorno a sé.
C’è un altro aspetto del mare che implica il pericolo mortale: ho visto, nella mia infanzia, portare a riva il corpo di un’annegato. Ne conservai una memoria sconvolgente che fornì anche pretesti al mio rifiuto nevrotico del mare. Va però detto che, di fronte alla sua forza, ho sempre nutrito una particolarissima predilezione, sebbene possa sembrare una venatura romantica.
L’acqua tormentata, torbida, la massa che si muove (le onde, gli spruzzi, l’altezza) mi danno un’ebrezza interiore. Vuol dire, quindi, che la parte energica di me trova un appagamento contemplativo. Ho sempre percepito un grido del mare come richiamo senza memoria, senza fondo…

Un grido perpetuo.
Perpetuo! esatto. Un grido perpetuo. Il mare ludico vissuto nella impossibilità…

Interdetto.
Sì, tanto interdetto quanto l’altro (il mare come forza) mi era contiguo. Mi sovviene una notte – verso i sedici, diciassette anni – in cui, chissà per quale necessità o mistero, guardando gli alberi del viale con i ghiaccioli sotto la luce dei lumi che parevano piccoli diamanti, andai verso il Monumento (non c’era ancora la scalinata del Passetto), verso un canneto per vedere la tempesta. Attratto e angosciato da morire, deciso a conoscere, a sapere. Solo dopo, leggendo Rilke, trovai la risposta: «Là dove finisce l’angoscia comincia l’estasi». E fu vero. Fu, tutto sommato, una intuizione a portarmi verso quel mare, verso il senso del mondo, verso una totalità che chiamavo dio perchè non avevo altre parole per pronunciarla.

Hai mai attribuito un valore mitico al mare, escludendo qualsiasi valenza classica o letteraria?
Sì, ma non come mito in senso plenario. Un luogo particolare. Tutte le esperienze più importanti della mia vita (quelle interiori) sono avvenute ed avvengono sulla riva.
Quasi come se il mare portasse e continuamente cancellasse sottraendo una storia. Lo si ritrova in alcuni tuoi testi precisi. Ha fisionomia di archètipo e di lacerto.
E vero. E sempre un confine tra il certo (la finitezza) e qualcosa d’altro. Sento che la riva è un luogo privilegiato della mia esperienza del mondo. D’altra parte, il mare è una presenza originaria, in me, a livello inconscio per cui tutti gli eventi dell’esistenza (quelli pericolosi, quelli nei quali ho sfiorato situazioni mortali) lo hanno come testimone. Non do al mare una significazione sacrale; questo semmai investe il cielo, lo stellato, ma è un altro discorso anche se non dissociato dal senso del mare. Il cielo, per me, è sempre stato lo spazio dell’ordine e della misura. Nella mia esperienza, i tre archètipi fondamentali sono costituiti dal mare, dalla montagna e dallo stellato.

È un ordine casuale o ha una sua motivazione precisa?
Rimasi colpito, anni fa, da un viaggio a Creta.
Le montagne sorgevano direttamente dal mare e tu ti immaginavi il mare come base, la montagna e, in alto, il cielo. Una visione che, nella sua comples sità, rimanda al purgatorio. In questa triade possono essere rinvenuti gli elementi del mito di cui parli. Se in qualche modo il mio lavoro va verso un senso purgatoriale, allora è possibile riscontrare una presenza del mito più profonda di quanto non creda. Voglio aggiungere che, per me, lo stel­lato visto dal mare è quasi la prossimità della gioia, della liberazione. È il varco. Il mare, in so­stan­za, è un elemento indispensabile per cogliere l’idea quasi ossessiva della cosmicità a cui mi riferisco, e che è la mia croce e la mia delizia perchè mi accosta ad una strana sacralità e mi allontana dal senso della storia o crea una non sempre ri­componibile contraddizione. Forse, nella mia poesia non è così e tu puoi vederlo meglio di me. Forse è così solo in me.

Apparentemente, la tua po­e­sia ospita il ma­re co­me figura marginale. Quan­do però accade, quan­­do viene nominato e la sua presenza si pro­pone significativamente, è sempre una percezione inquieta che lo segna e lo connota, uno sviamento, un richiamo.
Hai ragione.
Mi fai pensare a quanto l’uso del sostantivo gorgo rimandi al valore stupendo e imparagonabile degli abissi in Baudelaire.
Là do­ve tutto va a scomparire. Il mare come tempo, il mare del tempo: tutto ciò che viene eroso, cancellato, portato via.