L’amorosa spina

Tratto da nostro lunedì
n. 4 – Scataglini

COPERTINA OK scataglini

Per segnare il tempo che separa questo presente dall’agosto del 1994,
quando Franco Scataglini si spense all’improvviso, è sembrato naturale farlo
convocando il suo lavoro sul confine perenne della parola e sul crinale dei tempi
che scandivano l’attesa della poesia facendosi, appunto, aforisma, pensiero,
pittura e disegno. La necessità d’assoluto che ha invaso l’esistenza di Scataglini
e l’ha dominata come una costellazione fissa si esprimeva e manifestava in ogni luogo
della sua testimonianza, perfino nei giuochi o nel parlare quotidiano.
Così nostro lunedì ha inteso consegnare lo spazio delle sue trentadue pagine fondamentalmente a lui perché dagli anni salisse e si conservasse, intatto, il senso
e il sentimento della sua mancanza e, insieme, si definisse, in modo sicuramente frammentario e parziale, una sorta di felice conferma di una identità della poesia
del secondo Novecento osservata in una sorta di stanza privata, attigua al verso,
ma pur sempre altra rispetto al contesto di intransigenza ed essenzialità
che contraddistingueva la sua scrittura e il suo essere. I dipinti di piccolo formato,
rispetto agli altri, grandi, degli anni Sessanta e Settanta o ai Cavalieri su carta
che avrebbero dovuto comporre un’intera raccolta per una mostra progettata
per la Galleria del Falconiere di Ancona e che si interruppe ad appena nove “figure”,
i disegni, gli schizzi a penna, gli abbozzi, abitano il quarto numero della rivista
e ne definiscono la musica, la misura e la metrica consegnando un semestrale insolito, quasi esclusivamente attraversato dal garbo di presenze femmnili, dalle loro voci,
dal loro passo. Esplicita e dichiarata c’è l’intenzione di non turbare il sentimento
che dimora nel tempo della distanza da quel caldo agosto del 1994, una settimana
dopo lo spegnersi di Paolo Volponi; c’è la necessità, almeno in chi la rivista l’ha pensata, curata e sentita crescere ora per ora, di ascoltare quasi intatta la sua voce osservando
le partiture di parole, cercando l’odore dei colori e delle forme, perdendoci nei piccoli mondi di lumi e cielo, di case e scale, oltre le lune che specchiano alte, oltre l’acqua, i vascelli,
gli angeli, inseguendo il sogno e lo struggimento di universi degli “altrove”, suoni e onde che vanno a perdersi in ogni “lontananza” che rapisce.
Limitatissima, quasi appena accennata la presenza della poesia, anch’essa insolita,
salvo l’eccezione di “Carcere demolito” che rispecchia la per niente affatto obiettiva volontà del curatore di confermare quel poemetto come il cuore di tutto ciò che lo precede e segue, nodo inevitabile senza il quale nulla potrebbe darsi dell’opera successiva
a So’ rimaso la spina. _ quindi come stemma che le tre parti di quel testo dimorano dentro il clima speciale di nostro lunedì che deve esclusiva riconoscenza a Rosellina Massi Scataglini per aver consentito di riprodurre fotografie, opere pittoriche, disegni
e i frammenti dai taccuini.

Di tutta la parzialità si è pienamente consapevoli così come consapevoli siamo
delle presenze mancanti. Nessuno è stato escluso perché nessuno è stato invitato.
Il paese breve che nostro lunedì è imponeva una scelta e la scelta è stata Scataglini
e quel poco che non gli avrebbe dato ombra.
Il paziente lavoro di sartoria che si è realizzato è stato, ancora una volta, un atto di totale servizio al suo magistero e alla poesia, memoria e presente, certi, con Pasolini,
che solo nell’amore della tradizione è possibile riconoscere la radice profonda del senso da cui proveniamo e verso il quale andiamo, scegliendo l’antichità dell’origine come soglia estrema di una modernità faticosa cui tendere.

aereo
Franco Scataglini (si ringrazia la cortese generosità di Rosellina Massi Scataglini)

Si offre, di questo testo, la versione che Scataglini pubblicò sulle pagine marchigiane
de ”l’Unità” il 20 di maggio del 1979 e che, nell’occasione di una lettura pubblica
delle sue poesie anconitane (Galleria del Falconiere, sabato 11 luglio 1981),
rivide apportando alcune varianti.

O cità mia rinchiusa

O cità mia rinchiusa
‘nt’un avanzo de scòio
quando i vigoli smusa
drento a ‘n ombroso imbroio

el salmastro e la brusa
de le stelle ‘nt’un spòio
sopravive, mia otusa
cità senza ‘n germoio

de storia, el nòvo avento
te sarìa solo el còre,
l’ingabiato canario

‘ntra le macerie al vento,
s’arpudesse discore
‘l suo fondo proletario.



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