In forma di parole

 

nostro lunedì n.7 - pensare

 

Colloquio con Gianni Scalia, Bologna, maggio 2006

“La filosofia ha la sua origine dall’amore e solo da questo. Il suo nome lo attesta “Philosophia”: amore della saggezza.

Come si deve intendere? L’accezione più ricorrente – bisogna ricercare la saggezza che non si possiede ancora – non conclude che a una banalità, un turismo. Ma essa di fatto ne maschera un’altra più radicale: la filosofia si definisce come “amore della saggezza” perché deve di fatto cominciare per amore, prima di pretendere di sapere.

Per giungere a comprendere, bisogna prima desiderare, detto altrimenti, stupirsi di non comprendere (e questo stupore anche offre un inizio alla saggezza), o ancora, soffrire di non comprendere, oppure, temere di non comprendere (e questo timore, ancora, apre alla saggezza).

La filosofia comprende solo a misura in cui ama – io amo comprendere, dunque amo per comprendere.”

… Sì, viviamo l’imperativo della moda, c’è il culto del corpo, ma c’è anche un culto maior, più forte di tutte le cure somatiche, toniche, artificiali e questo è oggi il culto dell’ignoranza, un culto spaventoso, visto che stiamo parlando del pensiero. Sono venuto via dall’università di Siena sei anni prima del tempo, quando io ho sentito un giorno, incontrandolo per strada con i miei due amici senesi più cari (Antonio Prete e Antonio Melis), il nostro rettore Luigi Berlinguer dire all’improvviso “Sai, è necessario digitalizzare l’università”…

Allora non gli dissi nulla ma feci un pensiero: si può digitalizzare qualcuno in senso osceno, oppure si può sporcare i muri con un dito, questo avrei voluto dirgli, però quella parola mi ha fatto pensare che dovessi andare via più che la scarsità dei miei auditores ai seminari… ‘seminario’ viene da ‘seminare’ ma un anno erano in trenta, l’anno dopo venticinque, l’anno dopo ancora diciotto, alla fine tre o quattro… infine ho detto “Facciamo una passeggiata”, deambulando solvitur… “Digitalizzare l’amministrazione dello Stato!” è stata una delle prime frasi di Silvio Berlusconi… una conferma, una piena conferma…

Tu testimoni di un pensare dentro la riflessione sul linguaggio ma questo è emerso soprattutto a partire dagli anni Ottanta. C’è un prima?

Come nasco? Ci sono le fotografie di un bambino paffuto, biondino, tra i cuscini anni Trenta, ma in realtà io sono ‘nato’ in quinta elementare.

Le elementari le ho fatte in una scuola pubblica mentre il ginnasio l’ho fatto per metà in una scuola privata perché poi è arrivato il ’43. Il ’43 è una data decisiva, di cui ho una memoria molto cosciente perché è l’anno in cui io mi sono messo a leggere. L’unica mia gioia era quella del leggere, del troppo citato vizio impunito della lettura.

Prima, quando andavo alla scuola pubblica, a Padova, sempre accompagnato da una cameriera (i miei temevano pericoli fisici e morali, mia madre era severa, giansenista, mio padre invece siciliano e libertino), dopo la scuola i miei non mi facevano uscire e così rimanevo in giardino a guardare oltre il cancello dove c’erano i prati pieni di ragazzi che giocavano a pallone, io avrei voluto uscire e andare da loro ma mi era impedito dal rigore morale di mia madre e dalla sua genesi aristocratica.

Per questo mi sono rifugiato nella lettura. Quando per esempio mio padre e mia madre andavano a teatro, perché erano amanti dell’opera lirica (che io ritengo insopportabile, odiosa, odio Verdi, l’unica opera di Verdi che sopporto è il Falstaff, né credo che Verdi sia nazionalpopolare in senso gramsciano, che abbia fatto segretamente l’unità d’Italia…), bene, io restavo in casa, custodito da questa cameriera e leggevo i libri della biblioteca paterna, Carducci, Pascoli, d’Annunzio, e opere storiche della prima guerra mondiale. Non c’era la filosofia ma c’erano i romanzi, che invece non leggevo, del tipo Teresa. D’Annunzio mi piaceva ora sì ora no, mentre del Pascoli avvertivo già un poco il simbolismo. Nel ’40, con la guerra, i miei dalla scuola pubblica mi hanno messo in un collegio di gesuiti, allora celebre se non proprio famoso, che c’è ancora, l’“Antoniano”, e ci sono rimasto fino al ’43, l’anno in cui sono cominciati i bombardamenti, bombardamenti a tappeto.

Siamo sfollati a Cles, in Val di Non, nota perché c’era un tempo un vescovo conte, Bernardino Clesio, in un castello un pò fuori del paese: io andavo quasi tutte le mattine, con un libro, nel castello, e questi sono forse stati i miei Holzwege, alla maniera di Heidegger… lì leggevo gli scrittori italiani contemporanei che compravo con i soldi che mi dava mio padre, un uomo molto generoso: se il tempo era grigio leggevo Linati, se c’era il sole leggevo Soffici, quello buono… ne ho persa la metà, di quei libri, ma posso dire che allora ho letto tutta la letteratura italiana contemporanea. In Val di Non c’era l’odore dei meli e delle mele, come in Sinfonia pastorale di Gide, infatti l’altro versante della mia formazione è la letteratura francese, compresi naturalmente i filosofi.

Per me leggere e pensare è sempre stata la stessa cosa, così come è la stessa cosa leggere, pensare e parlare. Questa trinità va tenuta insieme, è essenziale, anche se sembra scomparsa dalla nostra cultura l’idea di stabilire delle etimologie o meglio delle genealogie… Dunque nell’estate del ’45 mi sono presentato da privatista, saltando un anno, agli esami di stato al liceo “Tito Livio” di Padova (…Tito Livio, anche se allora preferivo Tacito…) dove mi ero iscritto prima di sfollare: ho preso nove e dieci in tutte le materie, a parte un otto in matematica, però ricordo che proprio il professore di matematica, che si mise a parlare un po’ con me, aveva sulla giacca una fascia tricolore con la scritta “Volontari Alta Italia”…

C’è una tua foto, della fine degli anni Quaranta, dove tu sei per la strada con Fiorenzo Forti, entrambi elegantissimi, e dietro di voi si intravedono Lea Ritter Santini e Piero Camporesi. Cosa ti fa venire in mente quella foto?

Il fatto che vengo a Bologna nell’autunno del ’46 e pochi giorni dopo il mio arrivo vado all’università. Il giorno di una grande nevicata, la neige d’antan, camminando tra due argini di neve, arrivo nella facoltà di lettere, in via Zamboni e chiedo dell’aula di Carlo Calcaterra, il professore di letteratura italiana, di cui avevo letto Il Parnaso in rivolta e Con Gozzano e altri poeti, compresi altri libri sabaudi che adesso ho cancellato dalla memoria. Arrivo nell’aula, un piccolo anfiteatro di legno scricchiolante, e mi metto seduto: in cattedra non c’era Calcaterra ma Fiorenzo Forti, il suo assistente, e vicino a lui una ragazza che faceva una relazione sulla Favola d’Orfeo del Poliziano e poi un signore, il princeps di quei ragazzi e ragazze, il quale era Pietro Bonfiglioli, mentre la signorina che stava parlando si chiamava Mirella, Mireille mi viene da pensare… Alla fine della discussione Forti disse “Ma vedo laggiù un giovane – o un giovine, allora si diceva così – che non conosciamo”, perciò mi chiese da dove venivo, chi ero e se avevo qualcosa da dire su quella relazione: cominciai citando il Poliziano che afferma di aver scritto la Favola in due giorni “intra continui tumulti”, eccetera eccetera.

Forti ne fu colpito. E fu quel giorno che conobbi anche l’amico di una vita, Pietro Bonfiglioli, la cui scomparsa mi ha addolorato moltissimo, così come mi addolora in modo iroso il fatto che non ci sia dato il permesso di pubblicare, nonostante la piena disponibilità di In forma di parole, i suoi inediti pascoliani e montaliani.

La seconda foto, celeberrima, è quella che ti ritrae con la redazione di Officina, di fianco a Roberto Roversi, Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Franco Fortini, Angelo Romanò…

Quella è una foto vulgatamente volgare, è una foto in posa, insopportabile, sembra, lo dico con una parola del rituale bizantino, una sinassi liturgica, una parola che ho trovata nel vocabolario, perché io leggo sempre i vocabolari (non il dizionario ma proprio il vocabolario) perché ci offrono tutte le parole possibili, anche se tutte le parole sono ‘impossibili’ in quanto sono infinite, perché non ci sono né sinonimi né contrari, perché ogni parola è se stessa. è l’attuale decadenza della parola, la lingua degli schiavi che noi parliamo, non degli schiavi delle dittature ma degli schiavi della pubblicità e del consumo, che ci fa pensare che ogni parola abbia un sinonimo mentre ogni parola è un individuum… Tornando alla fotografia di Officina, sì, è liturgica, c’è Fortini che parla, non col dito alzato ma come se lo avesse…

La foto però allude a una parte cospicua del tuo percorso, quando per te il pensare era forse un pensare anche dentro l’ideologia. O no?

Non penso di essere mai stato ideologico.

Non ho peccati (o ‘peccadilli’, che sono peggio dei peccati) di ideologia. Officina era una rivista molto ‘scritta’, nel senso più emblematico della parola, un po’ manieristica, tutti cercavamo di scrivere bene anche se poi chi cerca di scrivere ‘bene’ finisce per scrivere male, e infatti i grandissimi scrivono ‘male’, Dostoevskij scrive male, Svevo scrive male, chi scrive bene fa al massimo La Ronda, e qui mi viene da pensare che ogni ronda è sempre poliziesca, intellettualmente e filosoficamente burocratica. Semmai l’ideologia di Officina consisteva nel fatto di non credere di essere ideologici, mentre non si poteva non esserlo: in realtà l’ideologia l’ha inventata Sartre e non è altro che l’engagement, che, una volta tradotto in ‘impegno’, è stato rovinoso. Noi invece pensavamo ad una nostra posizione autonoma, per esempio a Pasolini piacque la mia definizione di marxisant, ma gli piacque soffrendo perché Pasolini non era ironico, mai, neanche nelle sue poesie, in quanto l’ironia comporta sempre la litote, la distanza… Officina ha inaugurato poi una lunga consuetudine di anni e di pensieri con Roberto Roversi, un grandissimo amico. Proprio Roversi mi telefona un pomeriggio e mi avverte dell’arrivo a casa sua di Pasolini per parlare del primo numero della rivista che sarebbe stata Officina, un titolo che subito mi ricordò Officina ferrarese di Roberto Longhi e fece sorridere d’intesa Pasolini. Officina ha dentro, per etimologia, il facere. A proposito, sembra che la parola fashion, ‘moda’ possa derivare da facon ‘foggia’, o fovea ‘fogna’, oppure semplicemente da facere. Dunque la moda è un fare, è una attività e non un comportamento, è un atto.

Tu su Pasolini hai scritto un libro straordinario e purtroppo introvabile che uscì da Cappelli, intitolato La mania della verità, dove è esplosivo il pensare per il tramite della sua poesia. Lì si avverte quanto abbia contato per te Pasolini. Ma ‘come’ ha contato?

Intanto, con una parola antica, diciamo che è stato l’anima di Officina, l’animus, ha animata una rivista peraltro accudita, ammobiliata, scritta, stampata, pagata e diffusa da Roversi. Mi viene in mente un episodio. Nella fotografia di cui parlavamo, nella mano destra io ho un volume preso in biblioteca, gli Scritti di Renato Serra, su cui scrissi un saggio dal titolo paracontiniano del tipo Progetto per un ritratto ecc. (Per inciso, io ho letto furiosamente, già negli anni di guerra, Contini, Longhi e Debenedetti). Scrissi quel saggio, e qui bisogna sapere che in Officina si dibatteva sul serio, ben prima del Gruppo 63 che invece si accredita come l’inventore della discussione redazionale dei testi o della diatriba tra redattori. Ognuno portava da leggere i propri testi e poi si discuteva: ecco, il mio scritto su Serra venne criticato da Leonetti, infatti a rileggerlo adesso quel mio Serra era poco serriano, ma Pasolini (che non rideva mai, si limitava ad atteggiare un sorriso che subito gli illuminava il volto) disse semplicemente ‘Senti Gianni, tu sei convinto di quello che hai scritto? Perché se Gianni ne è convinto, è anche chiaro che possiamo avere idee diverse su Renato Serra.’ Non parlava mai in modo perentorio o magistrale, assolutamente, come invece faceva Fortini. Ma Fortini agiva così per invidia, perché non ne sopportava lo straordinario successo nazionale e internazionale. Anche oggi è la stessa cosa: gli intellettuali italiani parlano di Pasolini, male o bene, solo per invidia.

Pasolini ha scritto a te l’ultima sua lettera dove ti chiede di ‘tradurlo’. Non lo senti come un passaggio di testimone?

Sì, è un passaggio di testimone, e lo capisco sempre meglio. Mi dice almeno tre cose, in quella lettera: che la mia lettera precedente gli è giunta in un vuoto da ospedale psichiatrico, che vorrebbe io traducessi la sua immaginazione politica in economia politica, che infine avrei dovuto farlo in maniera chiara e piana, per te, per me e per tutti. Sì, è un lascito, di cui non sento tanto il peso quanto, in senso etimologico, la responsabilità. Poco tempo prima mi aveva telefonato dicendomi che era a Bologna, a Villa Aldini, sul set di Salò, invitandomi ad andarlo a trovare ma gli dissi che io non ero mai stato su un set e che non mi pareva il caso. Venne lui a casa mia.

Suona il campanello, scendo e lo vedo davanti alla macchina, l’Alfa metallizzata ‘con cui andava a caccia di ragazzi’ dicevano allora i giornali fascisti, democristiani, ma anche i progressisti, quelli che non perdonavano a Pasolini di essere Pasolini, tutti, si può dire. (Una persecuzione, e una persecuzione che continua: sono passati trent’anni e si continuano a scrivere le stesse cose di allora. Mi sono chiesto il perché e mi sono risposto che c’è una ragione malsana, una ratio patologica nel continuarne a parlare magari dicendo che è un grande scrittore. Al funerale di Pasolini, dove andai con Roversi e Lucio Dalla, mi colpì una frase che disse Alberto Arbasino, “Nessuno di noi potrà morire come Pasolini, parecchi di noi moriranno in un baldacchino”, è una frase puntuta ma dove la puntura si trasforma in una paradossale nostalgia).

Lui cercava quella sera a Bologna vecchie trattorie che intanto si erano trasformate in negozi di jeans e sale da ballo, fatto sta che finimmo in un pessimo ristorante cinese. Poi una lunga passeggiata sotto i portici fino a mezzanotte, l’ora in cui di solito scompariva. Ho ancora in mente alcune sue frasi… “Hanno messo il coprifuoco anche qui come a Roma?”… perché, contrariamente al passato, Bologna di sera era deserta, proprio Bologna che era stata, ai tempi di Dozza, una città comunista e di tutti stava allora diventando una città di pochi, mentre oggi è la città di nessuno. E poi una frase che lui riferisce a me nel trattato pedagogico dedicato a Gennariello in Lettere luterane, secondo cui Bologna è ormai una città “comunista consumista”. Gli chiesi a un certo punto perché non scrivesse più poesie, rispose che si possono scrivere contemporaneamente romanzi, racconti, saggi, film, i generi più diversi, ma che invece la poesia occupa interamente, prende tutto di noi.

Ma, allora, che cosa significa pensare?

Questo è il titolo di un libro di Martin Heidegger che, come molti dei suoi libri, non tutti, non è pensato come libro ma come una serie di lezioni, conversazioni, convergenze, quelli che appunto chiamava seminari. Qui Heidegger dice due o tre cose, anzi dice due o tre cose che sa di lui… si potrebbe quasi dire con ironia blasfema nei confronti del maestro. Intanto la parola pensare deriva dal basso latino pendere e vuol dire ‘pesare’, una cosa che pensiero non è, cioè misurare, contare eccetera, da cui viene anche il termine ratio, che vuol dire ‘misura’, ‘conto’. (Il pensiero a chi e cosa dovrebbe mai rendere conto?) Il pensiero non è neppure logico, però logico deriva da logos: all’origine della stessa filosofia greca c’è un grande annuncio etimologico e nello stesso tempo la sua corruzione, perché evoca sia logos, ‘logico’, ‘logistico’, sia mithos, ‘racconto’. Per Heidegger pensare riguarda invece ciò che ci dà da pensare, o ciò che ci fa pensare. C’è un senso profondo, in questo: dire ‘ciò che ci fa pensare’ vuol dire che il pensiero prende origine da qualcosa che non è il pensiero. E da che cosa allora? Dall’Essere. Ma anche qui c’è qualcosa di pregiudicato perché quando dico l’Essere voglio dire che già penso l’Essere un oggetto del pensiero, o comunque un soggetto che lo pensa.

No, bisogna pensare l’Essere non come oggetto del pensiero né come soggetto. Dice Heidegger, invece, che è ciò che chiama o convoca al pensare. La stessa cosa è per il linguaggio, quindi fra pensare e dire c’è uno stretto rapporto. Quando noi parliamo, per esempio, pensiamo il linguaggio come ciò che è prodotto dall’uomo, dal parlante: ora, noi abbiamo la facoltà di parlare ma non siamo i ‘possessori’ della parola, come già è alluso nel racconto della Pentecoste, dove tutti ascoltavano nella propria lingua ma quella propria lingua non esauriva il linguaggio dello spirito. Ora, ciò che ci dà da pensare si può dire in due modi diversi, nel senso heideggeriano, appunto, o in un modo persino più poetico, nel senso che pensare è ‘amare’.

È in quest’ultimo modo, infatti, che nasce la parola filosofia, quando l’Essere che chiama il pensare è proprio l’amore del pensare. Dice Jean-Luc Marion che la filosofia è amore della saggezza, in quanto deve amare prima di sapere. Se non si ama, non si sa. Sì, è l’amore che ci fa pensare, è il desiderio che ci fa pensare, e questo accomuna quello che diciamo ‘filosofia’ a quando diciamo ‘poesia’. Insomma pensare è poetare in forma di parole…

Il tempo non ha affatto intaccato il sorriso di Gianni Scalia, la cordialità e la perfetta ospitalità con cui sa accogliere gli amici e i suoi interlocutori. è un sabato mattina di metà maggio, una di quelle giornate in cui Bologna si arroventa e si chiude nell’asma dell’umidità. L’appuntamento è in via Castiglione, a casa sua, o meglio nello studio adiacente che funge anche da redazione di In forma di parole, la rivista (anzi il libro, tanta è la sua accuratezza compositiva, lo splendore tipografico) che redige a cadenza da quasi trent’anni.

Nessuna trascrizione potrà mai restituire il tono e la ricchezza del conversare di Scalia, il suo procedere ora per parentesi avvolgenti ora invece per point di esattezza fulminante. Da filosofo e insieme filologo, o meglio da logofilo, come una volta si autodefinì. O più semplicemente da maestro, quale egli è. (Nemmeno è un caso che sulla scrivania abbia aperto, e striato da fitte annotazioni a matita, il volume delle Lettere di Platone, precisamente alla settima dove il filosofo argomenta la superiorità della parola orale su quella scritta e aggiunge di volersi esprimere, ormai, solamente per agrapha…). Ed è vero che Scalia, già docente di Letteratura italiana all’università di Siena, ha raccolto in volume meno di quanto non abbia seminato nelle riviste, da “Officina” a “Ragionamenti”, da “Passato e presente” a “Che fare”. Tra i suoi libri vanno comunque ricordati: La manìa della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini (Cappelli 1978), Signor Capitale, Signora Letteratura (Dedalo 1980), A conti fatti (Il Poligrafo 1992) e Fuori e dentro la letteratura. Stranieri e italiani (Pendragon 2004).

m.r.

 

Sedersi ed ascoltare Scalia è come stare nella presa diretta del sentimento del senso: la luce dell’intelligenza che viaggia in compagnia stretta della passione. Si scandisce un intero destino di parole nel cuore della loro origine, etimologia e respiro, come se ogni lessico attendesse d’essere svelato e rivelato nella sua asciutta, splendente verità dell’umano che è verità della storia dell’essere e dell’essere nella storia. Lo ascolto nella piena e rammento le altre volte, nel corso di quasi trent’anni, quando ho avuto il privilegio di stargli accanto, di camminare con lui, di conversare, magari in una notte calda di Macerata, mentre si faceva largo, affilato e vibrante, lungo il sentiero del pensare, del ricordare, dipanando il filo della ragione, sciogliendo i nodi, disegnando la rete delle idee come una mappa continuamente variata. La generosità di Scalia è proverbiale e rara. L’ordine del suo narrare è plurale.

Un’intera folla si muove dentro il dire che non somiglia affatto alla monotonia della pianura, ma s’inerpica per concetti, memorie, citazioni, rimandi, segnali, sceglie radure, risale, sosta, s’avvia di nuovo per seguire viottoli e ferrate, per aprirsi un varco e scendere verso il punto prescelto, verso la sorgente da cui s’era mosso, magari avendo lasciato, per via, la lucente scheggia di un’intuizione che ha incendiato l’attimo. Ricchezza e pienezza, con un’affabile, acceso, arreso sguardo amoroso da dietro le finestre dei suoi occhiali.

f.s.