Zeus non potrebbe sciogliere le reti
di pietra che mi stringono. Ho scordato
gli uomini che fui; seguo l’odiato
sentiero di monotone pareti
ch’è il mio destino. Dritte gallerie
che si incurvano in circoli segreti,
passati che sian gli anni. Parapetti
in cui l’uso dei giorni ha aperto crepe.
Nella pallida polvere decifro
orme temute. L’aria m’ha recato
nei concavi crepuscoli un bramito
o l’eco d’un bramito desolato.
Nell’ombra un Altro so, di cui la sorte
è stancara le lunghe solitudini
che intessono e disfanno questo Ade
e bramare il mio sangue, la mia morte.
Ci cerchiamo l’un l’altro. Fosse almeno
questo l’ultimo giorno dell’attesa.
– Il labirinto –
Jorge Luis Borges
Una delle più belle fabbriche civili sorte in Italia nella seconda metà del secolo XVI
come scrive il Serra nel 1934 successivamente ampliata e sopraelevata, nel XVIII, secolo con la formazione dello scalone, delle logge sul versante mare e con l’apertura del giardino pensile al piano terreno (oltre al balcone sovrastante il portale attribuito al Vanvitelli che, pochi anni prima, nel 1743, aveva lì vicino rinnovato la Chiesa del Gesù.
Dà un brivido oltrepassare l’ingresso di Palazzo Ferretti disegnato da Sangallo il Giovane, quasi lo stesso che provo, se varco la soglia della storia, se m’avvio, da un androne dei secoli, per quelli che Antonio Machado chiamava i corridoi del tempo, lungo i resti delle epoche. Alle spalle, nel silenzio del mattino, l’erba e il vento fin su verso il vuoto che s’apre là dove era il complesso cinquecentesco di Santa Palazia poi carcere minorile demolito nel ‘72. Lascio il presente e il suo mare, vado altrove.
Il 23 giugno del 1958 il Museo Archeologico Nazionale delle Marche riapre al pubblico – dall’origine di Gabinetto archeologico creato nel 1860 e poi statalizzato, con decreto reale del 27 maggio 1906, come prima collocazione ebbe l’ex Convento degli Scalzi nell’allora via Duomo; venne poi trasferito, tra il 1923 e il 1927, nei locali del Convento di S. Francesco alle Scale danneggiato gravemente in seguito ai bombardamenti del ‘43-’44 – proprio nelle sale di quel Palazzo Ferretti dove saranno visibili le sezioni preistorica e protostorica – per le sezioni classica e medioevale si attenderà il 24 novembre del 1969 fino al nuovo buio di casse e magazzini per il sisma del 1972 –
Nel 1988, dopo i lunghi restauri, la luce torna e s’accresce fino ad oggi in quello che forse è uno dei luoghi più intensi e complessi per bellezza, ricchezza e importanza, là dove la perizia dei curatori ha allestito, nel silenzio, la muta scansione temporale del paleolitico, neolitico, eneolitico, l’età del bronzo nelle sue varie fasi; la protostoria: l’età del ferro, dal IX al III secolo a.C., la civiltà picena e dei Galli Senoni delle Marche emerse da decenni di scavi archeologici in oltre settanta necropoli.
Il transito delle sale, interrotto dagli sguardi rivolti agli affreschi di Pellegrino Tibaldi e della sua scuola al piano nobile – Battaglia dei tre Orazi, Andromeda, Apollo e Dafne, Caduta del carro di Fetonte, Ratto di Proserpina – dai soffitti dipinti a grottesche del terzo piano attribuiti a Federico Zuccari – 1540-1609 – per il salone centrale, rapisce soprattutto per l’imprevedibilità dei reperti funerari, per la presenza costante delle armi – arponi in bronzo, pugnali, foderi in bronzo e ferro, spade, asce, punte di lancia, scudi, elmi, gambali – degli ornamenti femminili – fibbie, pendagli, pettorali, collane, fermatrecce in oro, torques celtico a tamponi, armille d’oro, orecchini – l’incognita delle stele iscritte, teste e statuette bronzee dei secoli V e IV a.C., anfore, vasi, crateri, pissidi, fiaschette etrusche in bronzo.
Dalle alte finestre che circondano i piani del Palazzo entra una luce morbida che taglia le grandi vetrine delle sale e tocca un elmo di bronzo decorato o un’anfora attica a figure rosse o un cratere a calice del Pittore di Kadmos – 410 a.C. – e quell’irradiarsi esalta una modernità assoluta degli oggetti, scioglie le trame del tempo e fa quella distanza prossima a noi che camminiamo nel luogo in cui le epoche si raccolgono, ferme ed immobili sotto gli occhi che vorrebbero raccontare tutto e possono solo trattenere il ricordo scheggiato di furtive bellezze appena colte nelle anse di quelle stanze perfette come quei ciottoli incisi proveniente dalla Grotta della Ferrovia sulla Gola della Rossa, i frammenti di vasi con le decorazioni impresse con unghie, dita, cerchietti, o le olle, i vasi, le ciotole, o gli ami d’osso, le punte di freccia, peduncolate e sessili, sulla sinistra del fiume Potenza in Frazione S. Maria in Selva di Treia, o il pugnaletto di selce di un villaggio di capanne in località Pianacci di Genga.
La solitudine di quei reperti, nel loro nitore e nella loro pulizia, ha il potere di annullare tutto il tempo impiegato fin qui divenendo frammenti di un taccuino di viaggio, righe sulla carta del racconto, fili di una memoria scritta che prosegue, abbagliata dalla ricchezza del Museo che si fa privilegio e astro di una città severa e offesa che ha saputo serbare le opere dei millenni con l’austera e nobile dignità della consistenza sulla quale domina la delicatezza fragile delle tre Corone d’oro del III secolo a.C. rinvenute nel sepolcreto di Montefortino, tomba otto di una necropoli gallica o, quando è ospitato a piano terra, in museo, l’enigmatica presenza del gruppo equestre in bronzo con doratura a foglie sovrapposte del periodo cesariano – tra il 50 e il 30 a.C. – composto da due figure femminili – una, intera, che indossa la stola e la palla, non più giovane e il cui aspetto rivela l’alto rango sociale – e da altrettanti personaggi equestri (il cavaliere, di cui si conserva solo la parte superiore, potrebbe essere un patrizio o un senatore nell’atto di porgere un saluto di pace), dissepolto da un fossetto di scolo davanti ad una casa colonica in S.Lucia di Calamello, presso Cartoceto di Pergola, in provincia di Pesaro, nell’anno 1946.
Francesco Scarabicchi
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