al caffè della piazza

di Lucilla Niccolini
Tratto da nostro lunedì n. 4 – Scataglini

Colloquio con Antonio Luccarini
Pomeriggio del 25 giugno 2004
Ancona, studio di Palazzo Camerata
(seconda parte)

scataglini+leon ancona

Antonio, perché proprio Scataglini?
“Pensavo che la parola di Franco fosse molto vicina alla gente, e anche agli umori
della città. In realtà Ancona e il suo spazio vengono filtrati da Franco:
Ancona è uno spazio mentale”.
Ci pensa su e riprende: “Intendiamoci, da parte sua non c’è mai stata fuga,
anzi pregnanza: non a caso era un teorico della poesia della residenza.
Nonostante la sensazione di asfissia e la tentazione del volo, amava restare,
il qui e ora con le sue angosce, le limitazioni e le sue claustrofobie. Era questo
che alimentava la sua poesia. Pensavo dunque che fosse operazione congeniale
ai giovani, farlo parlare con loro, con tutti quei giovani che attraversavano Ancona
in quel periodo, con tante illusioni, tanti slanci”.

Che significa “quel periodo”?
“Si era all’inizio degli anni ’90: un periodo particolare.
L’università, dopo vent’anni di esistenza, si era affermata; e si era formato un movimento studentesco incuriosito, di ragazzi che volevano legarsi di più alla città, conoscerla, ascoltando le sue voci più nobili. Io proposi diversi approcci, anche utilizzando formule vecchie come il cineforum e gli incontri pubblici”.
Che però oggi, e a partire da quel tempo, sono tornati di moda.
“Esatto, da quel tempo se ne continuarono a fare negli anni seguenti in tutti i luoghi,
anche a sproposito. Ma allora mi sembrava la formula più immediata, Io, poi, coordinavo
sì le iniziative, ma non dirigevo niente: la progettualità era venuta spontaneamente
dai giovani. Mi limitavo a fare qualche nome, come, appunto, quello di Franco”.

Perché proprio lui?
“Intanto perché era mio amico, ma poi perché avevo ormai letto ogni suo libro
e da essi avevo imparato a conoscerlo meglio, dalla poesia. E dopo, avevo avuto con lui, a superare la conoscenza sporadica, qualche incontro magico, in cui mi aveva aperto panorami… per me lui era stato una specie di finestra aperta su Ancona, me la faceva vedere in una diversa luce, Ancona e il suo territorio, in cui la sua presenza stessa
mi si era cominciata a chiarire”.

Cosa c’entra Ancona col suo territorio, sono due realtà così diverse…
Ancona è sempre stata distinta dal territorio.

“Ma c’è anche una tradizione artistica maturata qui e che poi si è allargata al territorio.
Per tanti versi questo è un luogo privilegiato, una torretta, un’altana, sì insomma
un punto di osservazione, quasi il colle di Leopardi. Un posto in cui possono maturare talenti, come infatti succede”.

Rivaluti quindi la funzione del capoluogo, almeno in questo?
“Ancona ha questa capacità, di dare valore anche all’esclusione…”.

Come la siepe per Leopardi, di nuovo…
“Ma sì, vediamo meglio quel che non vediamo davanti a noi. Qui ci sono poche distrazioni, arrivano attutiti i rumori della modernità. Qui sei immerso nel fango del quotidiano,
delle cose irrisolte e incompiute, in tutti i sensi, ma questo luogo ti dà anche silenzio, sospensioni, solitudini da cui è possibile trarre nutrimento per l’immaginario
e per il pensiero: ti consente momenti di meditazione”.

E quella sera al Caffè della Piazza…
“Fu uno dei primi incontri lì e fu animato dalla massima vivacità: lui stesso era stupito dell’accoglienza. Parlò di Leopardi, ricordo”.

E i giovani?
“I giovani volevano parlare con lui, dialogare. Lo avevo già presentato ai ragazzi
dell’Ascu ed erano rimasti subito conquistati. Dopo quella sera hanno cominciato
a frequentarlo, ad andarlo a trovare a casa, a leggere le sue poesie.
Prima il contatto con l’uomo e la sua parola poetica, dopo… un incantamento.
Chi fu presente avrà di certo ancora il ricordo di una serata di incantamento”.

Un incontro speciale…
“Ricordo in particolare il silenzio, in un bar, nel luogo della chiacchiera
e della disattenzione, dello stare accanto e non insieme, che per una volta diventa luogo magico di attenzione suprema attorno a uno che non aveva neanche la voce forte, potente. Valeva il valore delle parole”.

E lui?
“Era commosso e dopo mi disse che non avrebbe mai saputo come ringraziare
per quest’attenzione intensa, questa attenzione totale. Era abituato al solito pubblico”.

Poi?
“Il rapporto è cresciuto e i ragazzi dell’Ascu lo hanno convinto ad altri incontri.
L’anno dopo, lo stesso della sua morte, organizzarono una serata in aula magna d’ateneo, con La rosa e letture varie”

Ricordo un successo strepitoso, inimmaginabile prima per quel tipo di incontri, tanta gente in aula magna e un’attenzione magica, anche lì, in un luogo
non certo raccolto, che era diventato come una nicchia attorno a lui e alla sua voce.

“E lì di nuovo gli studenti vollero ricordarlo dopo la sua morte, in aula magna.
Erano tutti molto commossi. Poi, una poetessa di fuori, forse la Tandello, mi pare,
disse una cosa importantissima: venendo a mancare Franco, disse, era come
se avessimo subito la perdita di uno spazio, uno spazio dove hai bisogno di andare
ogni tanto. Uno spazio, più che una persona, uno spazio della mente in cui ritrovarsi. Dopo, quante volte, quando sono mancati altri amici o persone care, mi sono accorto
che è vero, è da lì che misuri anche l’affetto. Certe chiacchierate con Franco
non me le può dare nessuno più. Anche leggerlo, non è la stessa cosa.
La sua è una voce poetica che supera la sorte e il divenire, ma quel che ti manca
è la persona fisica, che parlava di sé”.

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