Parole a un pubblico immaginario – Alfonso Gatto

di Alfonso Gatto
tratto da nostro lunedì
n° 2 forme – prima serie

Ho scritto la mia prima poesia a vent’anni in una stanza diroccata. Di là dalla finestra c’era il mare, pioveva dolcemente. Avevo visto per vent’anni le montagne chiudere il golfo e contro il cielo una casetta odorare del suo intonaco rosa che la pioggia le risvegliava. Tante sere io mi dicevo: «Dopo di me vivrà il mondo, chissà se altri guarderà questi colli e il mare col mio stesso sguardo e senza saperlo mi ricorderà».

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Forse era amore questo desiderio di sopravvivenza. Forse era gloria. Forse era un viaggio di là dai monti – addio a mia madre, addio a me stesso rimasto bambino al balcone per salutarmi. Forse era morte – andare con l’ultima luce, rimpiangermi come io solo sapevo rimpiangermi. E donne, treni, queì monti così lunghi che tutte le case n’erano calde, significavano la vita che non dovevo toccare se m’era tutta dentro, avuta col sangue, con gli occhi, con la bocca che mi sorrideva.
Questa fu la poesia che mi si rivelò in quella stanza diroccata ov’io ero seduto: le parole che scrissi allora, poche, timide, ma come sospese al silenzio che m’era intorno, mi sembrava che fossero proprio quelle con cui la sera voleva essere amata dal suo grande bambino.
E’ un’immagine che non ho perduto lungo gli anni: quel modo dolce e incontenibile con cui il mio cuore allora si sentì soffocato e aperto, m’è rimasto dentro per ogni mia parola, per ogni atto in cui mi sento vivere; e nulla c’è che mi distolga dal credere ancora oggi che la terra e gli uomini abbiano bisogno d’essere amati dal mio sguardo, suscitati nella terra, forti, vittoriosi nella splendida materia delle parole. Le polemiche, le definizioni, mi hanno lasciato intatto il mio brusco modo di sentirmi vivo e i riconoscere la poesia con franchezza, come un fatto, come una cosa.
lo odio gli uomini che la credono un problema, che vogliono ridurla alle proprie ragioni, che non sentono il terrore delicato in cui essa è come sospesa ogni volta a trovare la sua voce al momento in cui tutte le parole tacciono.
A non saper dir nulla di me, altro che il modo com’ero aperto all’amore avido che mi cercava, quale struggente nostalgia di bene sentivo di portare, e quale viaggio da compiere al di là di me stesso per ritrovarmi. «Io ero malinconichissimo e mi posi alla finestra»: è questa la veduta per l’infinito che ci ha lasciato Leopardi.
Noi amiamo la vita quanto più sentiamo di dover resistere alle sue impressioni, e durare, consumandola nel tempo e nella musica, affinché la nostra purezza sia come la spoglia del corpo ove abbiamo bruciato tutta la gioia e tutta la pena per non inaridire e per rispondere anche coi palpiti alla voce che sino all’ultimo ci desterà.
Lasciamo questo nostro desiderio aperto nella storia degli uomini, è la ragione della vita stessa, una tenace materia in cui vogliamo che tutti i pensieri siano cose.
La poesia è una realtà che accusa il lettore e lo pone di fronte alla sua distrazione.
Egli forse vuol vivere comunque, ma davanti alla poesia si accorgerà che le parole, a una a una e nel loro periodo, a poco a poco lo prendono, gli rivelano un mondo che presentiva, in cui dovrà riconoscersi e non perdere nulla della sua grandezza e della sua miseria.

S’accorgerà che perdendo la faccia si darà un volto, si identificherà e fermerà un momento, perché gli parlino, poi sempre più a lungo, quegli stessi desideri che prima abbandonava e temeva.
La poesia vi provoca, vi mette di fronte al bisogno della lotta. Leggendovi le mie liriche io voglio essere un buon provocatore. State attenti. Appunto perché la poesia è vita, essa può essere subito ricondotta alle dimensioni di un problema, a far soltanto da mediatrice e da moderatrice tra ì sentimenti estremi che essa suscita e gli ideali apparenti che essa conforta.
L’uso della poesia, di tutta la poesia, per coloro che vogliono fermarla al suo valore di “arte” e inibirle ogni umana disperazione, poggia ancora sul conforto che se ne vuole ottenere a tutti i costi, nonostante che i poeti vivano appunto per smentirlo.
Anche io sono qui per smentirlo, e per contagiarvi della mia disperazione, per radicarvi alle mie speranze, per dirvi che i vostri affetti e le vostre passioni sono un nulla, una bugia che voi sapete di dire se non sono la voce stessa dei sentimenti che dovete raggiungere e identificare in voi e contro di voi, nella pienezza della vostra vita morale e nella realtà della vostra natura.
Se voi vi domandate perché un poeta scrive, e in che modo si è deciso a scrivere, se voi ricordate quel ragazzo seduto nella sua stanza diroccata, comprenderete perché la poesia appartenga agli uomini che non si difendono, che passano nella vita, lungo tutta la vita, senza appropriarsene, aman­­dola anche per gli altri che credono di averla spesa o di poterla spen­­dere senza mai riuscire nemmeno a destarla.
Il poeta è un uomo mortale che vive con tutta la sua morte e con tutta la sua vita, nel tempo, e in sé si consuma e si sveglia, negli altri si popola e si chiama, e nulla possiede che non abbia già amato e perduto. «Volea dire, troverai altri in vece mia, ma no: un cuore come il mio non lo troverai», ha scritto Leopardi. Lasciate che i poeti siano sicuri di questa disperata bontà per il proprio cuore.

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