PORTE CHE NON ESISTONO PIÙ

Dal nostro lunedi – semestrale di scritture immagini e voci ideato e coordinato da Francesco Scarabicchi e Francesca Di Giorgio.

Prima serie Città numero cinque – marzo 2005

Da porte che non esistono più Norma Stramucci Sul crinale di un colle, al centro storico si entra da porte che non esistono più. Anche belle e restaurate, ma che non aprono nulla. Marina, Romana, Nova, Cerasa, San Domenico, San Filippo sono ormai solo i nomi da pronunciare per dire dove si è parcheggiata l’auto. Ho l’impressione che questa parte di Recanati, no­nostante le porte aperte, sia una stanza chiusa, con le sue pareti, il soffitto, i mobili persino. Un luogo chiuso e sereno. Chiuso il tempo in una mescolanza di storia nella quale convivono i merli ghibellini e una parabolica, le vestigia di un libero comune del XII secolo con i parcometri. E al centro della piazza la statua di Leopardi a testa china, chiuso anche lui su se stesso. Chiusa la statua da un reticolo che impedisce di avvicinarsi, mi vieta di cedere alla tentazione di colorarne di celeste gli occhi abbassati. Li guardo come lui guardava la luna, sempre la stessa. Quella statua è rimasta identica a quando ero bambina e non mi apparteneva l’immagine di un poeta fiero e bellicoso in cui non riconosco quel brutto pezzo di marmo che nessuno ha il diritto di toccare. Il tempo di tutta la mia vita ap­partiene tanto a questa stanza chiusa quanto al suo orto-giardino nel quale ci si immerge uscendo dalle porte. Chiuso anch’esso con un recinto fatto di mare e monti, di colline sulle quali sorgono paesi che ci appartengono, poiché fanno parte del nostro orizzonte. Queste le nostre vere mura, non la cerchia che ci vede passeggiare in ogni stagione e che nessuno più associa al nome di Francesco Sforza. Nessuno al confine, nessuno dietro all’Adriatico, al Conero e ai Sibillini; tutt’al più, nella vallata, il ricordo dei Piceni e dei Romani che si confonde e si fonde con le industrie; che a loro volta toccano il grano, le barbabietole, gli ulivi. Come al centro e nei quartieri, nei supermercati e nelle scuole, si mescolano la vecchietta di Monte Volpino, l’asses­sore comunale, la donna in carriera con la badante polacca o rumena, il bambino macedone, il venditore del Senegal, la studentessa vietnamita e l’operaio albanese. Nessuno qui, per rimanerci, arriva da vicino. Tutti arrivano da quel mare che non ci vede che raramente partire. Tutti felici nel nostro borgo selvaggio. Tutti tranne lui, che è voluto fuggire da una terra che palesemente amava. Lui che fa parte di questo mio mondo chiuso, lui che respiro per le strade, col quale devo costantemente fare i conti, dal quale non posso prescindere avendo la presunzione di sentirmi intimamente e formalmente poeta. Lui che ha abbattuto anche per me qualunque porta. Che mi ha reso pos­sibile un’esistenza serena in questo microcosmo, avendomi insegnato la via per riuscire a vedere e sentire, oltre qualunque limite, l’infinità dello spazio e del tempo, e condividere un principio di umana fraternità.
Norma Stramucci

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