Marco Brusco

MARCO BRUSCO3 MARCO BRUSCO4 MARCO BRUSCO5Marco Brusco nasce a Cosenza il 3 aprile 1986 e sin da bambino ha dimostrato di possedere un animo creativo, molta fantasia ed immaginazione che crescendo ha iniziato a riversare prima nel disegno, poi pian piano accostandosi alla pittura digitale e a quella tradizionale.
È un artista autodidatta, che pensa alla sua arte come un modo per sfuggire alla quotidianità, alla tristezza, a tutto ciò che affligge e attraverso i colori vuole trasmettere qualcosa di bello, qualcosa di positivo che possa, anche per un attimo, portare un po’ di gioia. Un’ artista, oserei dire, crepuscolare.
Le sue opere sono principalmente astratte, raffigurando luoghi fantastici o irreali dove rifugiarsi quando la quotidianità delude, scorci di paesaggi molto colorati quasi appartenenti al mondo onirico. Un’arte giovane e fresca, dai colori talvolta accesi e roboanti, talvolta candidi e leggeri, che trasportano verso un mondo parallelo fatto di immagini eteree e spazi aperti, si evincono dall’opera dell’artista un modo di concepire concettualmente spazi fluttuanti. Puro colore, libero, non costretto nella dimensione spaziale, se non quello materico della tela, seppur quest’ultimo non sembra non essere avvertito come limite.
Una tecnica apparentemente “semplice” che evoca l’ingenuità quasi infantili dell’artista pur se riesce, creando contrasti di colori, a mettere a dura prova lo sguardo attento dell’osservatore evocandogli un turbamento interiore. Le sue sono tele dall’umore e dall’ispirazione cangianti, un’arte studiata, meditata che vuole presentarsi in modo chiaro all’osservatore entrando in punta di piedi nell’animo, ricercando ciò che di infantile e dunque di puro che ancora è rimasto nel cuore dell’osservatore.
Con i turbamenti di un animo alla ricerca di qualcosa, in perenne ansia, travaglio interiore, che si concede a tratti di felicità. Tutto nasce da un sentimento, parte dal suo mondo interiore, dai suoi pensieri a volte contorti, da un bisogno di fatiscenza e distrazione dal mondo esterno e di bellezza, tutto ciò si trasmette sulla tela creando un momento di gioia improvvisa come quando si vede il mondo con gli occhi di un bambino.
Egli pensa che attraverso le opere astratte si possa dare vita a un percorso di infinite interpretazioni sul tema del colore e della luce e crede che il dinamismo vitale del colore e dei contrasti crei un universo scenico di grande fascino. La ricerca continua di soluzioni stilistiche che sono il frutto di un personale rapporto di spontaneità con le opere realizzate. Le innumerevoli varietà cromatiche diventano il fulcro di ciascuna delle sue opere sottolineando la capacità che l’arte astratta ha di comunicare senza limitare le immagini reali.
Per lui l’arte è un sentimento impresso, fermo nel tempo, capace di emozionare chi guarda, in grado di trasmettere uno stato d’ animo, o anche semplicemente per puro apprezzamento estetico che lasci un segno.

www.marcobrusco.daportfolio.com
www.artflakes.com
http://www.facebook.com/MarcoBruscosArt

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

L’indignazione e la speranza

 Francesco Scarabicchi colloquia con Emanuele Zinato

Qual è, secondo te, il punto centrale del rap­porto di Paolo Volponi con la sua città? Volponi possedeva la qualità di far sentire al lettore – o all’ascoltatore della sua oralità – che Urbino era un universo e non solo quel paesaggio entro le mura di cinta. È così?

Il punto centrale credo sia la coesistenza di smi­surato amore e di inguaribile claustrofobia, è dunque l’ossimoro: la figura che tiene insieme gli opposti. Ciò determina, nel rapporto con Urbino, l’oscillazione permanente fra la fuga e il ritorno. Volponi nasce come poeta, nel 1948. Mentre nelle due prime raccolte Il ramarro e L’antica moneta, lo spazio è vissuto panicamente (orti e campagne, animali e piante, amori e violenze, espressi in ver­sicoli senza rime), la raccolta Le porte dell’Appen­nino nel 1960 segna una svolta: la voce poetica esce dalla prigione dell’io, lo spazio esterno viene giudicato e oggettivato. Qui compare per la prima volta il mito bifido di Urbino. Il poemetto Le mura di Urbino si organizza per undici strofe, costruite ciascuna su due o tre rime, con versi spesso legati da rime interne e consonanze: la superba bellez­za dell’architettura di Urbino e la dolcezza del suo paesaggio collinare provocano nell’io poetante un insopprimibile desiderio di fuga

FOTOVOLPONI012

«La nemica figura che mi resta, / l’immagine di Urbino / che io non posso fuggire, / la sua crudele festa, /quieta tra le mie ire. // Questo dovrei lasciare / se io avessi l’ardire / di lasciare le mie care / piaghe guarire» 1

Con Le mura di Urbino s’inaugura insomma lo spazio volponiano maturo, se­gnato dall’irrisolta dialettica tra il restare e il partire, fra paesaggio appen­ninico e grande città industriale. Lo spazio natale è trasformato, mediante una serie di ossimori (care piaghe, sorte nemica, nemica figura, festa crudele), in quello che anche gli etnologi chiamano «festa crudele»: la supremazia primitiva dei fantasmi pulsionali capaci di disgregare l’individualità dell’io.

A partire dalla raccolta Foglia mortale (1974) lo spazio appenninico non è più contrapposto a quello industriale. Qui s’inaugura la rima ossessiva e litaniante, del Volponi maturo.

L’utopia politica ed economica, capace ancora fino ai primi anni Sessanta di animare un autentico progetto riformista, quello olivettiano, diviene ora un non-luogo dove non s’intravede più confine tra centro e periferie.

«Il paesaggio collinare di Urbino, / che innocente appare quercia per quercia / mentre colpevole muore zolla per zolla, / è politicamente uguale / […] ai giar­dini della utopica Ivrea / ricca casa per casa: / tutti nella nebbia che sale / dal mare aureo del capitale» È già lo scenario territoriale delle poesie e dei poe­metti di Con testo a fronte e di Nel silenzio campale, le ultime due raccolte in cui Urbino apparirà – nell’ansia e nell’insonnia, – in un cosmo strabicamente lunare e del tutto colonizzato dalla circolazione dei capitali. Urbino come città “astrale”, universale, da cui si può contemplare il paesaggio globale:

Vedo ormai dalle mura di Urbino/ Il paesaggio intero, terrestre e mari­no/Di tutta l’Italia nella sua naturale /Grandezza fisica (…)/Persa l’im­pronta e spezzato il catino

Analogamente, il mito di Urbino si presenta irrisolto in un ossimoro anche nella scrittura narrativa. Nei primi anni sessanta, Volponi scrive Repub­blica borghese, un romanzo lasciato incompiuto per l’urgenza compositiva di Memoriale (1962), accantonato per un quarto di secolo e, infine, ripro­posto col titolo La strada per Roma, edito da Einaudi nel 1991 (e vincitore del Premio Strega): un romanzo di apparente impostazione tradizionale, che narra il trapasso dalle speranze del dopoguerra ai trasformismi del miracolo. Nella Strada per Roma si oppone lo spazio chiuso del mondo urbinate a quello aperto dell’industria e della storia: è il tema dell’ab­bandono della provincia per approdare alla capitale, tipico del romanzo di formazione europeo. Nello schema binario in cui sono concepiti i due personaggi principali, Ettore e Guido, si consolida la dialettica tra chi re­sta e chi parte, nella disperata, appassionata, fallimentare ricerca di una sintesi, individuale e collettiva.

Sul piano formale, il linguaggio poetico del primo Volponi viene riuti­lizzato in direzione narrativa: ciò è evidente nelle numerose «focaliz­zazioni interne» in cui il centro della narrazione è cioè occupato dallo sguardo nostalgico, narcisistico e adolescente di Guido che si posa sul paesaggio urbinate. Sul piano tematico, nel romanzo trovano spazio le elezioni del 1953, la battaglia politica contro la legge truffa e l’invaden­za della speculazione finanziaria.

La fuga e le speranze si corrompono progressivamente in un euforico e cieco bisogno di arricchimento individuale. Per Guido, la fuga da Urbino non coincide insomma con una guarigione. I rapporti sociali preindustriali, di cui Urbino è splendida metafora, frettolosamente rimossi dal giovane, ritornano come spettri, in forme perturbanti. Il «seme» di Urbino, la cui connotazione seminale e paterna è palese, scatena in lui, la paura del­la contaminazione e della malattia. Significativamente, in apertura del romanzo, la prima apparizione del padre del protagonista è interamente contrassegnata dal ribrezzo della contaminazione.

L’intento volponiano di offrire del mondo contadino e della provincia ur­binate un’immagine tormentata e stravolta, in via di decomposizione per il vertiginoso incalzare storico dello sviluppo capitalistico, si gioca attorno a un campo metaforico incentrato sull’immagine della putrefazione, della mummificazione e della contaminazione.

Urbino appare come il cappotto infetto di un morto o come «un castello di ammalati» con le case «visitate dalla peste» (p.199). La strada per Roma presta in tal modo una voce alle ragioni storiche condannate dalla mo­dernizzazione che vanno trasformandosi in fantasmi e in ossessioni di un inconscio non solo individuale ma anche oggettivato nel sociale.

L’importante libro – da te curato per Il lavoro editoriale di Ancona – Del naturale e dell’artificiale, che accoglie articoli e saggi tutti tenuti dal filo di Urbino e ciò che Urbino rappresenta nel mondo, offre uno sguardo perfino sensuale – in termini di sentimento e di scrittura – di Volponi con il luogo in cui è nato e cresciuto. Come è passato tutto ciò nei suoi romanzi, nella sua poesia?

In quel libro, gli articoli e brevi saggi sono caratterizzati da un alto tasso di figuralità. Contrassegnati cioè non da un intento puramente argomen­tativo ma da una tensione immaginativa, a un tempo polemica e utopica. In Cantonate di Urbino (1981), Volponi guida il visitatore della sua città all’incontro col palazzo di Federico, “motore spaziale rotante” di tutto il Rinascimento. La Città e il Duca tuttavia sono anche attualizzati come exempla, figure di una possibile modernità liberata.

20_Giardino

L’immaginario volponiano, acronico e divagante, è sempre popolato dalle vicende ducali: il linciaggio di Oddo Antonio, l’affilata roncola contadina, la flagellazione di Piero, la tavola dell’ostia sconsacrata di Paolo Uccello, la venere opulenta di Tiziano, le tele immense di Barocci.

Analogamente, fra gli articoli pubblicati fra il 1983 e l’84 sul “Corriere della sera”, compresi in quel volume, ci sono cinque scritti fra loro omo­genei: Elogio di quei lupi solitari ed ostinati, Guerra di piume sopra la città, Cosa insegnano quei gabbiani, Quei passeri dell’infanzia, Toro italiano in solitudine. Si tratta di apologhi, o di vere e proprie leopardiane “operette morali”, i cui protagonisti sono animali, solitari superstiti bersagliati dal­la derealizzazione mediatica e dai disastri ambientali. Gli ultimi quindici lupi intenti ad arrotare i denti sui tralicci dei ripetitori televisivi, il toro, solitaria allegoria della sopravvivenza spettrale dei paesi appenninici, i passeri ridotti a cubi alimentari surgelati e importati dalla Cina, i gabbia­ni che abbandonano le coste e si spingono nell’entroterra, le cornacchie metalliche nate dalle discariche, sono figure di fine di un mondo. I duelli fra stormi nei cieli di Urbino, infine, celano a malapena quel “cataclisma” che passa sempre, secondo Franco Fortini, nella pagina volponiana, “con scarti e accensioni quasi surrealistiche”. I piccioni e le cornacchie in guerra fra loro sono la degradazione e il pervertimento dei danteschi “colombi adunati alla pastura” (Purg., II, 125), come già accade nell’agghiacciante iconografia postatomica del Pianeta irritabile. Queste “operette“ volpo­niane, cui occorre aggiungere il Dialogo sull’industria fra pianta e mac­china apparso autonomamente sul “Corriere” il 10 gennaio 1984 e in seguito incorporato ne Le mosche del capitale, rappresentano l’illimitata naturalità con cui si configura l’odierno capitalismo, il suo riprodursi, cioè, su scala mondiale sotto forma di cieca e automatica legge di natura.

Quale il ruolo di stile e di senso di un libro come Il sipario ducale?

Il sipario ducale (1975) guarda dalla specola periferica di Urbino all’avvio della “strategia della tensione”, al potere persuasivo e falsificante delle televisioni, al fallimen­to della forma federale dello Stato sognata da Cattaneo.
Il romanzo si chiude con l’uscita di strada di una Mercedes che scivola su una lastra di ghiaccio, nel gennaio 1970, a po­chi giorni dalla strage di piazza Fontana.
L’auto percorre ad alta velocità la medesima via urbinate su cui transita­va Aspri in Corporale, ma in senso discenden­te anziché ascendente. Nel macchinone di lusso viaggiano il conte Oddi­no e il suo pingue auti­sta Giocondini, due ma­rionette dell’Italia più detestabile, beneficiaria delle trame occulte di quegli anni: quella del­la corruzione, dei servizi deviati, del sottopote­re DC, delle Bombe, dei privilegi mai intaccati, del servilismo, dell’ar­roganza. Il volo fatale del veicolo, è dipinto dunque come invettiva e possibilità utopica di rigenerazione. Il Sipario insiste sul paesaggio ur­binate innevato, come una grande metafora individuale e collettiva: Urbino diviene luogo universale, emblema delle tante italie pro­vinciali, delle tante no­stre piccole patrie, la cui negazione e implo­sione ha poi generato

i fenomeni degeneri dei leghismi egoistici. Il protagonista, il vecchio anarchico Subissoni, si libera liberandosi dai lacci della nostalgia e del ricordo, partendo da Urbino verso Milano: per un’inchiesta politica, che sveli le trame dei Ser­vizi e del Potere. Vale la pena dunque di ripren­dere in mano questo romanzo, considerato in­giustamente minore. Il Sipario ducale è un testo “leggibile”, di struttura tradizionale ma di forte impegno poetico e storiografico.

Ne Il sipario ducale Volponi affronta dal punto di osservazione periferico e “rinascimentale” di Urbino un tema tutt’altro che provinciale: vale a dire l’uso politico del terrorismo che, dal 1969 in poi, ha annichilito i movimenti e ridotto a ca­ricatura mediatica le speranze di cambiamento di un’intera generazione. La vicenda è racconta­ta in terza persona da un narratore onniscente, ed è formata da due storie parallele e alternate: quella del prof. Subissoni e della sua lucida com­pagna Vives e quella del giovane nobile Oddino, delle sue grottesche zie e del suo viscido tas­sista-scudiero. È ambientata negli ultimi giorni del 1969, tra l’esplosione della bomba di Milano del 12 dicembre e il primo annuncio del mini­stro degli Interni che addossava agli anarchici, in base alla testimonianza di un tassista, la re­sponsabilità del massacro. L’immagine del sipa­rio nel titolo suggerisce al lettore in primo luo­go l’artificialità provinciale delle quinte in cui si muovono i personaggi ma anche la costante presenza falsificante della televisione. Il sipario ducale è il primo romanzo italiano a tematizzare l’influenza ulcerante del video casalingo, detto «treppiede occhialuto», sull’immaginario politico di massa. Davanti alle notizie diffuse dal tele­giornale, Subissoni infatti escalma: in silenzio davanti a questo teatrino, – indicò il treppiede occhialuto, – che fa tutto da solo, in­venta e commenta; e spaventa. (p. 24)

Urbino (7)

Nel secondo capitolo avviene un vertiginoso sal­to all’indietro di quattrocentotrentanove anni, per passare in rassegna la cruenta e insieme far­sesca fuga di vicende «ducali» urbinati mediante  televisioni il repertorio degli antenati del giovane Oddino tutti morti di morte violenta: Oddo Oddi «travol­to lungo la strada della fortezza», e Oddoanto­nio, trucidato dal popolo inferocito nel 1444. (S. 10-17). Vicenda ricavabile da una celebre opera pittorica che si trova in Urbino: La tavola della flagellazione di Piero della Francesca. La com­ponente strabicamente storiografica del Sipario consiste insomma nel collocare la vicenda all’in­crocio fra Rinascimento e contemporaneità, al punto in cui la genealogia dei nobili di Urbino, gli Oddi-Semproni, e l’orgoglio cittadino anar­chico e repubblicano di Subissoni incontrano le bombe di Milano, la “Strage di Stato”, amplifi­cata ad arte dal teatrino dei media audiovisivi.

volponi 3

C’è un sentimento che mi abita dalla morte di Volponi: che si sia spenta anche una parte del­la sua città. Camminando le vie di Urbino lo si avverte, soprattutto attraversando la geogra­fia tracciata nei versi e nella prosa. Concordi?

Questa tua domanda, più intima e soggettiva, mi evoca la ragione forse più segreta e profonda della mia “lunga fedeltà”, della mia passione e del mio amore per la scrittura di Paolo, per il suo potere rivelante e cognitivo. Per me, in fondo, la sua Urbino è anche la mia Venezia: un’altra città piena di storia, di arte, di scienza e di industria che la cecità di una modernizzazione incentrata sui simulacri e sulla fiction economy ha ridotto a una grottesca Disneyland, a una periferia del triangolo padano dell’intrattenimento, fra Gar­daland e Rimini. Da quando ho conosciuto la passione utopica di Volponi, queste due Città mi sono sembrate unite, in un cortocircuito perma­nente. E così, sia quando passeggio per le calli veneziane che quando cammino lungo le mura di Urbino, sento accanto l’ombra di Paolo, la sua assenza che si fa presenza e urgenza dolorosa dentro lo spreco smemorato e sciagurato che saccheggia e desertifica le nostre città.

Un aspetto centrale di Volponi uomo e autore è quello costituito dalla pittura, dalla forma­zione, dalla passione, dalla competenza (baste­rebbe Corporale a sancirlo). Cosa puoi dirmi in merito a questo aspetto non certo secondario?

Quello del rapporto fra scrittura e arti figurative in Volponi è uno straordinario tema di lettura e di ricerca, che in futuro spero verrà colto e approfondito. Anche controcorrente rispetto a chi lo considera “autore troppo sperimentale” e soprattutto in senso contrario all’irrazionali­tà miope e bassamente mercantile dell’editoria, che si ostina a non ripubblicarne i libri.

È nota l’appassionata attività volponiana di col­lezionista ed è nota anche la generosità e la re­sponsabilità civile con cui lui e la sua famiglia (la moglie Giovina e la figlia Caterina) hanno donato le due splendide collezioni private alla Galleria Nazionale delle Marche. Qui mi basta solo sottolineare come il lessico della luce e dei colori permei letteralmente la lingua narrativa di Volponi e diventi nelle sue pagine uno stru­mento potentissimo di animazione degli oggetti e dei corpi. Un mezzo espressivo al servizio del “realismo”, inteso come rappresentazione della materialità concreta delle cose.

Questo fenomeno si può apprezzare in vitro nella sua prefazione a uno dei rizzoliani classici dell’arte, in cui la lingua scritta entra in corto­circuito con quella visiva di un grande pittore: Masaccio. In Volponi luce e colori sono di specie squisitamente materiale. Masaccio è da lui pen­sato e raffigurato come un artigiano, intento a dare forma a una materia fatta «di terra e di cielo», e i corpi che dipinge sono frammentati o rimodellati dalle lame di luce: la testa del Cristo in croce «allettante e respingente» è staccata e rimessa al suo posto, la macchia pelosa del pube genera curiosità spasmodica, la Vergine ha un «ghigno», Adamo, cacciato dal Paradiso, è colto nella tensione del «primo urlo». 2

Nella prosa volponiana, dunque, si avverte sem­pre l’agguato di una materia vivente e pesan­te, luci, spazi, misure, personaggi, attinta dal­la grande tradizione pittorica italiana. Non si tratta solo di uno degli esiti di quello che per Pasolini e per i sodales di “Officina”, attraverso l’insegnamento di Roberto Longhi, è stato chia­mato “manierismo” (destrutturazione sintattica congiunta al massiccio richiamo a esperienze figurative: Masaccio, Piero e Caravaggio).

La visionarietà poetica e narrativa di Volponi diviene “di specie pittorica” soprattutto da­vanti alla concreta possibilità del caos. Credo che la pittura, tradotta in scrittura, sia in lui un contrappeso vitale alle forze del caos. Que­sta funzione della luce è evidente nei romanzi maggiormente “esplosivi” come Corporale o Il pianeta irritabile, ma anche nel più tradiziona­le Lanciatore di giavellotto, in cui è il corpo del giovane Damìn che sembra poter esplodere da un momento all’altro:

la luce dorata del tramonto distendeva la città nelle sue ampie proporzioni, serena e solenne in ogni piazza e strada. Damin ne fu colpito anche per la somiglianza che trovava fervida tra ogni architettura e la sua bellezza e il volto e la figura della madre: lo stesso portamento e lo spesso ansare calmo della luce e dei gesti. Sua madre era bella e nobile come Urbino, come quella cit­tà piena di tempo e di storia eppure aperta e viva. Anche sulla città erano passati tiranni e prepotenti e anch’essa era stata invasa e piegata a poteri contrari. Dovevano esserci ancora i posti e i segni delle loro violenze e distruzioni; anche se quella luce avvolgeva tutto di uguale bellezza e continuava, caduto il sole, come se promanas­se dalle stesse superfici che toccava. (…) La luce divenne più bianca, come per seguire il rimorso che ormai risorgeva nel petto di Damìn.

A quel biancore cercò di tenersi per non essere di nuovo travolto dalle ondate della sua verità: per potere fermarsi prima delle consuete scari­che di associazioni e di dolore.

La casa urbinate di Via degli Orti è all’ingresso sulle mura di cinta, memoria e vuoto. Quanto manca la voce necessaria di Volponi a Urbino e all’Italia, in senso politico, civile e letterario?

La passione civile di Volponi è ben esemplificata dagli interventi parlamentari (che ho curato due anni fa per Ediesse col titolo di Parlamenti, e con l’aiuto di Massimo Raffaeli, Enrico Capodaglio e Sofia Pellegrin). Quando Paolo Volponi, nel luglio del 1983, è eletto al Senato, l’Italia sta imboccando la via che la porterà dritta al nostro presente. Il 4 agosto s’insedia il primo governo Craxi, la cui parola-chiave è “modernizzazione”: il lemma destinato a diventare luogo comune sia nel lessico del “centro-destra” che in quello del “centro-sinistra”. In quel preciso momento s’ inizia ad esaltare la forma privata dell’appropriazione mentre la politica si spettacolarizza: viene varato il decreto che taglia la scala mobile e si affermano le televisioni commerciali.

Alle prime privatizzazioni fa da sfondo una vitalità inaudita del malaffare e paral­lelamente, l’economia italiana vive momenti di cieca euforia: si forma un nuovo ceto di arrampicatori, la Borsa di Milano aumenta di quattro volte la propria ca­pitalizzazione, giungono alla ribalta nuovi spregiudicati “condottieri”, come Raul Gardini nel campo della chimica o Silvio Berlusconi in quello dei media.

Volponi, anche da senatore, è innanzitutto un grande scrittore: in una lettera a Franco Fortini, scritta all’indomani della propria elezione, dichiara infatti di voler impostare i suoi rapporti con la politica “da scrittore”, per “tentare di organizzare una verità sociale come romanzo o poema”.3 Solo per fare un esempio, per contrastare la fiducia alla legge Mammì che spalancava la porta alle televisioni Fininvest, Volponi si batte smascherando e rovesciando ironicamente i significati del termine “fiducia”: questo Governo sembra anche avere poca fiducia per se stesso: la realtà è che esso non tanto chiede la fiducia al Parlamento, ma la chiede ai due grandi enti della televisione, alla Rai e alla Fininvest. Il Governo sa di vivere attraverso questi due grandi canali. Questi sono i veri agenti della fiducia ai quali si rivolge il Governo e dai quali il Governo riceve fiducia! La successiva trasformazione di quel duo­polio in monopolio della Presidenza del Consiglio, sotto i colpi ben asse­stati dei professionisti del marketing, rende ragione di quanto senno vi fosse nelle poco ascoltate parole del grande senatore-scrittore.

Contro questa fissità, “segretezza” e “devozione”, Volponi, con la passione linguistica e civile che abita i Discorsi parlamentari, ci attesta come un’altra Italia sarebbe stata possibile se solo avessero trovato ascolto l’onestà cul­turale, i progetti e le tensioni ideali e morali di cui la sua molteplice espe­rienza industriale, poetica, politica e letteraria è il più prezioso documento. Se un’etica pubblica in Italia, in futu­ro, sarà di nuovo possibile, e se le nuo­ve generazioni troveranno un varco, ciò avverrà anche grazie all’eredità di Paolo Volponi, alla sua indignazione e alla sua speranza.

 

 info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Guido Crepax – ritratto di un artista

guido-crepax-ritratto-di-un-artista-palazzo-reale-di-milano-poster-valentinaA Palazzo Reale, l’antologica dedicata al poliedrico artista italiano

Molti lo ricordano per la sua sensuale “creatura su carta”, Valentina, ma Guido Crepax non è stato solo un fumettista. Nel corso della sua carriera, l’artista milanese ha illustrato libri, giornali e copertine di dischi, ha progettato giocattoli, pubblicità, oggetti di largo consumo e scenografie teatrali. A dieci anni dalla sua scomparsa (e ottant’anni dalla nascita) Palazzo reale gli rende omaggio con un’ampia mostra.
Nella scenografica cornice degli Appartamenti di riserva, il pubblico si immerge nell’universo ricco e sfaccettato dell’autore, capace di trarre spunto e ispirazione da molteplici discipline, dal cinema al design, per raccontare la società contemporanea.
crepax

Guido Crepax: ritratto di un artista
Palazzo Reale
20 giugno – 15 settembre 2013
Ingresso gratuito

Orari:
lunedì dalle 14.30 alle 19.30;
martedì, mercoledì e venerdì dalle 9.30 alle 19.30;
giovedì e sabato dalle 9.30 alle 22.30.
Ultimo ingresso mezz’ora prima della chiusura

Informazioni:
www.comune.milano.it
www.valentinabyguidocrepax.it

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Le case sugli alberi

Fuga romantica o voglia di avventura?

Sparse in tutto il mondo, ecco alcune delle più suggestive ed incantevoli opere architettoniche, sospese tra cielo e terra.
Sembra crescere dall’interno del tronco, immersa nel rosa dei ciliegi in fiore,  sale verso il cielo sorreggendosi al solo tronco di un cipresso, è la Teahouse Tetsu, realizzata da Terunobu Fujimori nella città di Hokuto, Giappone.case-sugli-alberi-00b

Ce n’è un’altra, in Canada, che può essere appesa ovunque, realizzata da Tom Chodleigh a Qualicum Bay è a forma di sfera, è realizzata in legno, ed ha un diametro di 3,2 metri, ispirata al mondo nautico,  è isolata per resistere fino a 20 °C sotto zero.

case-sugli-alberi-08b

E poi, in un bosco della Svezia, ce n’è un’altra rivestita di vetro a specchio, realizzata in alluminio leggero,sembra fluttuare nell’aria e mischiarsi con gli albero che la sorreggono.

case-sugli-alberi-07b

Sorge in Svezia la casa che sembra un nido di uccello, dalla quale si accede per mezzo di una scala restrattile.Realizzata da Inredningsgruppen.

case-sugli-alberi-09b Vivere in una casa sull’albero è il sogno di ogni bambino. Che, una volta diventato adulto, assapora l’idea di un rifugio tra i rami per concedersi una fuga dalla quotidianità. Sia per un po’ d’avventura, per un’evasione romantica o semplicemente per bisogno di pace. Senza dubbio una costruzione sotto le stelle incarna lo spirito del nostro tempo: chi non vorrebbe ristabilire un contatto con la Natura? Sarà anche per questo che, seppur presenti nelle più antiche civiltà, ora si stanno diffondendo in tutto il mondo.
Si va dai nascondigli da fiaba ai rifugi più audaci, collegati a terra da scale vertiginose; da quelle in materiali riciclati fino alle più avveniristiche, che s’innalzano come sculture tra le fronde selvagge. Dal ristorante alla stanza di un resort: su un albero può realizzarsi qualsiasi tipo di struttura.
Legata alla terra e sospesa nel cielo, una casa sull’albero è per molti aspetti emblematica dell’architettura stessa. Sfogliando il libro è curioso notare come oltre agli addetti ai lavori, siano diverse professionalità a cimentarsi con queste costruzioni: ebanisti, docenti universitari, carpentieri, agronomi.Ora, spiega Jodidio, si tratterà di capire quale corrente di pensiero emergerà con più vigore: chi punta tutto sul lusso e su ogni tipo di comfort oppure chi difende l’autenticità che può offrire un’esperienza del genere.

 

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Seamus Heaney

Scavando” (“Digging”, Death of a Naturalist, 1966)

Tra il mio indice e il pollice sta la penna,

salda come una rivoltella.

Sotto la finestra, un rumore graffiante all’affondare della vanga nel terreno ghiaioso:

è mio padre che scava. Guardo da basso,

Finché la sua schiena china tra le

aiuole, si risolleva venti anni indietro,

piegandosi a ritmo attraverso i solchi di patate che interrava.

[…]

Il freddo aroma d’ amido nel terriccio, il risucchio

e lo schiaffo della torba umida, i tagli netti della lama

nelle radici vive, mi risvegliano la memoria.

Ma non ho una vanga per imitare uomini come loro.

Tra il mio indice e pollice

sta salda la penna.

Scaverò con quella.

[Traduzione Erminia Passannanti, in GLI UOMINI SONO UNA BEFFA DEGLI ANGELI, POESIA BRITANNICA CONTEMPORANEA,a cura e per la traduzione di Erminia Passannanti, Introduzione di Blake Morrison, Ripostes, Salerno-Roma, 1993.]

Abbiniamo a questa poesia un’opera di Jean Francois Millet, definito anche il pittore dei contadini della vita dei campi. Dal 1857 al 1859 dipinge l‘Angelus, quadro nato da un ricordo d’infanzia. Scrive il pittore “l’Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravo nei campi e mia nonna ogni volta che sentiva il rintocco della campana ci faceva smettere per recitare l’Angelus in memoria dei poveri defunti“. La scena del quadro è ambientata nella campagna di Barbinzon, zona a cui era legato il Millet.

AngelusMillet

Jean-François Millet (1814-1875)  L’Angelus ,1857-1859 , Olio su tela Cm 55,5 x 66 
© RMN (Musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski

L’Angélus [L’Angelus]

Un uomo ed una donna recitano l’angelus, preghiera che ricorda il saluto che l’angelo rivolge a Maria durante l’Annunciazione. I due contadini hanno interrotto la raccolta delle patate e tutti i loro strumenti di lavoro, il forcone, il cesto, i sacchi e la carriola, sono raffigurati sulla tela. Nel 1865, Millet racconta: “L’Angelus è un quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo nei campi e mia nonna, ogni volta che sentiva il rintocco della campana, ci faceva smettere per recitare l’angelus in memoria dei poveri defunti”. All’origine di questo quadro, c’è dunque un ricordo d’infanzia e non la volontà di esaltare un qualsivoglia sentimento religioso tanto più che Millet non è nemmeno un praticante. Attraverso la raffigurazione di una scena semplice, l’artista si prefigge di illustare i ritmi immutabili che scandiscono la vita dei campi. In questo caso, l’interesse del pittore è rivolto al tempo della pausa, del riposo.
Isolata in primo piano, in mezzo ad una immensa e deserta pianura, questa coppia di contadini assume un aspetto monumentale, malgrado le dimensioni ridotte della tela. I loro visi sono lasciati in ombra, mentre una luce sottolinea i gesti e gli atteggiamenti. La tela esprime così un profondo sentimento di raccoglimento e Millet, superato il semplice aneddoto, aspira all’archetipo.
Questo spiega molto bene il destino straordinario di questa opera: oggetto di un forte entusiasmo patriottico quando, nel 1899, il Louvre tentò il suo acquisto, venerata da Salvador Dali, deturpata da uno squilibrato nel 1932 l’Angelus, nel corso del XX secolo, è assurta al ruolo di icona a livello mondiale.

Seamus Heaney Nato il 13 Aprile 1939 a Castledawson nella Contea di Derry,  é considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura nord-irlandese. Nel 1995, sulla scia di William Butler Yeats (1922), George Bernard Shaw (1926) e Samuel Beckett (1969), egli riceve il Premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione:For works of lyrical beauty and ethical depth which exalt everyday miracles and the living past. Figlio di contadini cattolici, Heaney vive fin da piccolo a stretto contatto con la vita rurale dell‟Ulster, infatti nelle sue raccolte di poesie troviamo momenti di vita vissuta nella fattoriadi Mossbawn a County Derry, che si alternano a tematiche nazionali, in particolare alle continue e sanguinose lotte tra cattolici e protestanti. La poesia “Digging” che apre la sua prima raccolta (Death of a Naturalist, 1966)è un‟indicazione del suo attaccamento alla vita dei campi, agli uomini che vivono a stretto contatto con la terra, quella stessa terra dalla quale si raccoglieranno i doni che essa vorrà offrire. Heaney si affaccia alla finestra, perché sente il suono della vanga che il padre sta utilizzando per zappare il terreno, questo strumento tanto modesto viene paragonato ad un oggetto altrettanto semplice, la penna , che crea dei solchi immaginari nel profondo, pronti ad essere trascritti su un foglio sotto forma di parole e suoni. I luoghi e gli oggetti più umili diventano un’occasione per dar vita ad una poesia.

Proposto da Valentina Fera e Roberta Oliverio

http://www.musee-orsay.fr

 

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Marco Brusco

882490_10151425607703089_1603771869_o MARCO BRUSCO1 MARCO BRUSCO2Marco Brusco nasce a Cosenza il 3 aprile 1986 e sin da bambino ha dimostrato di possedere un animo creativo, molta fantasia ed immaginazione che crescendo ha iniziato a riversare prima nel disegno, poi pian piano accostandosi alla pittura digitale e a quella tradizionale.
È un artista autodidatta, che pensa alla sua arte come un modo per sfuggire alla quotidianità, alla tristezza, a tutto ciò che affligge e attraverso i colori vuole trasmettere qualcosa di bello, qualcosa di positivo che possa, anche per un attimo, portare un po’ di gioia. Un’ artista, oserei dire, crepuscolare.
Le sue opere sono principalmente astratte, raffigurando luoghi fantastici o irreali dove rifugiarsi quando la quotidianità delude, scorci di paesaggi molto colorati quasi appartenenti al mondo onirico. Un’arte giovane e fresca, dai colori talvolta accesi e roboanti, talvolta candidi e leggeri, che trasportano verso un mondo parallelo fatto di immagini eteree e spazi aperti, si evincono dall’opera dell’artista un modo di concepire concettualmente spazi fluttuanti. Puro colore, libero, non costretto nella dimensione spaziale, se non quello materico della tela, seppur quest’ultimo non sembra non essere avvertito come limite.
Una tecnica apparentemente “semplice” che evoca l’ingenuità quasi infantili dell’artista pur se riesce, creando contrasti di colori, a mettere a dura prova lo sguardo attento dell’osservatore evocandogli un turbamento interiore. Le sue sono tele dall’umore e dall’ispirazione cangianti, un’arte studiata, meditata che vuole presentarsi in modo chiaro all’osservatore entrando in punta di piedi nell’animo, ricercando ciò che di infantile e dunque di puro che ancora è rimasto nel cuore dell’osservatore.
Con i turbamenti di un animo alla ricerca di qualcosa, in perenne ansia, travaglio interiore, che si concede a tratti di felicità. Tutto nasce da un sentimento, parte dal suo mondo interiore, dai suoi pensieri a volte contorti, da un bisogno di fatiscenza e distrazione dal mondo esterno e di bellezza, tutto ciò si trasmette sulla tela creando un momento di gioia improvvisa come quando si vede il mondo con gli occhi di un bambino.
Egli pensa che attraverso le opere astratte si possa dare vita a un percorso di infinite interpretazioni sul tema del colore e della luce e crede che il dinamismo vitale del colore e dei contrasti crei un universo scenico di grande fascino. La ricerca continua di soluzioni stilistiche che sono il frutto di un personale rapporto di spontaneità con le opere realizzate. Le innumerevoli varietà cromatiche diventano il fulcro di ciascuna delle sue opere sottolineando la capacità che l’arte astratta ha di comunicare senza limitare le immagini reali.
Per lui l’arte è un sentimento impresso, fermo nel tempo, capace di emozionare chi guarda, in grado di trasmettere uno stato d’ animo, o anche semplicemente per puro apprezzamento estetico che lasci un segno.

www.marcobrusco.daportfolio.com
www.artflakes.com
http://www.facebook.com/MarcoBruscosArt

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

 

Storia d’amore e di anarchia

Estratto da nostro lunedì
numero 2 – nuova serie

Paolo Volponi e Urbino

carla cerati 1

Storia d’amore e di anarchia

L’ultimo Volponi è un pamphlet contro l’Italia unita di Teano
Enzo Siciliano
Il Mondo, 19.06.1975 n.25

Paolo Volponi distende al di sotto della concezione fantastica dei protagonisti di Il sipario ducale un’idea storico-filosofica tutt’affatto polemica. “La storia è piatta, almeno da cento anni dopo la morte di Cristo. Non muta nulla: solo qualche buco è stato fatto qua e là. La storia non c’è: tutto è uguale sotto la devozione … La storia non ci tocca, nemmeno quella d’Italia. Questa è il telone che soffoca tutto” (pp.92-93). “Un colossale casino tricolore. L’Italia non c’è; l’Italia è morta a Teano” (p.107). “La storia, non quella del potere, ma quella che sta all’opposizione, in negativo: quella degli sconfitti, di Cattaneo, di Pisacane serve per sapere come fuggire e dove ripararsi” (p.212). “L’Inghilterra, la Spagna, la Francia, la Germania, a turno, adesso l’America, hanno sempre fatto pagare al resto del mondo il peso della loro unità. L’Italia, più stupida e infelice, se l’è rovesciata addosso come una pignatta d’acqua bollente” (p.234). La storia è, dunque, un nonsenso; l’Italia è uno stivalone “calzato male”. L’unità italiana, quella di Cavour e dei Savoia, andrebbe gettata a mare. Chi ha seguito quanto Paolo Volponi ha detto e fatto scrivere da alcuni anni in più d’una intervista (cfr. anche “Il Mondo”, 7 gennaio 1972) sa che queste idee in lui non sono nuove e serpeggiano in Corporale dandogli linfa. In Il sipario ducale tendono ad una maggiore, forse risolutiva, emblematizzazione.

La vicenda, ambientata in una Urbino realissima e poetica, narrata in terza persona per capitoli alterni, trova per un verso perno in una coppia di vecchi anarchici sopravvissuti alla guerra civile spagnola, il prof Subissoni e la sua Vivés, che nei giorni seguiti alla strage di Piazza Fontana a Milano, il dicembre ’69, lei malatissima, si travagliano in una ridda di ipotesi utopiche, rivolte e ingenue esaltazioni, per il desiderio di vedere scossa, finalmente, la stupida Italia unita di Teano. Ma Vivés muore, e Subissoni è travolto da una malinconia in cui dolore e passione ideale s’accapigliano fin quasi ad annientarlo. Secondo perno del racconto è, appunto,  la stupida Italia teanina, rappresentata “in vitro” attraverso Oddino Oddi-Semproni e le sue zie, tutti nobili urbinati, che presi da un sogno mai placato di sciocca grandezza recitano i loro vani rituali familiari, sollecitati da un  losco “chauffeur”, senza capire in quale mondo si viva. Le due vicende si specchiano: sul finale si intrecciano, sono il voto duplicato d’una provinciale demenza, d’una teatralità cui Volponi vede costretta l’Italia di oggi, impotente e immiserita, pur con le sue speranze.

Quanti hanno amato l’originalissimo delirio di Corporale troveranno Il sipario ducale impigliato in alcuni modelli letterari e linguistici non so quanto preordinati (Sorelle Materassi di Palazzeschi, San Giorgio in casa Brocchi e varie altre pagine di Gadda), epperò non potranno negare che questo nuovo romanzo di Volponi, quasi il presagio d’una svolta, è stillante di ilarità, è invaso dall’ironia e dal grottesco anche negli accenti tragici. Non senti lo scricchiolio del pennino sulla pagina quanto l’incalzare d’una viva voce che, divertita, manda allo sbaraglio prole e sintassi, e qui affastella vibranti rime interne, lì ancor più vibranti anacoluti, e laggiù strambotti di insulti felicemente italici.
Al centro di tutto, incastonata di commosse e arcane emozioni, un’ardua storia d’amore senile, quella di Subissoni e Vivés: lei in stato preagonico, lui orbo, malcerto sulle gambe, tento su da cento e mille tazze di caffè. (Alla corrispettiva storia amorosa fra Oddino e la piccola puttana contadina, Dirce, credo di meno; mentre mi appare di pura, felicissima ricreazione gaddiana la scoperta, ad  esempio, che vien fatta della membrutissima virilità del medesimo Oddino.) Certo è che l’apparire delle nudità di Vivés moribonda, i suoi estremi deliqui hanno qualcosa di grandiosamente doloroso.
Ma torniamo alla passione civile e al pamphlet antiunitario che anima le invettive di Subissoni. Per quanto presentissimi, coi loro contenuti, mi sembra spariscano dietro la violenza lirica di altre meno dichiarate sollecitazioni: l’amore e la morte di Vivés appunto; il dispiegarsi della poesia che Urbino innevata e ventosa alimenta nello scrittore; e infine il gusto di lui per una scrittura corposa e dirompente, immaginosa  ed ellittica. Più che altrove, più che nei romanzi precedenti dov’era la prima persona a governare il racconto, qui è protagonista Volponi, è protagonista il suo linguaggio sensuoso e avido, col quale, come disse Piovene, assapora, divora le cose e le restituisce tutte sue in un dettato ingemmato di barbariche luci.

a paolo
gabriele ghiandoni

padrone dello spazio, signore del cielo

È git via anca Paolo, interrotta la strada per Roma.
Si è fermato sulla collina, alle porte dell’Appennino.
Da lassù le palombe solitarie cercano di raggiungere il
mare; all’improvviso si accorgono di avere il freddo nel
cuore (da sota l’ala la cicala grida il suo pianto).

Sottoterra, pesante come pietra, Paolo saluta gli amici
che stanno all’ombra del muro della vita.

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it