“L’Ambleto”
colloquio con Sandro Lombardi
tratto da nostro lunedì
n° 1 scene – prima serie
Dunque, Testori. Parlamene.
è come se, a un certo momento della mia vita d’attore, avessi scoperto un autore nel quale mi sembrava di trovare tutto quello che più mi piace del teatro, da tutti i punti di vista. La drammaturgia di Testori è stata una soglia per me; e attraversandola ho scoperto, di me attore, più di quanto qualsiasi altro autore non mi avesse mai permesso di fare. C’erano stati naturalmente altri scrittori, prima (Beckett fra tutti) e dopo (Bernhard) che avevo sentito veramente affini e assimilabili alla mia drammaturgia d’attore. Ma con Testori la cosa è stata più intensa, probabilmente per il fatto che lui scrive nella nostra lingua, anche se si tratta di una lingua inventata. L’aspetto linguistico è stato quello che, in principio, mi ha attratto di più, in ragione del grande problema di cui soffre la drammaturgia italiana: la mancanza di una lingua vera per il teatro; mancanza legata a tutte le ragioni storiche che sappiamo: l’Italia, a differenza dei grandi paesi europei, ha avuto un’unificazione politica tardiva, che si è riflessa nel ritardo dell’unificazione linguistica, la quale inoltre è avvenuta in maniera artificiosa, imposta dall’alto, prima dal fascismo, poi dalla radio e dalla televisione. Schematizzando molto, non c’è un codice linguistico teatrale in cui un attore si possa riconoscere e su cui possa lavorare, a meno che non voglia far finta che la lingua della drammaturgia italiana media non è una lingua inesistente.
La lingua di plastica.
La lingua di plastica, certo. La lingua lisa, consunta, sfibrata, svenata… Testori poi scrive sempre delle storie di attori. Salvo le primissime prove, che ancora hanno un’apparenza di realismo e naturalismo, quasi tutta la sua drammaturgia è sostanzialmente metateatrale; sono sempre degli attori i personaggi, che si dichiarano apertamente tali. Nell’ultimo monologo dei Tre lai, quello di Maria Vergine, (Mater Strangosciàs è il titolo), la stessa protagonista si rivolge al pubblico scusandosi, se “del recitar son poco praticata”. Questo, tra l’altro, fa sì che un attore non senta più il diaframma tra sé e un testo… non so… è come se quelle parole me le sentissi scritte addosso, come se fossero state pensate per me. Non sono state pensate per me, certo, ma per degli attori sì e questo è importante. Anche Bernhard pensa per degli attori precisi e per loro scrive.
La lingua è stata un ostacolo?
Sì. Tutto il lavoro che io faccio con Testori è un ostacolo. è uno degli autori più difficili che abbia mai fatto. Sarà che sono toscano e che ho dovuto imparare il lombardo come una lingua straniera, ma non è solo questo: è che le difficoltà che Testori pone all’attore sono quelle che lo stanano in qualche modo. Mi sono sentito tirato fuori.
O esci o non esci.
Certo. E se esci, esci al meglio.
La scrittura per teatro di questo autore, quindi, si pone in una zona distante e altra, rispetto al canone novecentesco e alla stessa civiltà o inciviltà teatrale di questo tempo.
La scrittura di Testori è scandalosa, perché rifiuta, visceralmente ancor prima che programmaticamente, tutto quello che è l’equivoco e che sono i vari equivoci del teatro d’impegno, d’evasione, il teatro politico… Non tollera nessuna di queste cose. Fa un teatro rivoluzionario, come questo Ambleto con l’immagine dell’attore contadino anarchico, insofferente nei confronti di ogni tipo di potere e di costrizione. Mi piace la spregiudicatezza di Testori, l’amare del teatro ogni aspetto, anche quello infimo, baraccone. Lui non distingue tra un teatro serio e uno meno serio, non separa i generi. Lo dice la sua attrazione per il teatro di varietà, per la rivista, per la canzonetta. Distingue verticalmente, per coinvolgimento interno, per intensità. Quello che cerca è la verità, la realtà della verità e la verità del reale.
C’è il corpo a rischio in scena.
Completamente. Testori fa in teatro quello che Pasolini era riuscito a fare nel cinema e non è stato in grado di replicare in teatro. Nel teatro Pasolini non è riuscito a far parlare i corpi e si è come fermato sulla soglia della letteratura. Che è altissima letteratura e grande poesia ma che lascia i corpi come muti. Nel suo cinema invece i corpi parlano più e prima di altri elementi. Testori compie un’operazione analoga nel teatro. Fa parlare i corpi.
Definisce un teatro fisico, concreto, materiale, carnale.
è così. Il corpo parla, urla, canta, si lamenta, gode, geme, si dispera.
Che tipo di regia ha richiesto?
A Federico Tiezzi e a me sembrava che fosse ancora da mettere l’accento sulla presenza simultanea di tutti gli aspetti della teatralità. Testori è stato di volta in volta messo in scena in modo dichiaratamente tragico o realista o comico. Mi sembrava che ancora mancasse il cortocircuito di questi elementi, che vanno convocati insieme a convivere. L’accostamento del registro tragico e di quello comico nella realtà della vita quotidiana è la grande lezione lasciata da Anton Cechov al teatro occidentale. A proposito di Testori si è sempre molto parlato di Pirandello, e certamente Pirandello è un autore centrale per Testori, ma credo che Cechov lo sia altrettanto.
Rispetto alle altre regie da Testori, quali difficoltà o problemi ha posto “L’Ambleto”?
Per la prima volta non si trattava di un monologo, anche se, secondo me, i testi di Testori non sono mai monologhi, ma scritture per un solo attore: l’Edipus non è un monologo, ma un dramma a quattro personaggi che l’autore ha previsto siano interpretati da un solo attore. è vero che i Tre lai sono veramente dei soliloqui, delle solitudini. Comunque L’Ambleto aveva bisogno di una compagnia, di un gruppo di attori e la scelta è stata fin dall’inizio di accettare la sfida più difficile: non cercare attori lombardi, costituendo invece una sorta di compagnia d’immigrati. Quella d’altronde era la Milano degli anni sessanta, con gli scontri fra tradizioni culturali diverse e quasi inconciliabili; quella la Milano che Testori già raccontava nell’Arialda, o nel Ponte della Ghisolfa che, non a caso, ispirò Luchino Visconti per un film come Rocco e i suoi fratelli. Abbiamo deciso di accettare la sfida di una compagnia eterogenea dal punto di vista della provenienza linguistica: io e Francesca Della Monica toscani, Iaia Forte napoletana, Massimo Verdastro romano, Alessandro Schiavo palermitano, Andrea Carabelli milanese… Ci siamo messi tutti a dura prova, ma volevo far sentire a un gruppo d’attori che stimo e a cui voglio bene l’esperienza dell’essere stanati, come dicevo prima, dell’essere portati allo scoperto, denudati fin nel profondo. La lingua inventata da Testori, indipendentemente dai problemi sintattici, lessicali e di pronuncia, spinge a ritrovare la memoria inconscia, lontana, dell’infanzia, del proprio dialetto originario. In fondo, siamo tutti bilingui in Italia: ognuno di noi parla l’italiano, come facciamo tu ed io adesso; ma poi abbiamo la nostra lingua d’origine che, a volte, resta sepolta nella memoria mentre in particolari tradizioni e condizioni, è praticata di più, come a Napoli o a Venezia o in Sicilia. In Toscana la cosa è meno evidente perché il toscano è la base su cui si è formata la lingua letteraria italiana e a cui attinse anche un grande lombardo come Manzoni…
L’allestimento?
Con Testori i problemi di allestimento sono sempre legati alla necessità di un coinvolgimento emotivo e fisico estremi. Questi sono come richiesti dalla scrittura stessa… Se la leggi giustamente, non si può fare a meno di rendere corpo e sangue quella scrittura, che ne è intrisa, ricolma, satura… Quando Testori parlava di sangue e di viscere, non parlava per metafora. è proprio così, una realtà linguistica concreta e pienamente percepibile.
Una parola che proviene dal buio delle viscere e sale alla luce della pronuncia consapevole. E’ essa stessa parola che ti convoca e chiama all’esterno, ti porta fuori, ti estrae nel senso etimologico.
Sì. Urla da dentro, faticosa e selvaggia. Sì. Concreta e carnale, terribile e carica di passione. Uno sviscerato amore per la vita, per tutte le sue manifestazioni. Viene in mente Artaud, che ha teorizzato e vissuto tutto questo, ma non lo ha compiutamente tradotto in drammaturgia. Viene in mente anche Rimbaud, che è forse il solo a esser riuscito nel miracolo di esprimersi compiutamente, e allo stesso livello di poesia, sia nella letteratura che nella vita. La parola di Testori aderisce alla vita. Non capisco perché come poeta sia quasi del tutto ignorato. Un’intensità rara. Basta considerare la bellezza dei Tre lai… L’idea di una Cleopatra che, in punto di morte, rievoca i pasticcini, rievoca la vita, tutti gli aspetti della vita: i bei vestiti, i bagni al lago, i baci d’amore, i cibi… E non c’è un altro modo per dirlo, se non quello che Testori ha incastonato nella sua lingua. Tutti gli aspetti del reale sono cantati investendoli di un identico afflato poetico. Un esempio estremo? L’odore dello sperma è definito come “l’enfatico parfum, quel misto de latte, ciaro d’ovi, quel misto de bumbùn e de bambù”… è pittura, materia, senso, consistenza. è trasgressione, quella vera, non quella confezionata per le esigenze delle mode. Attraverso Testori ci è stato possibile realizzare quel teatro, quella drammaturgia che da ragazzi sognavamo appunto sugli scritti di Artaud. Testori è riuscito a rendere concreto quello che in Artaud spesso è teorico, una petizione di principio, un’invocazione, un desiderio. Geniale, grandioso; ma Artaud ha fatto vita della sua idea di teatro, Testori ne ha fatto teatro.
Un viaggio biblico e fecale che la “Trilogia degli scarrozzanti” e i “Tre lai” propongono, nella follia della lingua che è, insieme, putrida e luminosa, infernale e paradisiaca, un corpo a corpo con l’intensità del vivere e con la carnalità della morte. Sei d’accordo?
Una lingua levatrice di tutto quello che c’è dentro l’attore. Ti ripartorisce. Non a caso il nodo centrale dell’Ambleto è proprio il mistero della nascita, non tanto della morte. Si è sempre detto che Testori è stato ossessionato dalla morte. No: la sua ossessione è la nascita, il venire al mondo, l’essere chiamati alla vita. Pensa all’immagine della neve, della nevicata. Tutto ritorna, nell’Ambleto, a questa regressione, all’origine. La grande bestemmia iniziale di Ambleto è il rimprovero che questi rivolge al padre, colpevole di averlo messo al mondo. E la bestemmia centrale sta in quel bisogno di regressione non al ventre materno, ma ancora più indietro, fino al seme paterno. Tutto è nel dramma della nascita, in quel centro.
In questo senso, come va considerato l’ambito della religiosità di Testori che ne discende le viscere più profonde attraversandone tutti i regni?
Non so. A me piace che la religiosità si manifesti come qualcosa di totalmente immanente alle cose, alle forme e alle manifestazioni della vita. Sacralità della vita è una formula generica e usurata, eppure davvero c’è qualcosa che si innesta su una pulsione feroce a cogliere appunto la sacralità delle cose. In Testori tutto è religione: il teatro è religione, il sesso è religione, il bisogno di esprimersi attraverso i linguaggi dell’arte è religione, la politica è religione, il piacere del cibo è religione, le canzoni di Mina e della Vanoni sono religione, i colori del cielo al tramonto sono religione… Non si pone nessun discrimine e nessuna gerarchia tra le cose: tutto ciò che è incarnato in una realtà concreta è sacro. Testori è profondamente cristiano proprio in quanto attribuisce una centralità assoluta, totalizzante, efferata al mistero dell’incarnazione. E poi, per fare un esempio, come dimenticare l’incanto di quel passo di Mater strangosciàs in cui la Vergine, non conoscendo il kiwi, lo scambia per una patata che fuori è tutta pelosa mentre dentro è come una pietra smeraldata?… Abbassa toni e livelli, riduce le solennità. Totalmente. Porta al quotidiano ogni altezza, che si riduce fino a noi.
E il pubblico?
Il pubblico più avvertito è stato entusiasta e commosso. Il pubblico che non conosceva o conosceva poco la drammaturgia di Testori, ha vissuto un primo momento di sconcerto e poi ha capito. Più di duecento recite di Edipus, un centinaio di Cleopatràs, un’ottantina dei Lai, stiamo quasi arrivando al centinaio di repliche di Ambleto… Ho portato questi spettacoli in giro in ogni angolo d’Italia e anche fuori e non c’è stata una volta che il pubblico abbia risposto freddamente. Mi sono chiesto come facesse il pubblico greco a ridere nei momenti giusti o quello francese, quello portoghese… Eppure accadeva. Forse è un fatto di intenzione comunicativa, il risultato del lavoro che avevo fatto per rendere comprensibile una lingua che a me per primo non lo era all’inizio… Insomma, l’aspetto linguistico può risultare un ostacolo, ma solo in un primo momento; poi, a Bari come a Palermo, a Napoli come a Roma, il risveglio dell’originaria attitudine al dialetto, a una forma d’espressione altra, il riconoscimento di un’analogia col proprio idioma primario, permettono di cogliere il senso dell’esprimersi in adesione alle cose. La concretezza del dialetto che penetra nella carne viva del reale… Le sonorità hanno un linguaggio comune e riconoscibile e il pubblico lo sa, lo sente. Recupera un lessico perduto, rievoca forme dimenticate, si riappropria di una parte di sé.
Nell’ambito del vostro percorso teatrale, Testori ha comportato una deviazione? E quanto ha condizionato le altre scelte? Tutto è una deviazione in un percorso teatrale che non si vuole arrestare su risultati già raggiunti. E tutto è un passo che condiziona le scelte successive. Ho parlato soprattutto di Testori perché mi è più semplice parlare di un autore che non di me. In realtà quanto ho detto è solo uno dei lati di ciò che potremmo definire la mia esperienza testoriana: è il lato che attiene a Testori. Poi c’è quello che attiene al mio lavoro (e di Federico) su Testori. Anche se credo che, tra le righe di quanto ho cercato di dire, emerga la realtà di un’impostazione teatrale che non coincide, non si esaurisce con la drammaturgia d’interpretazione. Non posso che ripetere quanto detto in apertura di questa chiacchierata: in Testori ho trovato una materia che mi ha aiutato a definire, nella prassi e non in teoria, i contorni, gli aspetti, le forme, i processi con cui elaborare, mettere a fuoco, realizzare, insomma, la mia drammaturgia d’attore. è evidente che un lavoro del genere mi ha aperto gli occhi anche su altri autori. Penso che il nostro Brecht e i nostri Shakespeare, e il nostro Bernhard, ma anche i Luzi, i Parise, i Pasolini, senza l’Edipus, senza la Cleopatràs, senza i Due lai non sarebbero stati quelli che sono stati. è un modo di leggere, di capire, di intuire. Non voglio dire che abbiamo affrontato questi autori con degli schemi formatisi a contatto con Testori. Li abbiamo affrontati, come del resto anche Testori era stato affrontato, da un punto di vista di incarnazione più che di messa in scena, di adesione al mondo di qualcun altro non per illustrarlo ma per capire meglio il proprio mondo, i propri desideri, le proprie intenzioni. Ecco: per noi lavorare su Testori è stato un modo per arrivare a un chiarimento delle nostre ragioni espressive.
Testori ha quindi portato a luce definitiva quello che tu e Tiezzi eravate, rivelandovi nella vostra interezza e maturità. Forse Federico ha un rapporto più asciutto, anche se altrettanto intenso, con il nostro autore. Certo è che questa lunga avventura (Edipus è del 1994, Cleopatràs del 1996, i Due lai del 1998, L’Ambleto del 2001) forse ha consentito anche a lui la possibilità di lavorare con me nel modo che aveva sempre sognato… l’incontro dialettico che nasce tra un regista e un attore… il sogno di fare spettacoli insieme con una modalità altra… ritrovarsi e condividere un’esperienza esclusiva. Ci siamo spinti a camminare in terre incognite, ma l’abbiamo fatto insieme.
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