Valeriano Trubbiani, De rerum fabula

 

La parola scolpita s’intitola  un volume del 2008 di Valeriano Trubbiani (Macerata, 1937) che raccoglie testi scelti dal 1980 al 2007; in precedenza erano apparsi Parola di scultore (2003) e Scultura nella parola (2006). Il labirinto, che in un cinquantennio di attività Trubbiani è venuto costruendo, ha come punti estremi del percorso la scultura e la parola, insegne dominanti a salvaguardia dei rispettivi “silenzi”, tra materia e scrittura, all’interno dei quali si interrogano le profonde ragioni che generano la forma e la voce. I “padiglioni” allestiti – i teatri del suo racconto contemporaneo – provengono anche da una deviazione dell’etimo di “labirinto” nell’accezione data, insieme, da un poeta che gli è caro, Edoardo Sanguineti, il quale, nei primi anni Cinquanta, definì l’esordio proprio con un libro di versi intitolato Laborintus, e da un antico trattato di retorica di Everardo il Tedesco (sec.XIII) che in epigrafe conteneva questo: “Titulus est / Laborintus / quasi laborem / habens intus” (“Il titolo è / Laborintus / come se fatica / avesse al suo interno.”). La cosa si attaglia a questo artista di Villa Potenza perché scultura e parola emergono da uno scavo profondo e, sebbene le tecniche siano diversissime, il “labor” è identico, nella tenace, ossessiva, accanita ricerca di una solidità che contrasti il niente, il perenne cancellare del mondo. Trubbiani ha ingaggiato la manzoniana “guerra illustre contro il tempo” nei confronti della storia, consapevole che ogni modernità è tale proprio perché contempla tutto l’antico e tenta, come può, di salvare e difendere reperti, frammenti, memorie e relitti di ciò che deperisce e scompare. Da Helvia Recina e dai resti del teatro romano del II secolo d.C., nella valle del fiume Potenza, alla luce ferita del presente, tra l’Acropoli sul Guasco e la fuga dei leoni stilofori dal protiro della Cattedrale di San Ciriaco ad Ancona, le visioni incise, disegnate, scolpite e scritte rasentano i confini del sogno e dell’allucinazione, ma tengono, con misurata freddezza, uno stile “fermo”, nella scrittura addirittura prosciugato ed estremo, quasi ogni sostantivo e ogni verbo subissero un paziente affinamento alla mola e alla morsa, quasi provenissero da un’officina d’orafo che cerca la pronunzia esclusiva, il castone che solo possa sposare il suono e la forma.
Credo non ci sia molta differenza tra la parola parlata e quella messa su carta. Ogni periodo della pagina di Trubbiani solca il luogo fisico che lo ospita. Tutto il lessico è imparentato con la possibilità di vedere le immagini evocate del testo. E’ quasi parallelo il convivere tra l’arte del lavorare i metalli, l’incidere, il disegnare a grafite, e l’uso della lingua che da taccuino si fa libro. Il suo universo di figure, animali, ambienti, la folla di protagonisti e comprimari, di comparse e generici, vive muto ed immobile nella scena ed ha una contemporanea voce narrante quando lo stesso “faber” sceglie grammatica e sintassi per dire e dirsi anche nel nascondimento, nella finzione o nella “fuga” che immagina l’invisibile, l’apparentemente irreale incendio, il crollo di un ponte, l’inabissarsi del colle, il tremare della terra, l’infrangersi dei vetri, la polvere, i tuoni, le urla. Una regia letteraria convive con l’altra, quella dell’artista impresario di se stesso che monta e combina le “stanze” e i “quadri” dove tucani e rane, gabbiani e topi, lucertole e pipistrelli, conigli e tartarughe, cervi e rinoceronti coabitano con corazzate e città, ponti e fari, culle e triremi, archi e torri. Ho spesso pensato che il “faber” contemplasse lo scriba, il suo pudore, la sua aristocratica umiltà. Nel labirinto della creazione ci sono “stazioni” dove consentire al pensiero di aprirsi, di decidere il tono, l’impostazione, la musica segreta delle armonie, il pieno e il vuoto del senso; in quelle “stazioni” s’illumina il nero su bianco, s’accende il brulichio di lettere, consonanti e vocali, che s’insinuano nella quiete tellurica della narrazione che Trubbiani tiene d’occhio come un avveduto dosatore che non concede nulla all’indulgenza, ma usa lo stile (lo stilo) nell’essenzialità necessaria. Una forma tesa e asciutta rivela i bagliori della sua arresa inermità fortificata. A chiarirlo è “il lavoro creativo” suddiviso in capitoli o cicli che salgono fino a questo presente dal fondale buio del quale emerge l’arte d’essere sempre fra croce e delizia (“benedizione divina” o “divino castigo”), nell’antinomia perenne dell’umano, sull’arduo sentiero felice e terribile, lo stesso che percorre il visitatore vedente e non (fra i promotori dell’evento, il Museo Tattile Statale Omero) della mostra antologica De rerum fabula allestita sapientemente da Massimo Di Matteo e Mauro Tarsetti nelle sale sull’acqua della settecentesca e pentagonale Mole del Vanvitelli di Ancona, per la cura di Enrico Crispolti con la collaborazione di Simone Dubrovic. Venti “stazioni” (per centosessanta opere) di una via della croce umana che segnano l’intero tracciato lungo l’offrirsi di sculture in rame e in bronzo, ambientazioni, disegni e pirografie. Le date entro cui sono racchiuse vanno dal ‘65 al 2008. Chi rammenti l’antologica del settembre del ’79 alla Pinacoteca civica “Francesco Podesti” di Ancona e “Oficina Mundi” del ’97 a Macerata, può, attraversando questa, rendersi conto dell’ampiezza dei temi e degli sguardi che hanno definito quel che l’intelligenza di Mario De Micheli, quarant’anni or sono, cifrava, per Trubbiani, come “intellettuale rigore” e “visionaria libertà creativa”. Stazione dopo stazione, con le “didascalie” per voce scritta dello stesso artista, si ascolta, fra pietas e ragione, la pronunzia dei temi contenuti nei titoli: “Macchine belliche” (’65-’67), “Aruspici” (’68-’74), “T’amo pio bove” (’76-’78), “Putti, giochi di mare, giochi di cielo” (’80-’82), “Mare, Corazzate e Federico Fellini” (’82-’01), “Città, Dimore, Turris” (’90-’92 e ’99-’04), “Elmi, caschi, scafandri, borgognotte” (’93-’98 e ’04); vere e proprie installazioni ambientali: “Stato d’assedio” (’71-’72), “Le morte stagioni” (’73), “Ractus, ractus: stato d’assedio” (’76-’79), “Il silenzio del giorno” (’79), “Turrita urbis pugnandi” (’81-’84), “Colosseo” (’94-‘97); i cicli di disegni come quelli per il viaggiatore “Ciriaco de’ Pizzecolli e la sua Ancona” (’90-’91 e ’87-‘05), o le pirografie per “Giacomo Leopardi” (’87-’90 e ’93-’97). Tutto si tiene sul filo della poetica annunciata per frammenti da un “Prologo”, conclusa da un “Epilogo” con gli interludi delle pagine verticali ad ingresso di ogni “capitolo”, tutti provenienti dagli scritti, che rafforzano la sensazione di varcare la soglia onirica o di vaga veglia nella quale, secondo il poeta americano John Crowe Ransom tradotto, nel ’71, da Giovanni Giudici, “le immagini della mente devastata/mostruose eran solo nei sogni”. Dai “Progenitores” dell’origine alla folta schiera di lucertoloni (“Transumanza lucertiforme”) fino all’eloquenza dei “ponti” della ventesima “stanza” (dall’uomo all’uomo, dopo gli animali sacrificali e sacrificati) si compone il racconto di un’intera esistenza d’autore, il corpo a corpo con la storia dell’umano, con la tragedia e i rari spiragli di quiete (“Tutto è sospeso come in un’attesa” suggerisce Camillo Sbarbaro in Pianissimo del ’14). Trubbiani è artista lirico (si pensi a “Le morte stagioni”, la folla di uccelli appesi nel silente attendere, più volte presenti in differenti contesti ambientali: Milano ’72, Volterra ’73, Recanati ’87) e “mentale”, quasi a protezione del sentimento, a difesa dell’interiore cercare il senso dell’esistenza, la domanda a cui non si sa rispondere. Quel lirismo struggente, quella “nostalgia” del tempo e degli uomini, si scontra con le leggi del dominio, della sopraffazione, della violenza, della crudeltà (“Homo homini lupus” come nel Plauto dell’Asinaria), col patimento e lo strazio delle epoche, col “niente” che resta dopo la polvere e il sangue, dando ancora ragione all’idioma della poesia, al Vittorio Sereni di “Intervista a un suicida”: “… Pensare/cosa può essere – voi che fate/lamenti dal cuore delle città/sulle città senza cuore -/cosa può essere un uomo in un paese,/sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante/e dopo/dentro una polvere di archivi/nulla nessuno in nessun luogo mai.”

Francesco Scarabicchi

08/01/2012 inserto “Alias” del “Manifesto”

L’intervista è stata realizzata il 7/11/2012 durante la visita alla Mole Vanvitelliana, all’interno della mostra “De rerum fabula” da Francesco Scarabicchi e Massimo Raffaeli; le foto sono state realizzate da Francesca Di Giorgio e Giandomenico Papa.

Scheda mostra

Valeriano Trubbiani . De rerum fabula

Sculture, ambientazioni, disegni 1965-2008

Museo Tattile Statale Omero – Comune di Ancona

Mole Vanvitelliana – Ancona

Inaugurata il 20 ottobre 2012 fino al 17 marzo 2013

Cura della mostra e del catalogo (Silvana Editoriale) Enrico Crispolti

con la collaborazione di Simone Dubrovic – Testi in catalogo: Enrico Crispolti, Simone Dubrovic, Marco Tonelli, Luca Pietro Nicoletti e brani di “poetica” di Valeriano Trubbiani

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