Ri-conoscenze – Giuliana Oliviero

di Giuliana Oliviero
tratto da nostro lunedì
n° 2 – forme

Tutto è cominciato con un’interrogazione di tedesco, tre mie compagne si erano messe degli scolapasta in testa e impersonato dei marziani che cadendo sulla terra eran finiti, guarda caso, proprio in Germania, dove avevano incontrato un nativo disposto a insegnar loro la sua lingua. Poi, le tre – preparatissime, peraltro – avevano preteso che quella scenetta, durata almeno mezzora fra grandi risate, venisse regolarmente valutata. Era il 1977, The wall – tanto per rendere l’idea – sarebbe uscito due anni dopo, ma noi, studentesse e studenti, ben prima del we don’t need no education, avevamo una certa influenza sulle scelte che ci riguardavano. La professoressa di tedesco era una brava donna, del genere “mamma”. Pure lei si era divertita per quella trovata, e poi, avendo dovuto scrivere il testo, impararlo a memoria, provare e riprovare il tutto – il lato cabarettistico, la forma teatrale, non era certo stato trascurato, anzi -, le mie tre compagne avevano metabolizzato termini e grammatica molto più che non solo studiando. Inutile dire che da quel giorno abbiamo tutte voluto farci interrogare a quel modo. Ciò che nessuno poteva prevedere era fino a che punto le “scenette di tedesco” si sarebbero impossessate di noi. Per fare una sorpresa alla professoressa, con l’aiuto della lettrice madrelingua, scriviamo un’intera commedia da rappresentare a fine anno, davanti a tutta la scuola, nella biblioteca grande come una portaerei di quella nuova sede in cemento armato in cui i corridoi delle aule si chiamavano “bracci”. (Quella era la forma dell’architettura, forse concepita come incoraggiamento per il futuro dei giovani, chissà). Titolo Der Prozess, l’imputato era un immigrato italiano in Germania (avevamo studiato che li chiamano Gastarbeiter, “lavoratori ospiti”, un’ipocrisia linguistica che ci era parsa piuttosto stimolante…) ingiustamente accusato di omicidio, vittima di pregiudizi razziali e sociali.

14-15

Recitavamo tutte, fu un vero trionfo, la professoressa aveva pianto di commozione. Fra più di mille studenti, eravamo diventate delle celebrità. L’anno successivo, per non fare torti, decidiamo di scrivere una commedia in inglese e di dedicarla alla professoressa, appunto, d’inglese. La nostra era una classe tutta femminile, crescevamo insieme ai movimenti femministi, e il tema fu quello: le lotte per il voto alle donne, le altre battaglie, e, al centro, una versione teatrale della vita della sorella di Shakespeare molto liberamente tratta da Virginia Woolf. Secondo grande successo – ma qualcuna, fra noi, era già proiettata al grande balzo, scrivere un testo in italiano. Ad alcune di noi interessava di più recitare, ad altre scrivere, ma queste due forme andavano fuse insieme, l’obiettivo finale era chiaro a tutte. Avevamo fatto un laboratorio, bellissimo, di improvvisazione teatrale con la compagnia del Teatro del Sole di Milano, avevamo chiesto di invitare dei registi perché ci parlassero del loro lavoro, e andavamo molto spesso a teatro, di mattina in branco, ma anche alla sera. La nostra passione, però, iniziava a creare dei problemi. Alla fine della quinta c’è una cosa che si chiama esame di maturità, noi lavoravamo alla com­media instancabilmente, ci fer­­­mavamo spes­so a scuola di pomeriggio, ma usavamo anche moltissime ore di lezione per farlo. Decidevamo noi quali. Semplicemente, i professori entravano in classe e la trovavano vuota – noi in biblioteca a provare o a scrivere, o a fare le due cose insieme. Nella scuola eravamo diventate delle celebrità anche perché facevamo assolutamente tutto quel che volevamo. L’unica autorità che riconoscevamo era la nostra, con il solo limite autoimposto di non sforare il minimo di ore di presenza per l’ammissione all’esame. Ai professori la situazione era sfuggita di mano, completamente. Hey teacher leave us kids alone, noi, lo applicavamo alla lettera. Persa ogni autorevolezza, loro, quasi tutti militanti di sinistra dichiarati, tentarono di fermarci persino con un otto in condotta. Ci eravamo complimentate per questa scelta illuminata. La professoressa di lettere, poi, era un caso a sé. Una signora di quasi cinquant’anni, portati male, dai modi bruschi e asciutti. Era la donna più intelligente e intrigante che avessi conosciuto fino ad allora, ma anche la più dura. La ammiravo infinitamente, in segreto, in faccia però le mostravo tutta la mia ostilità. A sentire lei, dovevamo darle del tu. Lo facevamo praticamente con tutti i professori, con lei non c’è mai riuscito nessuno. Era sincera, a pretenderlo, e noi altrettanto a non farlo, sapendo che lei ci stava male. In terza aveva esordito dicendoci che, dopo aver insegnato sempre nei licei classici, a quel punto della sua carriera, per scelta politica, aveva chiesto di venire in quella scuola (un istituto tecnico commerciale dalla dicitura wertmulleriana) appositamente per colmare le lacune nella preparazione di scuole come quella, considerate di serie B. Aveva ragione, quella era – a dir poco – una scuola di serie B, ma noi no, noi non eravamo di serie B. Come atteggiamento ci era parso un non richiesto voler dispensare, dall’alto, il suo infinito sapere. Insopportabile. In realtà, la sua scelta paradossale è stata una delle più grandi fortune della mia vita. E lo capivo già allora, anche se non lo ammettevo, nessuna di noi lo ammetteva. Ma era soprattutto per lei, che volevamo una grande riuscita per la commedia che stavamo costruendo – era il mio, il nostro grazie. Solo di questa, purtroppo, ho conservato il testo, tenero nella sua ingenuità ma anche molto consapevole. Parecchi anni prima Buñuel aveva girato L’angelo sterminatore. Nessuna di noi l’aveva visto. L’impianto era molto simile, ma l’azione si svolgeva tutta in una notte, con un finale “aperto”, compromesso raggiunto dopo discussioni infinite che avevano spaccato la classe in due, fra chi voleva trasmettere una visione ottimistica, del genere sol dell’avvenire, e chi una più complessa, o realistica, del senso della vita. Il titolo era L’isola deserta. Dalla stanza (chiusa non per sortilegio ma per un guasto alla serratura, e nella quale anche la servitù era rimasta dentro) alla fine usciva solo una bambina, gli altri restavano immobili a guardarla, e lei, l’unica a poterlo fare (perché giovane, ancora incontaminata, perché rappresentava il futuro…), l’unica libera senza però capirne il motivo, domandava: “Ma perché non uscite?”. Fare commedie in altre lingue era stato quasi un pretesto, in questa invece avevamo voluto mettere tutto, tutto di noi, della nostra vita che stava prendendo forma. Come happy end, un po’ banale, all’esame di maturità la nostra classe fu quella che ebbe il maggior numero di sessanta. Anni dopo incontrai la professoressa di lettere che mi raccontò, con orgoglio davvero poco celato, che in seguito molti suoi colleghi, memori della nostra esperienza, le avevano chiesto consigli su come organizzare un’attività teatrale: la sua risposta era sempre – io non ho fatto proprio niente. E a me, di questa storia un po’ sovversiva, qualcosa è rimasto.

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedi.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it