Mostra Andy Warhol’s Stardust

Visita-Guidata-Mostra-Palazzo-Reale-Andy-Warhol-AutoritrattoFino a settembre, Andy Warhol è protagonista al Museo del Novecento con un’esposizione di stampe risalenti al periodo tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso. Dalle celebri lattine di zuppa Campbell’s fino a Grapes, Space fruits, passando per Flowers, il percorso si concentra sulla produzione seriale realizzata dall’artista e dai suoi assistenti alla mitica Factory. Opere espressamente concepite per essere vendute, ma ugualmente curate e rifinite con grande attenzione dal maestro indiscusso della Pop Art.

Dal 05/04/2013 al 08/09/2013
Museo del Novecento, Milano
ORARIO
Lunedì: dalle ore 14.30 alle ore 19.30;
da martedì a domenica: dalle ore 9.30 alle ore 19.30;
giovedì fino alle ore 22.30
INGRESSO Euro 5,00


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Bethan Laura Wood

Colore, trasgressione e un pizzico di ambiguità. Ecco il mio mondo”
Bethan Laura Wood (30 anni) designer è stata notata dall’Observer nel 2008 per il suo uso di materiali alternativi: la ceramica per i gioielli, il laminato a pezzetti per gli arredi, ed è diventata famosa in tutto il mondo.
Le sue opere sono in vendita presso gallerie super raffinate come Nilufar a Milano.
Ha vinto il W Hotels Designer of the Future Awards 2013: l’opera che le è valsa il premio è stata svelata al Design Miami/Basel, che si è svolta dall’11 al 16 giugno a Miami.

Bethan Laura Wood è nata in Regno Unito in 1983 e si e’ laureata all’Universita’ di Brighton nel 2006 in Design Tridimensionale e ha continuato il suo percorso didattico al Royal Collage of Art dove studio’ sotto le direttive e orme di Jurgen Bey e Martino Gamper al dipartimento  addetto alla produzione del Design, terminato nel 2009. Nello stesso periodo, ha messo a punto la sua pratica personale,Wood London, producendo una serie di oggetti che spaziano dalla gioielleria alla ceramica e una serie d’interventi e progetti su larga scala. Commercializzando il suo lavoro nel Regno Unito e in tutto il mondo, nel 2008 fu menzionata dalla testata The Observer come: “Future 500 Top Ten for Fashion and Retail”, quindi segnalata come “designer da non perdere di vista”, riferendosi al successo della sua linea di gioielli denominata, LINK. La nuova serie di anelli Push & Pivot di Bethan, sara’ permanentemente esposta questa primavera al prestigioso Browns Department Store.Dopo aver conseguito il suo master MA nel 2009, il lavoro di Laura Bethan Wood  è stato richiesto da galleristi, collezionisti e curatori. L’artista ha intrapreso  collaborazioni con il London’s Design Museum, la Fondazione Claudio Buziol a Venezia, e più recentemente con “AAA Wanted nuovi artisti Vicenza”. In esclusiva presso Nilufar e’ possibile trovare la serie limitata di lampade e mobili appositamente realizzate per la Galleria. Le sue collezioni Totem e Moon Rock presentate al Salone del Mobile 2011 e successivamente alla fiera Design Miami/ Basel,si sono aggiudicate il premio di Prodotto e Mobile dell’ Anno 2013.

www.woodlondon.co.uk

Fonte : “DCASA” inserto de “La Repubblica”

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Mapi Guerrini

“Fotografa con tutto ciò che fa click…ma predilige la sua Nikon d800 e, quando ha tempo, l’Hasselblad analogica”

Le foto vanno guardate ascoltando Sakamoto “Hearthbeat”

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Mapi Guerrini nasce ad Ascoli Piceno, una bellissima città  dove non metterà radici, restandoci solo pochi giorni.
Grazie al continuo peregrinare in numerose città, conoscerà realtà diverse che le insegneranno l’amicizia, l’adattamento, la molteciplità e l’incontro con la gente e l’abilità nel traslocare.
Tornata ad Ancona, dove la sua famiglia ha le origini e le strade portano nomi familiari, si laurea in ingegneria  ed inizia ad incrociare il mondo, con se stessa e la compagnia di una macchina fotografica, ricevuta in regalo dal padre, e che, strada facendo, le diventa indispensabile per la cattura di un “oltre ciò che si vede”
Attraversa l’analogico con il grande format, la polaroid, la camera oscura, e inevitabilmente affascinata dai sistemi binari, approda alla fotografia digitale e alla sua immediatezza immagignifica.
Per lei la fotografia diventa un complemento insostituibile e inossidabile, è completamento, “non passa un giorno che non scatti una foto” (come ha già detto Avedon) ed essendo alla ricerca di un linguaggio che si esprima là dove le parole sembrano non bastare, non si stanca di fotografare cieli, strisce pedonali, ritagli di realtà, avanzi di frigorifero…lasciando però gli umani sempre fuori dalle proprie visioni.

Contatti :
mp.guerrini@tin.it

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Nemica figura

Estratto da nostro lunedì
numero 2 – nuova serie

Paolo Volponi e Urbino

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Il rapporto di Paolo Volponi con Urbino rimanda per cer­ti aspetti a quello di Giacomo Leopardi con Recanati, ma se ne differenzia per altri. Certo, Urbino è una “nemica figura” e questo ci potrebbe ricordare “il natio borgo selvaggio” del re­canatese, ma i modi di sentire le cose, di partecipare alla vita dei due luoghi è profondamente diverso.
Leopardi è come se guardasse tutto dalla finestra: un osser­vatore talora implacabile e talora partecipe, come accade nel Sabato del villaggio e nella Sera del dì di festa.
La donzelletta che arriva con il suo fascio di rose e viole è un’immagine partecipe e delicata come i ragazzini che gio­cano nella piazzetta. Anche la tragica vicenda di Silvia è vista sempre come da lontano, da un punto esterno di osservazione: il recanatese lascia gli studi leggiadri per ascoltare la voce della ragazza. Nota ogni aspetto di Silvia: “gli occhi ridenti e fuggitivi” e lo sguardo schivo. Non c’è alcun distacco derivato da un atteggiamento di superiorità e di freddezza: il distacco è dato da quel ruolo di osservatore che Giacomo si è ritagliato e del quale è ormai impossibile fare a meno anche quando vorrebbe, anche quando desidere­rebbe mescolarsi agli altri magari, come loro, in compagnia di una ragazza.
Volponi parla degli amici, delle ragazze, dei panni stesi sui terrazzi: si capisce subito che vive dentro Urbino e tra la sua gente.
Del resto l’urbinate amava frequentare le osterie e i personaggi più diversi, con una predilezione verso quelle figure popolari, magari molto particola­ri, di cui Urbino è sempre stata estremamente ricca.
Del resto i personaggi dei suoi romanzi sono caratterizzati da specifici tratti comportamentali quando non sfiorati o addirittura colti dalla follia. Ma è soprattutto verso i campi e la loro gente che si rivolge lo sguardo dell’autore. Le porte dell’Appennino sono dotate di un robusto spessore antropologico e sociologico. C’è il lavoro sulla terra distinto e suddiviso per le varie stagioni dell’anno.
L’autore ha sicuramente tenuto presente gli almanacchi e i calendari che erano gli unici libri nelle case dei contadini del Montefeltro. Anche la bandiera rossa, negli anni del dopoguerra, dominante tra le genti del Mon­tefeltro, più che un simbolo rivoluzionario è un santo di confine, un’ icona religiosa a cui affidarsi nella speranza del cambiamento. E Volponi registra anche il fenomeno della fuga dalle campagne verso la costa. In questo periodo lo scrittore non ha quelle posizioni marxiste che caratterizzeranno la sua età matura. Eppure, con una saggezza quasi arcaica, sostiene che la salvezza si può dare solo sotto il segno dell’unione.
Nessun passero si salva da solo volando via dal nido. E poi c’è la vita quoti­diana, la pentola che bolle nel fuoco, il roseto accanto al pozzo, gli uomini con le giacche di velluto odorose di polvere da sparo e di tabacco. In una delle sue più significative poesie Volponi passa in rassegna le più belle ragazze che abitano le valli del Metauro e del Foglia. Nomi e cognomi, i tratti specifici della loro bellezza: sembra un catalogo degli eroi, la sfilata dei guerrieri nell’Iliade e in altri poemi epici.
E poi l’attenzione premurosa verso le donne, sia quelle che danno la mano da dietro il cancello da toccare, vergini come sante, sia quelle che si sono perse per amore ed ora fanno le iniezioni e gli impacchi: sono restate sole per colpa di quell’amore al quale si sono abbandonate e che la dura socie­tà contadina del tempo non può assolutamente perdonare. Lo sguardo di Volponi non coglie solo le figure umane, ma si rivolge anche al paesaggio descritto e vissuto in modo preciso e dettagliato.
Nei suoi primi libri, nel Ramarro e nell’Antica moneta, lo sguardo si posa sulle piante e ancora di più sugli animali. Il bestiario dell’urbinate ricorda Pascoli e Bartolini: è stupefacente la conoscenza delle stirpi degli uccelli riconosciuti anche attraverso i loro canti e i loro suoni.
In Leopardi il paesaggio è descritto per campi lunghi e medi, in Volponi prevalgono i piani ravvicinati e i particolari. Il mondo animale è vissu­to con una dimensione fraterna che coinvolge la cugina volpe, la goffa averla, l’ingordo tordo marinaccio. Dunque Urbino e le terre intorno sono sempre presenti in modo concreto e parte­cipe nelle poesie e in molti romanzi di Volponi. Sì, l’amore di Volponi si estende al Montefeltro e direi, in particolare negli ultimi anni, alle Mar­che tutte. Basterebbe pensare all’ambientazione dei suoi romanzi: Urbino è lo scenario di Sipario ducale e della Strada per Roma.
A Pergola si svolgono le vicende raccontate nella Macchina mondiale, a mio parere il più bel ro­manzo dell’urbinate. Fossombrone degli anni ’30 attraversati da un sentore di guerra, di tragedia e di follia, rivive nel Lanciatore di giavellotto. Le cesane sono il luogo dove il protagonista di Corporale costruisce il suo folle ed improbabile rifugio atomico, che pure risponde alle paure e alle ossessioni di quegli anni.
Ritornando ad Urbino, l’amore per la sua città non impedisce il più severo dei giudizi. Urbino è troppo bella ed importante perché possa es­sere governata dagli urbinati, ci vorrebbe una qualche autorità, magari di carattere interna­zionale per preservarla.
Ma non si tratta solo di preservarla, Volponi guarda più al futuro che al passato anche se sa benissimo raccontare quest’ultimo. L’urbinate sognava per la sua città una facoltà di agra­ria che sapesse comprendere e valorizzare una vocazione contadina.
Ma non al mondo arcaico si rivolgeva Volponi, bensì a un’idea di terra coltivata in modo atten­to e rispettoso, ma con tutti i criteri della mo­dernità. Nella Strada per Roma il protagonista in viaggio verso la capitale s’affaccia dal finestrino del treno: i campi attorno a Jesi sono coltivati e ben tenuti, vigneti ed oliveti ci dicono la fatica dell’uomo, ma anche la ricchezza e la gioia del lavoro.
Così diversa la campagna jesina da quella urbinate, bellissima certo, ma anche arcaica, so­stanzialmente abbandonata e improduttiva.
Un amore vero pretende anche una critica severa: questo il difficile rapporto di Volponi con Urbino.

Umberto Piersanti

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Fallen Art!

Fallen Art (2004)… macabro (dipende dai punti di vista) e controverso (sicuramente), a mio avviso pensato per esorcizzare la paura della morte enfatizzando la stessa e per criticare guerra ed istituzioni. Il regista Tomasz Bagiński, classe 1976 di Białystok, Polonia, è un illustratore, animatore e regista, ma soprattutto un autodidatta. I suo primi corti Rain e The Cathedral non hanno però avuto lo stesso successo di Fallen Art con cui ha vinto lo BAFTA Award for Best Short Animation e il Grand Prix for Digital Shorts al Golden Horse Film Festival del 2005. Tra i lavori più recenti va annoverato The Kinematograph.

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Proposto da Chiara Donato
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Mostra Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti

Modigliani_6361A Palazzo Reale, i capolavori della collezione Jonas Netter

Agli inizi del Novecento, nel quartiere parigino di Montparnasse abitavano e lavoravano artisti e intellettuali del calibro di Amedeo Modigliani, Marc Chagall e Ernest Hemingway. Fino all’8 settembre, quella vibrante atmosfera rivive a Palazzo reale, con una serie di capolavori provenienti dalla collezione del mecenate francese Jonas Netter.
La mostra si concentra principalmente su Modigliani, di cui sono esposti dipinti come Elvire au col blanc, Fillette en robe jaune e Portrait de Zborowski, e sull’amico Chaïm Soutine, un personaggio complesso e tormentato conosciuto proprio nella Ville Lumière. Completano il percorso i solitari paesaggi di Maurice Utrillo e le tele di nomi meno noti ma altrettanto interessanti, come quelle di Suzanne Valadon, affascinante modella e pittrice di cui Henri de Toulouse-Lautrec si innamorò perdutamente.
Dal 21/02/2013 al 08/09/2013
Lunedì: dalle ore 14.30 alle ore 19.30;
da martedì a domenica: dalle ore 9.30 alle ore 19.30;
giovedì e sabato aperto fino alle ore 22.30 (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura)

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La regina Zaha Hadid

La chiamavano architetto di carta perché i suoi edifici non si realizzavano mai.
Oggi Hadid, la prima donna premio Pritzker, lascia il suo marchio in tutto il mondo!

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Laureata alla prestigiosa Architectural Association nel 1977, appassionata discepola di insegnanti trasgressivi come l’olandese Rem Koolhaas, Zaha Hadid dovette battagliare non poco per convincere il mondo che i suoi avveniristici progetti erano in realtà concreti simulacri dell’evoluzione architettonica. Causa dell’iniziale reticenza, un estro creativo sempre pronto a trovare nuove argomentazioni per raccontare un luogo, una società, una visione. Tutti gli architetti devono lottare per affermarsi in un panorama tanto vasto, complesso e concorrenziale, ma Hadid ha faticato più di altri e certamente non per carenze professionali. Il suo singolare rifiuto di scendere a compromessi stilistici che non le appartengono ed il suo temperamento da uragano, nato dall’esigenza di emergere in un settore ancora per certi versi molto maschile, si sono rivelati allo stesso tempo il punto debole ed il punto forte del suo successo.

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Come suo padre, lei sapeva che avrebbe potuto dare molto per il proprio paese, ma in Iraq più che altrove una donna non aveva alcuna opportunità concreta di emergere nel settore dell’architettura. Ecco perchè  Hadid divenne figlia adottiva della Londra progressista degli anni ‘70.
Una biografia certamente eloquente delle radici culturali e personali dell’architetto, da cui sono germogliati il carattere e la creatività che tutt’oggi la distinguono sulla scena internazionale.
Oltre al suo transnazionalismo concettuale, sappiamo che una volta integrata a Londra, ha incontrato una persona che in qualche modo l’ha aiutata a comprendere meglio il suo orientamento stilistico e professionale. Si tratta di Rem Koolhaas. Lei stessa ricorda come fondamentale l’esperienza all’Architectural Association e successivamente nello studio di Koolhaas. “L’Architectural Association è stato per me il posto ideale in cui coltivare le mie ambizioni in totale autonomia. Gli insegnanti che ho incontrato rifiutavano come me il post-modernismo kitsch che andava per la maggiore. Loro pensavano ad un’architettura che incarnasse il caos della modernità nelle sue diverse forme. Koolhaas, tra tutti gli insegnanti, è colui che maggiormente ha contribuito a disegnare l’architetto che sono.  Lui che ha portato in superficie l’idea che conservavo nel profondo di un’ espressione architettonica neo-moderna. Quando poi mi sono laureata e Koolhaas mi offrì di diventare la sua partner professionale nell’ Office for Metropolitan Architecture, lui capì subito che quanto aveva seminato nel ego, era già germogliato in una creatività alla quale nemmeno lui riusciva a dare una definizione. Mi descrisse come un pianeta che gira vorticosamente intorno alla propria orbita. Quel che successe dopo si sa, io non rimasi nel laboratorio a lungo perchè sentivo di dovermi liberare da qualsiasi vincolo che potesse limitare il mio estro. Ero come una interpretazione illimitata di significati, senza alcun controllo, in apparenza”.
Essere donna sembra non abbia mai pesato troppo sullo sviluppo della carriera professionale di Zaha Hadid, anche se esiste una precisa consapevolezza delle difficoltà che una donna vive per emergere. “Fateci caso: all’università ci sono, in media, metà studenti e metà studentesse. Poi, quando comincia la professione, le donne quasi spariscono. Diventano spesso collaboratrici di mariti o compagni, lavorano in grandi studi dove finiscono però spesso in un ruolo marginale rispetto ai colleghi maschi. E magari, a vincere il Pritzker, sono i mariti o i compagni: è successo con Robert Venturi. La giuria si è completamente dimenticata di Denise Scott Brown, sua compagna e collaboratrice insostituibile”.
Per passare alle componenti emozionali del lavoro, si nota come Zaha Hadid sa trasmettere visivamente il senso di sconfinamento che rende inconfondibile il suo stile architettonico.
La visione delle opere mostra una predilezione per quelle che la stessa Hadid definisce linee fluide. Questo stile si contrappone ad una certa appariscenza tipica di buona parte dell’architettura contemporanea. “Le linee fluide non sono altro che l’adattamento della forma ad un nuovo concetto di spazio più dinamico, flessibile e alternativo. Una prospettiva geometrica multipla e frammentata, che rivela l’effettiva opinabilità dei numeri e delle formule. Singolare che questa affermazione provenga da una diplomata in matematica, vero? Eppure io credo che la fluidità sia la forma che meglio rappresenta il caos dell’età moderna a cui accennavo prima. Per quanto riguarda l’appariscenza dell’architettura contemporanea, potrei forse sembrare irritante, ma ritengo che l’esibizione delle forme e dei materiali corrisponda ad un monolitico vuoto espressive.

“D” inserto de “la Repubblica”

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Massimo Gardella – Chi muore prima

Massimo Gardella – Chi muore prima

libro

Quattro ragazzi, tre maschi e una femmina. Tutti coetanei o quasi, frequentavano lo stesso istituto superiore. E hanno condiviso la scelta della loro via di fuga: all’estremità di una corda. Suicidi figli di un’asfissia minore, quella della crisi che attanaglia la provincia di una metropoli industriosa, divorando ogni futuro. Ma è davvero tutto qui? L’ispettore Remo Jacobi, alle prese con la preoccupazione per l’amato padre Johan e con incubi di lontana memoria, si trova precipitato in un mondo di adolescenti che non gli è per niente familiare. E la «caccia al colpevole» che gli è stata affidata diventa un pellegrinaggio tra le miserie passate e gli incubi presenti di un’umanità alla deriva: dai genitori affranti di vittime e delinquenti a un’amica di famiglia troppo attraente per essere innocua, fino al personale della scuola, che gli toglierà ogni residua illusione sulle prospettive della gioventù. Quando una nuova morte rischia di mandare in pezzi la precaria salute mentale di Jacobi, sarà il suo vice Borghesi a tirare i fili dell’indagine in quella che appare una trama ordinata. Ma come sempre, i dettagli rivelatori si nascondono nelle aree più cupe del disegno. Massimo Gardella porta di nuovo in scena il suo ironico e amaro ispettore Jacobi, in un piccolo mondo popolato di personaggi descritti con acuminata pietà, trascinando il lettore in un’indagine tesa tra la nudità del male e il fondo amaro della speranza.
Guanda, 17,50€

Gardella Massimo È traduttore di saggi e romanzi per diversi editori italiani. Nel 2009 è uscito il romanzo Il Quadrato di Blaum (Cabila Edizioni). Come musicista ha scritto le musiche per il documentario di Giorgio Fornoni Ai confini del mondo (Chiarelettere, 2010).  Il primo romanzo con protagonista l’ispettore Remo Jacobi esce nel gennaio 2012 per le edizioni Guanda, e si intitola Il male quotidiano.

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