Arianna

di Rita Reggiani
concorso letterario nazionale
Associazione, VocidiDonne

Ancona, un trafiletto di cronaca nera sulla stampa locale: nei bagni pubblici di Piazza Stamira è stato trovato il cadavere di A.P.; presunta causa del decesso: overdose di eroina. In una città di provincia, in genere, di queste vittime si sa, o meglio, si pensa di conoscere tutto: abitudini, vizi segreti, virtù; fa notizia per un paio di giorni e poi più nulla. Povere e grandi storie: quante le donne trovate morte ogni anno, di cui a volte si ignora anche il nome e delle quali, in maniera spicciativa, si individua un plausibile motivo di morte e finisce lì, perché ci sono altre notizie che ci incuriosiscono, perché vogliamo cose allegre, perchè la morte è un mistero impenetrabile al quale cerchiamo di non pensare. Capita a volte, però, che quello che cerchiamo di rimuovere rimane impigliato nella trama della nostra memoria; ed ecco che, senza un motivo apparente, riaffiora e diventa un’esigenza rimettere ordine nei propri ricordi e cercare di capire ed individuare il punto di svolta in cui un’esistenza come tante diventa un dirompente fatto di cronaca, specialmente quando, di questa vita, si è stati testimoni. Tutto inizia negli anni settanta: da poco mi ero trasferita ad Ancona e mi guardavo attorno con interesse e curiosità; per alcuni aspetti questa città mi ricordava Trieste e le parole di U. Saba: era un piccolo porto, era una porta aperta ai sogni..e di sogni ne avevo molti, come tutti i giovani. Il panorama dal mio appartamento era un incanto, lo sguardo spaziava dall’indefinito orizzonte fra cielo e mare sino ai monti azzurri, gli Appennini, passando sulla città; le cose, le persone mi apparivano lontane, come le loro vicende.
Un pomeriggio di primavera, un suono ritmato, proveniente dalla strada, interrompe il mio fantasticare; incuriosita, mi affaccio dal balcone e ne scopro l’origine: è una palla contro il muro della casa dall’altra parte della strada, una palla rossa, sempre lo stesso tiro.
Chi gioca è una ragazzina dai capelli castani, di circa dieci anni, sola, che continua in maniera quasi ossessiva a lanciare la palla, fino a quando una donna dalla finestra la chiama: Arianna !
Notai che la cosa si ripeteva tutti i giorni, nel pomeriggio quando tornava da scuola e le condizioni climatiche lo consentivano; sempre sola, tranne qualche rara occasione in cui giocava con un’altra ragazzina. Quella bambina cicciotella dagli occhi tristi e il suo modo di fare mi incuriosivano: seppi che viveva in un appartamento al primo piano della casa di fronte, con la madre e il fratello di poco più grande di lei, soli dopo la morte recente del capofamiglia. Una casa fatta di silenzio, mai gli schiamazzi tipici tra fratelli e la voce della madre che li richiama, né la musica che normalmente accompagna la crescita dei ragazzi; mai gruppetti vocianti di coetanei che vanno a trovarli.
La madre, sempre vestita di nero, esce tutte le mattine alla stessa ora, per andare a lavorare; fa ritorno nel primo pomeriggio, trascinando stancamente il suo corpo pesante e le borse della spesa. Sempre sola, senza un sorriso, solo un cenno di saluto col capo quando incontra una vicina o un conoscente.
Il fratello di Arianna, che ha precocemente dovuto assumere il ruolo di uomo di casa anche quando sarebbe stato più naturale il gioco spensierato con gli amici, è di corporatura massiccia, vestito di scuro, solitario e silenzioso, come la madre. Si muove da adulto e dimostra un’età indefinita, preciso nei gesti e nell’incedere, mai di corsa sudato o trafelato come i suoi coetanei; al massimo, quando è in ritardo, un passo più veloce.
Intanto Arianna cresce, è passato il tempo del gioco della palla e comincia un inquieto andirivieni fuori e dentro casa: è un’adolescente come tante, il corpo abbondante coperto da maglioni di taglia superiore, pantaloni jeans, capelli lunghi sulle spalle non sempre curati, scarpe da ginnastica, andatura goffa; impacciata nei rapporti con gli altri, vive la giovinezza come scoperta del corpo tra stupore e desiderio; non mostra particolare voglia di studiare, vorrebbe volare, fare cose diverse dalla madre.
Arrivano i ruggenti anni ottanta: un giorno un’auto di grossa cilindrata, grigia, si ferma sotto casa; ne scende una bella ragazza vestita all’ultima moda, truccata, tacchi alti, capelli biondi, che saluta affettuosamente il suo accompagnatore; stento a riconoscere Arianna: una bella e variopinta farfalla appena uscita dal bozzolo, che ha cominciato il suo volo. Diventa un’abitudine vedere quell’auto: il proprietario è un noto professionista, conosciuto in città più per la prestanza fisica e le avventure femminili che per i successi nel lavoro. Arianna sembra felice, ha cambiato il suo modo di essere: nel vestire, nel muoversi, nel modo di guardare gli altri appare sicura di sé, realizzata.
In estate è con lui, sul suo motoscafo: si fa notare davanti un esclusivo stabilimento balneare di Portonovo anche perché lui, non rispettoso delle leggi, arriva d’abitudine a motore acceso quasi a riva. Nel tempo che passa, l’unico cambiamento è la presenza di un cucciolo di pastore tedesco, che lei accudisce con tenerezza; gli parla, lo accarezza spessissimo quasi a rassicurarlo, lo porta fuori ed è facile incontrarla per strada sorridente, apparentemente serena. Si arriva all’ultimo decennio del secolo, l’avvio economico di Ancona subisce l’ennesimo arresto; dopo le vicissitudini del terremoto, della frana e a causa della crisi che investe tutta l’Italia, i posti di lavoro diminuiscono e per i giovani è difficile cominciare.
Arianna passa le sue giornate a casa; un giorno mi capita di vederla per strada mentre stancamente accompagna il cane, la testa china, l’aspetto trascurato; gli occhi appaiono spenti e ricambia a fatica il mio saluto; rimango colpita dal cambiamento avvenuto, sembra aver dimenticato i suoi sogni: mi riprometto di interessarmi a lei, ma vengo ripresa dalla mia vita vorticosa e mi dimentico di farlo. Sarà l’ultima volta che la vedo. A riportarmi a lei sono gli articoli dei giornali che parlano della sua morte; le chiacchiere e i commenti sono tanti, c’è anche chi dice che lei dalla droga stava uscendo: ma sapeva troppo circa le abitudini di certi personaggi in vista di Ancona e avrebbe potuto, magari involontariamente, danneggiarne la reputazione.
Morire è un rischio elevato per chi perpetua una digressione, un corpo a corpo con la verità oltre lo sguardo ottuso del luogo comune e, comunque sia andata, forse una dose di eroina tagliata male ha messo fine alla sua esistenza.
Ripensando a quando l’avevo conosciuta bambina e allo svolgersi della sua esistenza nel corso degli anni e quindi a tutta la dignità di una vita, mi venne spontaneo domandarmi: cosa hanno trovato in quel lurido bagno? Il corpo di Arianna oppure lei, Arianna?
Forse quello ritrovato è solo un corpo bugiardo, che nulla conserva delle emozioni, delle speranze e delle paure che un giorno l’animarono, perché il corpo e l’anima appartengono a due entità non commensurabili: ma, naturalmente, è solo una teoria.
Dopo la sua morte la madre, sempre più provata anche fisicamente, non trascura di portare fuori il cane, l’unica cosa che le è rimasto di Arianna; la si vede camminare lentamente, trascinandosi sulle gambe gonfie, chiusa nel dolore. Quante cose devono passarle per la testa, quanti sussulti deve reggere il suo cuore già duramente provato: ora quel corpo che lei aveva partorito, nutrito, pulito, vestito e baciato, si è distaccato da lei definitivamente.
Dopo qualche tempo, mentre passeggio nei giardini del Passetto, mi capita di incontrare quel professionista: è a bordo della sua auto, il finestrino abbassato gli consente di tenere il guinzaglio del cane che gli corre accanto, nei vialetti dove è vietato l’accesso alle auto. Superata la sorpresa, nel momento in cui mi passa accanto, vorrei manifestagli tutto il mio disprezzo per il suo comportamento e non solo per l’infrazione; ma mi trovo davanti una maschera di quello che era: il viso gonfio, pieno di rughe, gli occhi azzurri, come annacquati, lo sguardo perso, l’espressione assente. Si è trasformato; dopo poco compare, sui giornali locali, il suo necrologio.
Giugno 2012: sono affacciata al balcone da dove negli anni ho continuato ad ammirare i giochi delle nubi, le albe, i tramonti e lo svolgersi delle stagioni, immersa nell’azzurro del cielo e del mare. Mi sfiora il volo di una rondine, l’emozione per un attimo mi blocca il respiro: penso ad Arianna.

Laboratorio culturale di ancona:  www.laboratorioculturalediancona.it
E mail: anconacultura@tin.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Mapi Guerrini

“Fotografa con tutto ciò che fa click…ma predilige la sua Nikon d800 e, quando ha tempo, l’Hasselblad analogica”

Le foto vanno guardate ascoltando Sakamoto “Hearthbeat”

2532012_3470 astr2 IMG_0083

Mapi Guerrini nasce ad Ascoli Piceno, una bellissima città  dove non metterà radici, restandoci solo pochi giorni.
Grazie al continuo peregrinare in numerose città, conoscerà realtà diverse che le insegneranno l’amicizia, l’adattamento, la molteciplità e l’incontro con la gente e l’abilità nel traslocare.
Tornata ad Ancona, dove la sua famiglia ha le origini e le strade portano nomi familiari, si laurea in ingegneria  ed inizia ad incrociare il mondo, con se stessa e la compagnia di una macchina fotografica, ricevuta in regalo dal padre, e che, strada facendo, le diventa indispensabile per la cattura di un “oltre ciò che si vede”
Attraversa l’analogico con il grande format, la polaroid, la camera oscura, e inevitabilmente affascinata dai sistemi binari, approda alla fotografia digitale e alla sua immediatezza immagignifica.
Per lei la fotografia diventa un complemento insostituibile e inossidabile, è completamento, “non passa un giorno che non scatti una foto” (come ha già detto Avedon) ed essendo alla rcerca di un linguaggio che si esprima là dove le parole sembrano non bastare, non si stanca di fotografare cieli, strisce pedonali, ritagli di realtà, avanzi di frigorifero…lasciando però gli umani sempre fuori dalle proprie visioni.

mp.guerrini@tin.it

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Una breve visita alla cattedrale

Estratto da nostro lunedì
numero 2 – nuova serie

Paolo Volponi e Urbino

 Sulla strada di acciottolati la piazzetta quadrata dell’Episcopio rompe la continuità dei palazzi alti di Urbino. Lungo il percorso, la luce del sole diretta sulle case crea dei profiliindefiniti della città nelle giornate di caldo.Attraversando via Vittorio Veneto si possono vedere piccoleviuzze che conservano intatto ancora il loro fascino discreto.Appena si alzano in alto gli occhi in cerca del cielo, all’improvviso compaiono tegole antiche, travi di legno, stucchi di gesso, lampadari accesi e grondaie di una volta. Urbino si delinea nello spazio con le sue masse quadrate e rettangolari di edifici antichi ed i suoi elementi plastici e coloristici che lasciano luogo, dopo pochi metri, alla bellezza della cattedrale. Una balaustra di pietra bianca con i piccoli blocchetti rompe la mirabile scena del cielo azzurro sul duomo. Una nuvola spumosa si ferma sopra la testa di San Crescentino e crea una nuova forma plastica articolata nelle linee di fuga sulla facciata dell’edificio. A qualche turista non è estranea la suggestione dello stile di Valadier che domina quasi tutta la piazza. E il Duomo (1789-1801) in effetti è un edificio veramente moderno per la città. Lo sguardo dell’osservatore si perde tra le forme, l’irregolarità della pendenza della cattedrale, lo stile neorinascimentale ed alcuni scorci verso il Palazzo Ducale. L’arrivo di un gruppo di persone da piazza Duca Federico interrompe la scena.Essendo la facciata di una straordinaria bellezza, l’occhio ora riesce a vedere più chiaramente la maestosità del tempio. Dopo l’interruzione ci si riesce a concentrare di più sui particolari dell’edificio sacro come la gradinata (1859) antistante alla casa di Dio e i tre portoni di ingresso in legno che l’occhio mette a fuoco. Oltrepassata una delle porte d’ingresso si avverte una sensazione di silenzio. Solo il rumore dei passi che attraversano la navata centrale interrompe la quiete. Rapidamente si arriva in fondo all’abside. Oggi turisti e visitatori, assorbiti dall’estetica della chiesa, non pensano alla presenza della spiritualità cristiana che continua ancora a vivere nella preghiera di molti credenti tra le mura dell’edificio. Il nucleo centrale della basilica è articolato da lesene e colonne che creano dei moduli ben scanditi che tendono a liberare la forma da ogni peso e impedimento fisico e sembra essere prodotto da un analogo processo di liberazione dello spirito umano dai vincoli della materia. Tuttavia il visitatore deve saper distinguere all’uopo quanto sia effettivamente frutto di un sentimento di elevazione spirituale e quanto di una forma di esaltazione estetica. Tale movimento della struttura architettonica fa nascere l’idea al visitatore di rimanere di più all’interno per osservare i grandi capolavori degli artisti che lavorano nella città ducale. Il richiamo alla solenne spazialità dell’architettura antica plasma l’interno del duomo nel ritmo neoclassico privo di pesantezza. Mettersi sotto la cupola per qualche istante provoca una sensazione di libertà e movimento. Il freddo della chiesa rende qualsiasi sensazione più intensa: la profondità dell’interno, il colonnato alto e la cupola, così grande, accrescono la sensazione di smarrimento, una volta arrivati al centro del lucernaio. Le pale d’altare hanno un certo fascino; creano delle ombre in contrasto con il bianco del santuario. Non rassicurano; piuttosto inquietano perché sono avvolte dal buio ed i soggetti non si riescono a leggere. Ad ogni cappella ci si deve spostare per osservare l’immagine raffigurata da uno dei tanti pittori celebri che lavorarono ad Urbino. Ma se non si è impazienti, come accade per molti di noi, allora è tutto diverso. È necessario attendere che le cappelle siano illuminate per essere davvero ammirate nel loro splendore. Le opere pittoriche nella basilica sono una vera e propria scoperta. Vanno da sé la meraviglia e lo stupore che possono creare in qualsiasi persona “La traslazione della Santa Casa di Loreto” di Claudio Ridolfi, il “Martirio di S. Sebastiano” di Federico Barocci, l’“Annunciazione” di Raffaello Motta e l’“Assunta” di Carlo Maratta. Sia nella scenografia che nel ritmo dei colonnati si trova una qualcerta indeterminata sensibilità diffusa in quasi tutta la città. Si sa che Urbino è una città romantica per le suggestioni di Barocci: il pittore faceva schizzi e disegnava anche per le vie del centro quando voleva ricreare il mondo naturale nei suoi quadri. Nella lunga prospettiva bramantesca della navata, spinti in avanti da una luce tremolante, si arriva alla Cappella del SS Sacramento, dove rivive una delle glorie del Ducato nella“Ultima cena” (1590-1599) di Federico Fiore Barocci, ricca di effusione e di sentimenti. Tali emozioni sono sentite da quasi tutti gli osservatori alla sola vista del colore. La vivacità delle cromie e l’effetto teatrale colpiscono l’immaginazione di molti, anche di esperti di opere d’arte. L’ultimo colpo d’occhio va alla grande galleria dove spicca la “Madonna Assunta” di C. Unterberger cui è dedicata la cattedrale. La pala è il fondale piatto della basilica che accompagna per quasi tutta la visita coloro che vogliono entrare a far parte della vita della città di Urbino.

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Arrivano i L.a.t.!

Il rapporto registra la nascita dei Living apart together (vivere insieme a parte o vivere non insieme). Ovvero: figli ormai adulti che rimangono a vivere in famiglia, nonostante abbiano legami sentimentali. Secondo Chiara Saraceno, sociologa della famiglia – lei stessa per anni “nonna di fatto” – sono dunque i figli l’autentica spia delle trasformazioni sociali e familiari. “La famiglia non è un fatto naturale e dunque non è strano che cambi”, commenta la docente per la quale sono le persone a subire mutamenti, tanto che, il matrimonio “da rito di iniziazione e di passaggio è diventato un rito di conferma”.
Così, entrano in scena i Lat, quelli che rimangono nella famiglia d’origine il più a lungo possibile. Spesso per impossibilità economica ad iniziare una vita di coppia, ma anche per un’abitudine culturale tutta italiana. L’esempio della Saraceno è calzante: nel resto d’Europa, se un figlio ha superato i 25 anni e vive con i genitori ci si chiede cosa non vada nel ragazzo. In Italia, al contrario, se uno di 30 decide di andare a vivere da solo, la domanda è quali possano essere i problemi di quella famiglia. Tra i Lat ci sono anche coloro che, separati e divorziati con figli, preferiscono mantenere un rapporto a distanza con il nuovo partner. Ci si separa intorno ai 45 anni per gli uomini e 42 per le donne.
A parte la specificità dei Lat “tardivi”, secondo l’esperta, sovente la famiglia si “impara a farla” proprio dopo avere avuto il primo figlio nato durante una convivenza. “L’aumento dell’instabilità coniugale non è una novità; in Italia è in crescita semplicemente perché siamo in ritardo rispetto ad alcuni fenomeni. In altri paesi i dati si sono assestati”.
È venuto meno il termine “capo famiglia” e non viene più considerato “irresponsabile e senza un progetto di vita” chi sceglie di convivere. Chi, insomma, vuole che la coppia sopravviva pone avanti a tutto principi come identità, valore dell’unione, solidarietà e anche il sesso. Quando mi sono sposata erano il rispetto, l’affetto e se il sesso andava bene era anche meglio. Alle mie figlie quando si sono sposate non ho detto niente”. Ciò che ci si aspetta oggi dal matrimonio è reciprocità , parità e benessere nel senso pieno del termine. “Non più come un tempo per acquisire uno status bensì per sedimentare il rapporto di coppia”. L’occupazione lavorativa femminile ha grande rilievo. “Un tempo le donne si rassegnavano alle situazioni ora non più e decidono per la separazione”. Nell’epoca “post-matrimoniale” si ritiene sempre di più che se un matrimonio si trasforma in separazione non sia tanto perché uno dei due “ha sbagliato” quanto piuttosto che le persone sono cambiate in modo disuguale. Se le coppie “scoppiano” è sempre più una scelta consensuale.

da Il Fatto Quotidiano del 17 luglio 2012

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Al museo Archeologico di sera!

ANCONA 2400 -XXIV SECOLI DI STORIA
Presentazione guida QR multimediale. Un nuovo modo di conoscere la città
a cura di Nicoletta Frapiccini, con Paolo Petrucci
ore 23.00 Degustazione di birre di Oltremalto di Ancona

MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DELLE MARCHE
Incotri d’estate sulla terrazza di palazzo Ferretti.

Giunta alla sua nona edizione, la rassegna culturale estiva Al Museo Archeologico di Sera, a cura di Nicoletta Frapiccini con la collaborazione di Francesca Farina, presenta un ricco calendario di eventi dal 21 giugno al 24 luglio, con apertura straordinaria del museo tutti mercoledì dalle 13.00 alle 24.00; gli incontri si svolgeranno, come di consueto, sulla panoramica terrazza settecentesca del Museo (in caso di pioggia in Sala Conferenze). Al Museo Archeologico di Sera 2013 offre un variegato programma di incontri che spaziano dall’esposizione in anteprima dei rinvenimenti subacquei di Ancona romana alla presentazione della nuova guida QR multimediale della città, da un concerto per la Festa Europea della Musica a un incontro-degustazione sulla storia della birra, dalla presentazione del nuovo romanzo di G, Coppari fino a una serata dedicata ai fiori con laboratorio per adulti e bambini.
Numerosa anche quest’anno la partecipazione di personaggi del mondo artistico e culturale: Lucia Ferrati, Bruno Cantarini e Giorgia Coppari, Maria Cecilia Profumo.
Da segnalare la fruttuosa collaborazione con associazioni, cooperative ed esercizi commerciali del territorio che ha permesso la realizzazione di numerosi eventi, come la Banda Musicale “L’Esina”, la cooperativa Komaros Sub Ancona, l’erboristeria l’Ape Regina, Oltremalto, l’azienda vinicola Mancini. Le serate, con riduzione speciale di ingresso a € 2,00 (eccetto gratuità per legge: fino a 18 e oltre 65 anni) saranno accompagnate da degustazioni di vino, birra o bibite floreali offerti da produttori locali (Mancini Azienda agricola di Moie di Maiolati Spontini, Oltremalto e Erboristeria L’Ape Regina di Ancona); sarà inoltre attivo un servizio di visite guidate, comprese nel biglietto di ingresso, alle h. 22.00 e h. 23.00.

INFO
Museo Archeologico Nazionale delle Marche
Via Ferretti, 6 – Ancona
071 202602
sba-mar.museoancona@beniculturali.it
www.archeomarche.beniculturali.it

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

Mapi Guerrini

“Dal futurismo al futuro”

“Fotografa con tutto ciò che fa click…ma predilige la sua Nikon d800 e, quando ha tempo, l’Hasselblad analogica”

Le foto vanno guardate ascoltando Sakamoto “Hearthbeat”

8 9 porto

“Dal futurismo al futuro”
Questo il suo lavoro in corso. Mapi, da ingegnere, considera l’architettura urbana in perenne evoluzione ovunque, avverte nella sua città che qualcosa si è cristallizzato ed è caduto in una sorta di  immobilismo pompeiano. Reinventa allora, attraverso un gioco dinamico di sovrapposizioni, una sorta di galleria di fantasmi degradati ai quali mediante movimento, vuole ridare un’esistenza.
L’indagine continua oltre il visibile e regala, a chi vuole avventurarsi nell’interpretazione, confusioni di pixel che la fantasia può ricomporre.

Mapi Guerrini nasce ad Ascoli Piceno, una bellissima città  dove non metterà radici, restandoci solo pochi giorni.
Grazie al continuo peregrinare in numerose città, conoscerà realtà diverse che le insegneranno l’amicizia, l’adattamento, la molteciplità e l’incontro con la gente e l’abilità nel traslocare. Tornata ad Ancona, dove la sua famiglia ha le origini e le strade portano nomi familiari, si laurea in ingegneria  ed inizia ad incrociare il mondo, con se stessa e la compagnia di una macchina fotografica, ricevuta in regalo dal padre, e che, strada facendo, le diventa indispensabile per la cattura di un “oltre ciò che si vede”
Attraversa l’analogico con il grande format, la polaroid, la camera oscura, e inevitabilmente affascinata dai sistemi binari, approda alla fotografia digitale e alla sua immediatezza immagignifica. Per lei la fotografia diventa un complemento insostituibile e inossidabile, è completamento, “non passa un giorno che non scatti una foto” (come ha già detto Avedon) ed essendo alla ricerca di un linguaggio che si esprima là dove le parole sembrano non bastare, non si stanca di fotografare cieli, strisce pedonali, ritagli di realtà, avanzi di frigorifero…lasciando però gli umani sempre fuori dalle proprie visioni.

Contatti:
mp.guerrini@tin.it

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it

La mia Urbino

Estratto da nostro lunedì
numero 2 – nuova serie

Paolo Volponi e Urbino

isabella balena 1

 

“LA MIA URBINO”

PAOLO VOLPONI E L’ITALIA DELLA MUTAZIONE

 di Martina Daraio

Scrisse Volponi: “chi è partito ha ragione” ma “chi fugge salva solo se stesso / come un passero, se un passero / si salva fuori del branco”. C’è qualcosa di molto simile in questa tentazione alla “fuga” degli anni raccontati da Volponi e quelli in corso, che vedono sempre più giovani italiani partire per l’estero. Sono anni di profonda mutazione, in cui il cambiamento scuote ogni ambito dell’esistenza: dalla politica, al lavoro, al rapporto degli uomini se stessi e con gli spazi che vivono.
Dinanzi ad un disorientamento tanto forte il comportamento più naturale è quello di provare a razionalizzare ciò che accade. Prima ancora, è però necessario trovare un punto di riferimento solido e stabile su cui poter agganciare i ragionamenti. Numerose discipline, dalla critica letteraria, alla storia, alla geografia, negli ultimi anni sono arrivate a convergere sullo stesso punto di partenza: il territorio. La coordinata spaziale sembra l’unica ad aver conservato la sua “realtà” dopo che quella temporale ha iniziato a sfaldarsi e relativizzarsi con mezzi di trasporto e comunicazione sempre più veloci. L’obiettivo, oggi, è diventato allora quello di comprendere ciò che succede nel mondo guardando innanzitutto alla sua concretezza territoriale.
I poeti e gli scrittori marchigiani hanno saputo captare questa tendenza con grande lungimiranza, riflettendo instancabilmente su quale potesse essere, per ogni autore così come per ogni uomo, il senso di vivere in un determinato territorio anziché in un altro. Per questo parlare oggi del rapporto di Volponi con la sua città di Urbino non vuole essere un’autoreferenziale discorso estetico, ma piuttosto una preziosa occasione per conoscere più da vicino il rapporto di questo autore con gli spazi, il modo in cui questi hanno attraversato la sua poetica e, soprattutto, la realtà sociale e i modelli culturali del contesto in cui quelle sue parole sono nate, cioè gli anni della mutazione dell’Italia industriale e post-industriale. A questo scopo la letteratura può vantare una grande ricchezza, e cioè quella di essere, nelle sue descrizioni e riflessioni, libera da qualunque interesse o ambizione dogmatica. I poeti e i narratori con grande acume e sensibilità scrivono “solo” per comprendere essi stessi, per guardare con occhio critico e analitico ciò che accade, e per provare a confrontarsi e capire. Per questo, anche le “scienze esatte” come la geografia o la sociologia, sempre più spesso ricorrono a fonti letterarie per avere coscienza del rapporto degli uomini con la realtà.
Quello di Volponi, in particolare, è un caso di studio molto interessante perchè egli ebbe con la sua Urbino un rapporto complesso e viscerale, tale per cui le descrizioni paesaggistiche sono un dato ricorrente di tutta la sua produzione, dalle prime poesie del 1948 fino agli ultimi romanzi degli anni Novanta. Ma non solo: Volponi ebbe anche la possibilità di conoscere altre realtà quale, ad esempio, quella iper-modernizzata di Ivrea dove sorgeva l’industria Olivetti in cui lavorava. Ad Ivrea Volponi conobbe la nuova società italiana, la corsa capitalistica e l’apocalisse culturale e umana che questa portò con sé. Ad essa affiancò lo sguardo sui suoi spazi natali, la bellezza rinascimentale della città di Urbino, i suoi palazzi, lo splendore pittorico, la grandezza storica. Il mito e la riflessione su quale potesse essere una città ideale non lo abbandonò mai, anche quando si sentì oppresso e spinto alla fuga da quei luoghi o quando gli apparvero come rovine mummificate di un passato ormai scomparso: “Il paesaggio collinare di Urbino, / che innocente appare quercia per quercia / mentre colpevole muore zolla per zolla / è politicamente uguale / […] ai giardini della utopica Ivrea / ricca casa per casa: / tutti nella nebbia che sale / dal mare aureo del capitale”.
Per comprendere questo sguardo “strabico” che Volponi volse all’Italia è interessante leggere il brevissimo testo in prosa intitolato La mia Urbino e contenuto nella raccolta di testi minori Del naturale e dell’artificiale. Qui Volponi scrive in modo autobiografico ma senza per questo rinunciare ad una grande ricercatezza stilistica e densità conoscitiva, tanto che sarebbe una forzatura parlare di questo testo soltanto come di un bozzetto paesaggistico. Si tratta invece di una riflessione sulla città di Urbino nel tempo presente con sguardo al futuro, che svela uno dei grandi meccanismi di fondo del pensiero volponiano: il partire dal dato reale e concreto per andare a proiettarsi verso un altrove, verso una dimensione di progettualità: “si tratta di riprendere e di rianimare i vecchi posti assegnati, di riaprire la città e la sua terra a una cultura nuova, di arrestare la sua museificazione, di interrompere la retorica degli autoappagamenti.” Un approccio, questo, di grande fierezza morale che il poeta non smise mai di avere, nemmeno negli ultimi anni dinanzi alla costatazione del fallimento di un’epoca. Lo sguardo al futuro, però, non è un’evasione, ma l’esito di una tensione dialettica tra passato e presente che, nella loro materialità, restano le cifre dominanti della descrizione. Spiega Emanuele Zinato nell’introduzione alla raccolta: «per contrappeso rispetto a una tale irruzione di soggettività, Volponi attinge i propri strumenti espressivi dalla concretezza plastica delle arti figurative, restando sempre attaccato all’oggetto della propria rappresentazione, alle luci, ai volumi». La concretezza fisica, corporea, dei luoghi e di ogni presenza in essi sono, dunque, la risposta dell’autore ad un mondo che tende a virtualizzarsi, a relativizzarsi con il rischio di perdere ogni punto di riferimento. Aggiunge ancora Zinato: «questo nesso dell’arte con la realtà, prefigurante nuovi rapporti delle cose con lo spazio circostante, precede ogni scissione tra arte e vita». Scrittura autobiografica e scrittura narrativa, infatti, proprio come spazialità e descrizione letteraria, non sono altro che esperienze di una stessa realtà, compresenti e indispensabili l’una all’altra. Sono gli strumenti, dunque, di cui dovremmo avvalerci anche oggi per afferrare il senso profondo nella nostra società e, in essa, del nostro essere uomini.

info@nostrolunedi.it
www.nostrolunedÏ.it

info
info@liricigreci.it
www.liricigreci.it