L’Editoriale da nostro lunedì

la siepe e il vulcano

“A dì 29 giugno 1798. Nacque alle ore 19 il mio primo figlio, maschio, partorito da mia moglie Adelaide felicemente, sebbene dopo tre giorni intieri di doglie. Si dette parte ai soli parenti, giacché, distrutto il Reggimento Nobile, non eravi più alcun grado, nel quale esso nascesse, tolto il generale Cittadino. […] A dì 30 detto fu battezzato il dopo pranzo nella nostra parrocchia di Monte Morello, dal padre Luigi Leopardi filippino, mio zio, e lo levarono al sacro fonte li allora Cittadini Filippo Antici mio suocero, e Virginia Mosca Leopardi mia madre. Furono invitati i parenti al solito, e le lettere di parte furono scritte, fuori di Stato al solito, nella Repubblica col titolo Padrone e Parente veneratissimo. Gli furono imposti i nomi di Giacomo-Taldegardo, Francesco-Salesio, Xaverio, Pietro.” Ha ventidue anni non ancora compiuti il conte Monaldo Leopardi la sera del 29 giugno 1798 quando, alla scrivania del suo studio nel palazzo di Recanati, scrive, nel registro di famiglia, quanto s’è appena stato riportato sulla nascita del primogenito Giacomo. “A dì 14 giugno 1837 morì nella città di Napoli questo mio diletto fratello divenuto uno dei primi letterati d’Europa. Fu tumulato nella chiesa di San Vitale, sulla via di Pozzuoli. Addio caro Giacomo: quando ci rivedremo in paradiso?” E’ la sorella Paolina che annota, nello stesso registro, le righe dello spegnersi di Giacomo in quel pomeriggio lontano. A guardare da questo punto del tempo e della storia, da questa regione e paesaggi integralmente mutati e trasformati (impossibile tentare di immaginare come fossero i luoghi duecentoquattordici anni fa quando Leopardi veniva al mondo), il breve viaggio a Recanati consegna un’idea falsa e vera della “città ignobile della Italia”. Come non sentire una costante presenza perfino fisica del poeta nel contrasto con il luogo reale (assediato, come tutti i luoghi, da rumori, odori, traffico); come non desiderare, camminando le vie e disegnando, con i passi, i suoi itinerari, di sentire e vedere ciò che lui poteva sentire e vedere, le forme di un’esistenza così come ci raggiunge dai Canti, dalle date dello Zibaldone o dai Ricordi d’infanzia e di adolescenza (“Veduta notturna colla luna a ciel sereno dall’alto della mia casa”, “Stridore notturno delle banderuole traendo il vento”, “Dolce e chiara è la notte e senza vento”)?: Del resto, proprio lo Zibaldone dei pensieri si apre con un frammento assoluto di naturalezza ed essenzialità: “[…] Nella (dalla) maestra via s’udiva il carro/Del passegger, che stritolando i sassi/ Mandava un suon, cui precedea da lungi/Il tintinnìo de’ mobili sonagli.” Un Leopardi intimo, concreto e sommesso che si china verso la vita per assisterla là dove è più precaria e fragile, nelle sue brevità ed imminenze, nelle sue “povertà” inudibili ed invisibili, è il Leopardi che più sento di rammentare in questa sorta di “compleanno” che ne acuisce la necessità e ne accende l’urgenza proprio dove tutto precipita nell’indistinto e nella volgare stupidità, nella crudele insensatezza e nella quotidiana violenza al senso delle cose di cui perdiamo perfino la lingua “[…] perché oggi non viviamo in noi, ma quanto viviamo è in altri e per altrui mezzo, e di vita altrui, ed anima e spirito e fuoco non nostro”.

f.s.

Giorgio Bertelli
Disegno inedito

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