L’infanzia timida

infanzie

 

brano di Gilberto Severini, tratto da
nostro lunedì n.0 – Infanzie – prima serie

 

Osimo, piazza del Comune ventidue. Di tutti i recapiti è il solo indimenticabile. L’infanzia è cominciata e finita lì. La guerra passata da poco. Vedove. Orfani. Povertà dignitose. Malattie e lutti. La televisione (può sembrare incredibile) non c’era ancora, col suo continuo sottofondo di squittii e gridolini che ha autorizzato un popolo già molto portato ad alzare la voce ,ad alzarla molto di più. In casa solo una vecchia radio usata con parsimonia, per non disturbare i vicini e per risparmiare la luce elettrica. Le premesse per un’infanzia garbata ma cupa c’erano. Bisognerebbe però diffidare dei raccontatori d’infanzie infelici.

Nei primi anni di vita, anche tra mestizie e tetraggine , si trovano spiragli per inseguire il Meraviglioso e tentare di farselo amico. Mentre si consumano tragedie e traumi da affrontare in seguito, il piccolo apprendista guarda nuvole, apre cassetti, fiuta pentole,tocca la neve, interroga gatti, si sporca con la marmellata, devasta sveglie, si lascia lavare, scalcia in una nuvola di borotalco, è incantato da una fruttiera andata in frantumi, fa prove tecniche di emissioni vocali acutissime che riscuotono inattesi consensi, impara ad assecondare le stravaganze degli adulti. Per conviverci vantaggiosamente bisogna sembrare sciocchi come vogliono loro. Fai vedere con la manina quanti anni hai? Ecco qua. Adesso caramella?

Dalla chiesa del Sacramento ,a un passo da casa, salgono rosari e canti. Per la strada sotto le mura romaniche, già a fine maggio si passeggia fra le lucciole (le famose lucciole di Pasolini). Le visite al cimitero sono odorose di cipressi , di terra grassa, di cera. E la campagna che fiancheggia il viale d’accesso cambia continuamente colori. Il presepio, le maschere di carnevale, le campane di Pasqua. Perché non essere felici?

Chi è nato in quel periodo, in una collina marchigiana, tra palazzi nobili e chiese è riuscito a vedere un mondo che non c’è più. Sbarazzarsi di molte superstizioni e di parecchi autoritarismi fasulli di allora è stato un bene (non che il Nuovo sia di per sé ineffabile: ha il vantaggio di lasciare più margini di autonomia a chi lo sfotte o semplicemente lo ignora); ma era inevitabile perdere anche il piacere del silenzio, gli odori e i sapori del cibo, il garbo
nei saluti, la timidezza negli incontri?

In epoca di Grandi fratelli , in cui molti sognano di esibirsi davanti a una telecamera per dire attimino minutino ops, in mutande e in mondovisione, questi rimpianti sembrerebbero pateticamente anacronistici. Eppure, viaggiando in Internet, si intravedono abbozzi di nuove forme di buona educazione. Persino un ritorno al pudore, che cela dietro nickname identità e desideri. Sarebbe entusiasmante.

Della mia infanzia rimpiango proprio la timidezza che c’era nell’aria. Ho spesso pensato che i timidi siano quasi sempre immuni dalla volgarità, si rivelino innamorati più affidabili e persino amanti più erotici. Il sospetto che nulla sia loro dovuto, il dubbio di disturbare, la paura di deludere li rendono più attenti e generosi dei disinibiti in permanente stato di performance, vistosi nell’abbigliamento e plateali nell’approccio.

Se i timidi decidono di varcare, con il petto gonfio d’ansia, la soglia del gesto che li consegna a una qualunque passione, vanno sino in fondo con un dispendio di sé totale e talvolta eroico. Mio nonno era timidissimo. Se devo pensare alla fine vera dell’infanzia devo risalire, dai primissimi anni, all’adolescenza avanzata. Una notte mi svegliano. Mia madre chiede di aiutarla a mettere il nonno a letto perché è caduto tornando dal bagno. Lo solleviamo mentre, sorridendo, ringrazia. E, appena è supino, fra le sue coperte a quadri, mi invita a tornare a dormire: ”Domani devi svegliarti presto. Non ti preoccupare, adesso sto bene.” Sono le sue ultime parole. I timidi!

Che lezione impegnativa per l’età adulta.