I volti del Conero

Continuo a scattare. Finito il percorso stradale arrivo a destinazione, sulla cima del Monte Conero, dove si erge l’antica e misteriosa Badia di San Pietro un tempo anche monastero. Sapevate che sottostante alla chiesa sembra ci siano resti di un tempio dedicato alla Dea Pamplona, protettrice dei naviganti? E in più altri affascinanti simboli pagani come sirene, aquile, e serpenti.

Mentre mi lascio rapire da questa affascinante parte spirituale del Monte Conero la giornata giunge al termine e il sole ci regala questo “nostalgico” panorama.

Francesco Badalini

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“riconoscere la debolezza signora della forza”

Filippo la porta con Sauro Marini

Da nostro lunedì num. 1 nuova serie
Leopardi. Il pensatore pericoloso

Quando  studiavo Leopardi per l’esame di maturità ero assai poco appassionato alla questione del passaggio dal pessimismo storico al  pessimismo cosmico. Ancora una volta la scuola  ce la metteva tutta per burocratizzare e dunque disinnescare un “classico” dal nucleo così tragico-eversivo. La lettura di Leopardi, al di fuori di obblighi scolastici, è un’avventura intellettuale e conoscitiva dagli esiti imprevedibili. All’inizio ignoriamo se ci deprimerà o ci consolerà. In particolare il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia mi diede una emozione straordinaria, connessa con la scoperta di una dimensione vertiginosa di libertà. Quella relazione intima, nuda, indissolubile tra il pastore errante e la luna apriva per me uno spazio solitario in cui non entravano la Storia, l’Ideologia, il Marxismo, la Politica, l’Attualità e neanche la Psicologia. Si trattava di uno spazio impalpabile, gelosamente appartato, fatto di parole e di silenzi, e a tutti – almeno potenzialmente – accessibile, sul quale niente ha presa.
In quell’anno incandescente 1969-70, di movimenti collettivi e rivolte sociali, mi ricordava che ogni individuo contiene dentro di sé – quasi fosse il suo nucleo più inviolabile – questa possibilità di dialogo diretto con la natura, con l’universo, indipendentemente dal ceto sociale o dal livello di istruzione. Il materialismo di Leopardi non si può minimizzare ma costituisce soltanto uno degli elementi in gioco. La sua idea della natura oscilla da sempre tra i due opposti: benigna perché  vuole ovunque conservare la specie e maligna perché è incurante verso gli individui (per Mario Rigoni imparentata con la filosofia di Sade).
Ma questa stessa visione razionale non è l’ultima parola. Il concetto astratto è superato dalla musica e dal ritmo. Franco Fortini volle sottolineare giustamente all’interno di un’opera così   disperatamente pessimistica il “passaggio della gioia”, la gioia cioè dell’esperienza formale. Però poi Fortini si avvita in uno dei suoi discorsi “dialettici” sottili e un po’ contorti: la pienezza vitale della poesia sarebbe al tempo stesso adempimento reale e anticipazione falsa (perché avviene soltanto nella “forma”) di una utopia dei rapporti umani, dato che l’unica emancipazione reale avviene nella Storia, con quella mitica Rivoluzione sognata allora  da Fortini e da molti della mia generazione. Ma per Leopardi, che pure auspicò una confederazione tra tutti gli uomini, la salvezza resta individuale: consiste nell’approfondimento della coscienza di esistere e nella celebrazione della vitalità. Si pensi al tema delle “illusioni”.
Credere in una illusione, sapendola tale, non è atto di malafede ma espressione di uno stato vitale. Parlando della stessa poesia Yves Bonnefoi ha detto che la denegazione del mondo è accompagnata nei suoi versi da “una parola d’adesione ad alcune forme del mondo stesso”. Non è che le sofferenze cessano di esistere ma implicano uno “sguardo altro, sonoro” (sempre  Bonnefoi, per il quale la poesia è, semplicemente, “desiderio che vi sia dell’essere”).
In un passo dello Zibaldone leggiamo a proposito della compassione: “Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con un passo traballante… ti senti intenerire da questa vista… se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, ti sentirai commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e riconoscerla per signora di te e della tua forza”. Riconoscere la debolezza signora della forza? Che la natura matrigna possa produrre, anche in un solo cuore umano, un sentimento del genere, è un piccolo miracolo su cui il pastore nomade e la candida luna dovranno interrogarsi in eterno.

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Un Astronave ad Amsterdam.

È stato ribattezzato “Vasca da bagno“, l’atteso ampliamento del Museo Stedelijk di Amsterdam, tempio olandese dell’arte moderna e contemporanea. Giunto a termine il 23 settembre 2012, data ufficiale della riapertura. La nuova ala funzionale disegnata da Mels Crouwel, dello studio Benthem Crouwel Architects, si sviluppa su una superficie di 10.000 mq e offre la possibilità di esporre una collezione composta da 90mila opere messe insieme dal 1870 ad oggi.

         

Lo stile architettonico è indubbiamente contrastante. Nonostante ciò, il connubio tra il rustico mattoncino rosso che ricopre lo Stedelijk e il gioco di trasparenze dato dalle pareti di vetro al suo interno si sposano magnificamente. Il Museo vanta una solida collezione, mostre di livello e una politica di marketing molto “Dutch“: gli olandesi sono eccellenti commercianti anche nella cultura, non a caso anni fa sono riusciti a confezionare una mostra cult, quella dedicata a Vermeer al Mauritshuis dell’Aia, vendendola ovunque come “la mostra più bella del mondo“, e hanno messo in piedi un museo, il Van Gogh, che è tra i più visitati del pianeta. Anche qui emerge il “Dutch touch“, l’approccio all’arte di questo Paese: capolavori sì, ma attenzione anche alle arti minori e alla propria storia dell’arte, fatta non solo dei big Rembrandt, Vermeer e Van Gogh, ma di tanti altri artisti e pratiche un po’ secondari.

 

Ordinato e ben suddiviso: metà del pianoterra dell’edificio storico è dedicato alle arti visive dal 1870 al 1960, poi l’altra metà del basamento presenta il design industriale, quello grafico e le arti applicate, un excursus che va dal Modernismo a oggi, con in bella mostra cristalleria, ceramiche, gioielli, poster, complementi d’arredo e tessili. E poi ancora il secondo piano, sempre dell’edificio originario, che propone esposizioni della collezione, rinnovata con un focus sulle opere più importanti dagli anni 60 a oggi, mentre le mostre temporanee sono ospitate nel nuovo spazio.

 

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L’arte in cucina

La cucina diventa arte, dando vita al “Food design”, il nuovo modo di gustare il cibo.
La storia vede protagonisti: cuochi, architetti, chimici, fisici e scienziati, uniti per dar gusto al prodotto attraverso una particolare posizione delle molecole o semplicemente del cibo stesso.

Esempi lampanti di strepitoso successo avvalorano la tesi di questa corrente artistica.
È il caso del tipico cioccolato Svizzero Toblerone, che grazie alla sua particolare forma “architettonica” invita il consumatore a spezzarlo in più parti.
Un’ altra creazione molto ben riuscita e di enorme successo sono le patatine Pringles, la forma ergonomica della patatina è così fatta per adagiarsi perfettamente sulla lingua, e solo sul lato a contatto con le papille gustative verrà rilasciato il sapore, che resterà più a lungo. Il tutto grazie al particolare assetto molecolare.
E lo stesso successo riscosse la granita al limone in perle di Solero Algida, creata proprio in gocce circolari che a contatto con la saliva lasciano un sapore mai provato, un’esperienza ben diversa dalla normale granita.

In Italia il Food design è una scienza che ha preso piede negli ultimi anni, anche grazie alla settorializzazione e al miglioramento del settore, e ha subito il vero e proprio boom nel 2004, grazie alla mostra annuale del “Salone Internazionale del mobile di Milano”, che ha patrocinato la mostra “Dining design”. Università, aziende e designer hanno investito moltissimo ultimamente in questa sorta di corrente artistica, che attraverso provocazioni esplicite ed utilizzando elementi della “Nouvelle cuisine” già famosi negli anni ’70 giungono ad una creazione unica, che sfrutta le arti visive e le unisce alle sensazione polisensoriali.

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“diceva leopardi”

Marco Ferri con Francesco Colonnelli

Da nostro lunedì num. 1 nuova serie
Leopardi. Il pensatore pericoloso

“Il dato principale – diceva Brodskij in un suo discorso alla Library of Congress di Washington nell’ottobre del 1991 – è che la proporzione tra il pubblico che si rivolge alla poesia e il resto della società non è certo entusiasmante. In ogni fase di quella che chiamiamo storia documentata la poesia ha avuto un pubblico che sembra non aver mai superato l’uno per cento dell’intera popolazione. La base per questa stima non è una qualche indagine specifica, bensì il clima mentale del mondo in cui viviamo. Anzi hanno prevalso sempre condizioni meteorologiche tali che la cifra suddetta sembra un tantino generosa”. La preoccupazione di Brodskij non era per i poeti, che in genere hanno maturato una loro arte della sopravvivenza, quanto per il pubblico.
Se una casa editrice che stampa un libro di poesie sa che può rivolgersi solo allo 0,001 per cento della popolazione, la sua sfida, perché è una vera sfida, avviene fuori dal mercato, e può raggiungere un suo pubblico attraverso vie trasversali.
Apparizioni mistiche, rastrellamenti di intere classi scolastiche, incontri notturni fra alieni. Ma ormai la peste dilaga. Non riguarda soltanto la poesia, ma ogni scrittura, anche narrativa, che crede di poter eludere il gusto del mercato. Per queste scritture resta ancora un labile, quasi diafano, omaggio o rispetto, che come tutte le istituzioni intaccate dalla beceraggine dei tempi durerà per poco. Se un tale parlamentare (i nomi sono già folla e follia) è amaramente noto perché invece di prendersela con il suo barista se la prende con il presidente della Repubblica, questo non è un segno dei tempi? Ma qui siamo nel facile. Ci sono invece situazioni più complesse, e più disastrose e più incivili.
Già Leopardi, all’alba della moderna editoria, scriveva nello Zibaldone del 21-22 agosto 1828: “Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla”. L’anno prima aveva scritto: “La sorte dei libri oggi è come quella degli insetti chiamati effimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre tre o quattro giorni; ma sempre si tratta di giorni” (2 aprile 1827). Si lamentava anche del fatto che il numero degli scrittori superasse quello dei lettori ma soprattutto, di fronte a una produzione editoriale di semplice consumo, che poi influiva in modo pernicioso sul lavoro letterario (oggi in più c’è l’influenza di una industria ricca e celebre come quella cinematografica), Leopardi suggeriva di cominciare a distinguere. La qualità del moderno mercato editoriale, votato all’effimero, può testimoniarla chiunque lavori o abbia lavorato in una biblioteca pubblica: montagne di carta di ogni tipo viene quotidianamente donata, più per liberarsi dalle conseguenze di un proprio bisogno compulsivo che per autentico servizio pubblico, a queste istituzioni, che dovrebbero chiedersi ormai che senso abbia conservare il nulla, considerato tale dagli stessi lettori, una volta svaporati i fumi della retorica editoriale. Leopardi consigliava di distinguere, dicevo. In una pagina dello Zibaldone del 21 settembre 1828 egli proponeva infatti l’istituzione di due letterature, una per gli “intendenti” e l’altra per il “popolo”. Una soluzione elitaria, ma del resto l’immondo mescolarsi di letteratura commerciale e letteratura vera negli stessi autori è uno degli spettacoli più meschini del nostro tempo. Diceva Leopardi.

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