Nel nostro tempo

Francesco Scarabicchi
colloquia con Antonio Prete

Da nostro lunedì num. 1 nuova serie
Leopardi. Il pensatore pericoloso

Il tuo personale rapporto con Giacomo Leopardi come ha segnato la tua vita di uomo, di studioso, di scrittore?
Un classico come Leopardi diventa un compagno nel cammino, ma anche un angelo protettore, e soprattutto è un mondo di idee e immagini, di pensieri profondi, di giudizi sull’esistenza individuale e universale, al quale attingere di continuo. Per quanto mi riguarda la presenza di Leopardi non si è mai attenuata nella mia vita. C’è stato come un presagio di incontro: da adolescente, in gita scolastica – dal Sud verso Assisi e Recanati – una notte, in fondo al corridoio dell’albergo (ma doveva essere piuttosto un collegio religioso) che ospitava noi ragazzi, da una grande vetrata osservai la luna, come mai l’avevo vista nel Salento.

Era una luna sopra la linea di una collina: per me, abituato a vederla sugli ulivi, nella pianura, fu una sorta di incantamento, soprattutto perché mi parve proprio la luna del paesaggio leopardiano (avevo imparato a memoria il Canto notturno e mi ripetevo i versi in quella notte, mentre gli altri ragazzi già dormivano). Qualche giorno dopo, a Recanati visitai la biblioteca e ricordo che trascrissi su un foglietto una delle poesie di Leopardi bambino esposte in una teca. All’esame di maturità ebbi un tema su Leopardi. Gli studi leopardiani come primo atto risalgono al 1973: rivista “Per la critica”, con Gianni Scalia e altri amici, un fervore giovanile intorno, e sul primo numero un mio saggio su Baudelaire e sul quarto un saggio sulla Ginestra leopardiana. Due scritti che non avrei mai ripreso in raccolte successive, ma che segnarono il primo tempo di un dialogo con i due grandi classici, un dialogo che tuttora continua. Quanto a Leopardi, la sua presenza direi che l’avverto soprattutto nell’interrogazione assidua sul rapporto tra il soggetto, la sua vita quotidiana, e i mondi che ruotano nello spazio, insomma il rapporto tra il nostro tempo e il tempo stellare, tra finitudine e infinito. Da questa interrogazione, che è l’orizzonte di un pensiero, non mi sono mai allontanato, e riaffiora nella mia scrittura, qualunque forma o genere essa abbia in un dato momento.

In cosa si manifesta la contemporaneità di Leopardi?
Soprattutto nella critica, oggi necessaria, dell’omologazione a modelli esteriori, a mode, a convenzioni sociali predefinite. Ottonieri e Tristano nelle Operette sono due personaggi prossimi allo spirito leopardiano, critici, ironici, laici, inappagati e interrogativi. Come anche Amelio, nell’operetta Elogio degli uccelli, è un alter ego leopardiano: la fascinazione della leggerezza, dello sguardo dall’alto, il sogno di un corpo con i sensi liberati dall’atrofia cui la civiltà li costringe, insomma un desiderio aperto, mai ripiegato in se stesso, il disegno costante di un’alterità, pur nella consapevolezza della sua impossibile attuazione, della sua lontananza. Inoltre è contemporaneo, Leopardi, paradossalmente, proprio perché è inattuale, con la sua tensione, la sua purezza ideale, la sua integrità appassionata di sapere, di conoscenza, di un’altra morale, una morale nel suo e nel nostro tempo priva di tracce, quasi chimerica.

Leopardi, nel Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani, pensa a un’altra Italia, a un’altra morale, descrivendo la ristrettezza e l’egoismo e la gretta centralità degli interessi propri degli italiani. Inoltre nei Pensieri ci sono dei passaggi sulla centralità del danaro e sul dominio dell’opinione, dunque dell’immagine, che ci riguardano da vicino.

Un altro elemento che mi ha sempre colpito, e che ho più volte ripreso, condividendone lo spirito e trovandolo di grande “inattualità”, è la critica radicale della guerra. Una critica fondata sul fatto che la modernità si perfeziona via via diventando sempre più astratta, e dunque sempre più violenta: perché non vede più i corpi, gli individui, ma le loro astrazioni, non considera l’altro nella sua corporeità desiderante e senziente, nel respiro della sua propria e singolare e irripetibile vita, ma lo vede solo in rapporto ai propri obiettivi. Questo processo Leopardi lo osserva soprattutto nelle guerre moderne, sempre più affidate a cause non chiare neppure a quelli che le combattono, e miranti a distruggere in “una sola ora” migliaia di individui che non si conoscono tra di loro, solo perché ritenuti, o fatti ritenere da altri, nemici, privi di un loro corpo, di un loro pensare e sentire. Ed è molto interessante il paragone che Leopardi fa, in questo caso, con il comportamento dell’animale, il quale invece ha sempre presente il corpo dell’altro, e per questo non uccide altri individui della propria specie, se non per sopravvivenza biologica propria o dei propri figli, e solo in alcuni casi davvero molto rari.

La “pericolosità” che i liberali napoletani rilevavano secondo te persiste? che “pericolosità” era allora? Che pericolosità è oggi?
Certo, il pensiero di Leopardi può fare ancora paura o almeno può infastidire. Perché è un pensiero non mercantile, libero, nel senso forte e appassionato e creativo della libertà d’opinione, un pensiero non adeguato alla nostra epoca, non accomodato sulle magnifiche sorti e neppure consolato da utopie, da attese salvifiche, da rassegnazioni religiose, da asservimenti acquietanti allo “spirito dell’epoca”.

Non è certo un pensiero che può educare generazioni di giovani all’ubbidienza passiva nei confronti delle mode, dei consumi, o all’esteriorità fondata sul possesso di beni da status-simbolo.

Leopardi consiglia di coltivare la propria interiorità, abitua a un pensiero del vivente, del sentirsi vivente tra viventi, e dunque abitua al senso di una creaturalità laica.

“Come abitare la natura in un mondo snaturato”: era questa una domanda che si faceva il giovane Leopardi e che sembra riguardare proprio la nostra epoca. I liberali napoletani avevano presentito in Leopardi la critica della democrazia, intesa come critica delle masse, della massificazione (“le masse, questa leggiadrissima parola moderna”, esclama Tristano), ma anche intesa come critica dei processi sociali che portano a uno spegnimento della singolarità, del senso dell’altro, della sua irripetibile, unica presenza.

Anche Tocqueville, a proposito della democrazia americana, avvertirà il pericolo di una “dittatura della democrazia”, cioè di un’idea astratta di democrazia, in nome della quale si sacrificano i diritti individuali.

Nello stesso Baudelaire, nei frammenti dei Cahiers intimes, ci sono osservazioni sul conformismo delle democrazie.

Ma in Leopardi c’è anche, sul fondo, l’invito a non distogliere mai lo sguardo dalla vera condizione umana, dallo stato di finitudine, e su quello costruire una conoscenza di sé e le forme di relazione con gli altri. Inoltre nei Paralipomeni e nei Nuovi credenti è messa in scena la prosopopea e l’ipocrisia che accompagnano spesso le dichiarazioni progressiste, ma in quei casi è l’ambiente intellettuale napoletano – liberale e neoguelfo – che il poeta soprattutto sottopone ad aspra e fantasiosa satira.

In cosa consiste il valore di durata e tenuta dell’opera complessiva di Leopardi, soprattutto in un’epoca come la nostra di deviazioni, deragliamenti, sbandamenti, di lettura e conoscenza, oltre la soglia scolastica, che si riducono sempre più soprattutto nelle ultime generazioni?
Leggere Leopardi è un esercizio insieme arduo e appassionante. Per le giovani generazioni ci vorrebbero mediazioni scolastiche libere dalle ipoteche di certe formulette finite nei manuali e dure a morire, peraltro schematiche, non motivate dall’insieme della scrittura leopardiana, formulette che finiscono col consegnare il poeta a un ritratto predefinito, improprio.

Tra queste, la definizione di pessimista, che impedisce di cogliere la ricchezza poliedrica delle posizioni teoriche leopardiane, il senso del vivente, l’energia del desiderio, la critica della civiltà, delle sue maschere, e così via. Inoltre appanna la funzione propria della poesia leopardiana,  che   commuove e smuove e agita e fa pensare, dunque agisce nella interiorità del lettore. Ed è sempre interrogativa, spalancata sulle domande che più contano.

Oggi, per i giovani, Leopardi può ancora rappresentare un movimento di pensiero caldo, aperto, uno stato di ricerca non soddisfatto delle ideologie trionfanti o predefinite, un’attenzione viva alla singolarità e insieme alla comunità (il “viver cittadino”), una curiosità verso tutte le forme di sapere, un gusto della lingua, dell’immaginazione, un senso del paesaggio, della luce nel paesaggio, una consapevolezza del limite, un’apertura del desiderio.

Trovi, nella poesia di questi anni, un’incidenza leopardiana? Ne riconosci la presenza del pensiero?
C’è molta attenzione al pensiero leopardiano, finalmente non osservato come separato e altro dalla poesia. C’è una notevole ripresa di studi leopardiani, con molti giovani studiosi.

Sono stato a settembre in Brasile, dove a Florianopolis  un’équipe di ricerca ha avviato la traduzione integrale dello Zibaldone e un gruppo di giovani dottorandi conduce tesi su Leopardi. Tra poco più di un anno dovrebbe uscire la traduzione inglese dello Zibaldone, in un’importante edizione anglo-americana. Quanto alla presenza nella poesia italiana contemporanea, penso in particolare a due poeti, con i quali m’è accaduto più volte di parlare di Leopardi e che sentivo profondamente prossimi al pensiero leopardiano, molto diversi tra loro, peraltro: Luzi e Zanzotto. Con Luzi avevamo un dialogo intorno a Leopardi, per tutti gli anni Novanta e fino alla sua morte, in ogni incontro.

L’Occidente non più “inargentato”: immagini cosa potrebbe dire di questo presente italiano, europeo, mondiale? Come aggiornerebbe lo Zibaldone?
Sarebbe interessante immaginare il poeta dislocato oggi, nel nostro tempo. Penso che direbbe qualcosa sulla tecnica, in particolare sulla tecnica delle comunicazioni e sulla sua opera assidua di riduzione a superficie, sulla sua opera di passivizzazione e di omologazione degli individui. Del resto è proprio da Leopardi che Pasolini prese l’idea della omologazione. Inoltre criticherebbe la centralità del danaro, il dominio assoluto del mercato, e soprattutto la riduzione della politica a spettacolo, con maschere, marionette, comici, suggeritori, e la società come pubblico che applaude. Non è difficile immaginare che avrebbe queste posizioni, anche perché di fatto gli sono appartenute mentre era in vita.

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