“Muse” piccolo viaggio di poche parole – Francesco Scarabicchi

Foto3

“Muse” piccolo viaggio di poche parole – parte 2 di 3

di Francesco Scarabicchi
tratto da nostro lunedì
n° 1 scene – prima serie

Tutti e dieci abitano il bassorilievo del grande frontone realizzato dallo scultore bolognese Giovanni De Maria, seduti o in piedi sul pavimento della trabeazione sopra le sei colonne ioniche e i due ordini di finestre, al culmine dell’intera facciata principale del Teatro che, vista di notte, è toccata da luci pure e intatte dopo l’intero e interno buio di un lungo tempo di lesa umanità d’una città deprivata della sua identità d’arte, delle sue armonie.
Nessuno ci ridarà mai gli anni delle generazioni andate “come onde di fiume”.

«“Teatro” consiste nel produrre rappresentazioni vive di fatti umani tramandati o inventati,
al fine di ricreare. Questo intendiamo ad ogni modo parlando qui di teatro, vecchio o moderno che sia.» è ancora il Brecht dell’esergo (1948), lo stesso che chiude il Breviario con l’andatura piana di un senso assoluto: «Nel suo teatro lo spettatore può godere come divertimento il tremendo e infinito lavorio che gli procura da vivere, e anche la terribilità del suo incessante trasformarsi. Possa il teatro consentirgli di prodursi nel modo più lieve: poiché, dei vari modi d’esistenza, il più lieve è l’arte.»

Leggerezza, misura e forza convivono, come sorelle, fra queste mura, mattone, pietra, cemento, legno, ferro, vetro: compatibilità e compresenza del neoclassico esterno con l’antichità moderna dell’interno. Spazio che dalla platea non è minimamente percepibile. Bisogna salire fino allo spigolo sinistro della seconda galleria o su, al loggione, per provare
la vertigine senza parole che si ha guardando verso la scena con l’esatta e abissale immagine del volo senza rete.

Un castone d’assoluta bellezza che contiene, negli immediati dintorni, il vascello arenato di Piazza del Plebiscito (una fra le più teatrali d’Italia, così unica nella sua identità e solitudine, così austera nella sua non esibita aristocrazia ); il gotico fiorito veneziano della facciata della Loggia dei Mercanti di Giorgio Orsini da Sebenico; Santa Maria della Piazza che, all’apparire, interrompe il respiro a scoprirla sempre come fosse la prima volta, offesa dall’edificio sul fianco destro; il porto adriatico su cui il Teatro affaccia e che contiene quell’Arco a Marco Ulpio Traiano, in blocchi di marmo imenio, su progetto di Apollodoro di Damasco. La voce di Danilo Guerri, camminando, fra operai che brulicano nei gironi della gran fabbrica, nel fitto labirinto degli interni (sguardi da sotto in su che chiamano il clima di ponti, passerelle, scale, pianerottoli, porte, ballatoi, prospettive e fughe di molte acqueforti dell’architetto e incisore settecentesco Giovan Battista Piranesi, soprattutto la trama fitta e bellissima di scalini in ferro su Via Gramsci, le sue fessure di luce, il suo disegno condotto all’estremo dell’essenziale), convoca, mano a mano, i luoghi visitati, li percorre con le parole seguendo, più che me, un suo personale itinerario fatto di tutte le stagioni del progetto fino ad oggi e di tutte le epoche che il progetto ha vissuto, dai fondali perduti a questo sentiero che davvero porta, pian piano, al teatro finito, ad una identità del sogno che ha scelto di oltrepassare la dogana del Novecento per svelarsi di qua, oltre il confine delle sue ferite e mutilazioni, oltre il “no” caparbio di un diavolo impenitente che metteva la coda ad interrompere, fermare, ostacolare, colare altro buio sul già cupo di notte profonda
che teneva le Muse come nel cuore oscuro di un nero cappello.

Guerri mi indica l’atrio, il ridotto, la buca dell’orchestra, il sottopalco mobile, stanze di servizio, camerini, spogliatoi, sale di prova per il balletto, per il coro, per i musicisti, isole dentro la gigantesca nave del teatro in cui è possibile smarrirsi come nel mare sterminato della scena che vedo aperta (il sipario tagliafuoco è sollevato) e da cui osservo i due ordini di logge a pilastri bugnati che replicano, in scala, il porticato in pietra d’Istria del Teatro, quell’“al di là” che abita i diversi ordini di gallerie e l’azzurro cielo acceso di stelle in fibra ottica, firmamento tecnico che riposa gli occhi e la mente.

Foto4

 

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedi.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it