Mito di Ancona

 

Oggi per la sezione volti e luoghi del blog, parliamo di Ancona.

di Dino Garrone

Chi è stato a Gibilterra, dice che Ancona le somiglia. Può essere vero. Quel grande attendamento di case l’una sull’altra, color di tela di sacco come divisa coloniale inglese, non presagisce nulla di buono. Dentro i cinturoni delle mura ci debbono essere uomini in vedetta, e migliaia di pezzi pronti a tuonare. L’interno della città è pieno di quella nobile melanconia che hanno tutte le città veramente di mare. Dove le pietre si impastano di salmastro, e soffrono di non poter partire, di non saper galleggiare. Le voci degli uomini sono scure come le facce dei palazzi. Non si capisce come le fontane possono buttare acqua dolce, e dove la prendano. Ogni cosa dà sete. A pensarci bene non si capisce nemmeno perché in questa città si debba arrivare in ferrovia, piuttosto che in piroscafo.


Infatti Ancona è famosa per far perdere il treno. Non c’è nessuno che sia stato due volte in Ancona, e non abbia perso almeno una volta il treno. Entrati in città. La stazione diventa una cosa morta, un pensiero assurdo e fastidioso. Anche le rotaie del tram, per il corso, sono come una collana sul petto di un cavallo. Ampio, infinito, stupendo, il viale della Vittoria è la vera strada dissetante di Ancona. Strada da città sudamericana. Il candido tempio sul fosso, ne accresce il carattere tropicale invitando in ogni stagione al vestito di tela bianca e al casco. Il paesaggio che si scopre di là, è omerico. Su, dalle pietre crestose, dalle strade fatte col coltello nella rupe, ritornano i nomi di Enea e Palinuro.
A Numana sotto la spiaggia, insieme all’orma del trampoliere preistorico, c’è anche quella di Ulisse. Gli stessi operai che travagliano attorno al monumento della Vittoria, hanno facce da fondatori di città.

Ma il primo edificatore di Ancona deve aver [avuto] dinanzi alla mente l’immagine di un vascello.

Perciò mentre meno ve lo aspettate, eccovi luccicare davanti il mare come attraverso un’oblò. Per le strade non si cammina; ci si arrampica. Sono scale di corda e sartiami, sinchè, è inutile, vi ritroverete sul piazzale di San Ciriaco come sulla coffa dell’albero più alto. Ma lassù il moto delle onde si propaga insensibilmente ai fabbricati, li fa oscillare. Colpi di martello, tonfi di travi, di acciaio, fragori di argani, grida lontane di uomini, vi dicono che il varo è vicino. Ancona lo aspetta da un secolo. Pazienza! Ancora c’è qualche lastra da incastrare, qualche piccolo collaudo da compiere.
Alla notte i fari, sulle punte, sognano già di esser i fanali di pruavia. Sarà una grande nave pirata. Punteremo innanzi tutto su Zara, e la sac­cheg­geremo di maraschino e sigarette. L’odore di piccolo contrabbando che viene su dal porto ci assicura di una attesa fiduciosa. Una notte, una delle tante notti, che, stando a cavalcioni sulle murate di San Ciriaco, mi ero scordato della locomotiva e degli orari, rividi il corsaro nero approdare con una scialuppa chetamente sul porto, e poi sparire dentro la città. Lo seguivano sei uomini dal ceffo zafferano e con i fazzoletti annodati dietro la nuca. Le tigri di Mompracem! Non li ho visti più ridiscendere.

Essi sono ancora ad Ancona, dormono in qualche bassofondo, attendono come noi il giorno del grande varo. Non abbiate fretta ragazzi! Quel giorno un’occhiata basterà per riconoscerci sul ponte di comando. Nella sala di manovra, appenderemo tra i festoni di lauro la fotografia di Salgari ed inflig­geremo alla flotta inglese la più tremenda sconfitta. Vendicheremo, ve lo assicuro, la impiccagione del corsaro rosso.

Vagheremo per i mari centinaia di anni; inafferrabili sotto un’insegna vermiglia. Il giorno del Giudizio Universale gli angeli di Bruno da Osimo sulla rupe di acciaio, ci faranno con le ali, grandi segni amichevoli: “Venite, o amici! Pace e indulgenza plenaria!”.