Hotel Residence #2

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Batouly li aspetta al settimo piano. Per raggiungerlo salgono tutti e tre in ascensore, scendono, e quando le porte metalliche della cabina si aprono scorrendo a sipario, Batouly è lì sul pianerottolo che compare in tutta la sua fantascientifica stazza nera.
Ha la testa pelata, gli occhiali scuri e indossa una camicia gialla e dei pantaloni neri righettati da una sottile filigrana dorata. L’effetto complessivo del suo abbigliamento è piuttosto kitsch ma efficace. Felpa rossa e felpa nera non scendono dall’ascensore, guardano Pacifico fare un passo avanti e sgusciare dalla cabina e lo salutano con un “ci vediamo dopo”, mentre le portiere già si richiudono.

Batouly inizia subito a parlare di sé, senza che Pacifico dica niente. Fa l’operaio ma è in cassa integrazione e ha la mattinata libera. Oggi è un giorno infrasettimanale e lui vorrebbe essere in fabbrica. Lavora in una ditta di stampi per gomma. “Facciamo soprattutto suole per le scarpe. Qui la gente che sta in fabbrica lavora tutta nella plastica”. Racconta che una volta, di mattina, qualche anno fa, i padroni arrivavano a reclutarli fin sotto l’Hotel Residence. Quelli che cercavano lavoro si facevano trovare raggruppati nel cortile dell’Hotel, i capifabbrica venivano in macchina e sceglievano la manovalanza. Assumevano tutta la gente di cui avevano bisogno per mandare avanti le catene di montaggio. Ma oggi  davanti ai portoni di ingresso del Residence non viene più nessuno, i macchinari nelle fabbriche sono fermi e nel cortile ci trovi solo i vecchi seduti sulle panchine con le barbe bianche e gli occhi piccoli e le donne che passano cariche di buste e i bambini che giocano a frotte, rincorrendosi. Ci sono poi gli italiani che vengono a prendersi ero e coca dagli spacciatori. Ma quelli orbitano tutti nel cortile accanto, perché l’Hotel Residence è una struttura a croce e di cortili ne ha quattro. Nel secondo cortile, che è verso nord, ci stanno tutti gli spacciatori. Sono magrebini più che altro, ma anche africani o slavi. D’inverno dal cortile si spostano dentro il Residence, nei primi piani, e da lì non si muovono. Gli italiani entrano dentro, comprano la roba e escono.

Bautoly racconta della droga nel palazzo a fatica, si vede che l’argomento gli costa sofferenza. La sua parlata incede insicura, il suo accento africano si fa straripante. In ogni sillaba infila vocali troppo aperte o troppo chiuse, schiacciate e nasali. Il ritmo delle frasi è sincopato, imprevedibile, per questo è magnetico alle orecchie di Pacifico. Cambia discorso e dice: “Ti devo far vedere una persona che sta qui, lui ha sempre bisogno di compagnia. È un mio amico. Ora è solo, sua moglie è via”. Bussano ad una porta, nel fondo di un corridoio pieno di altre porte allineate. L’uscio si apre e c’è un uomo altissimo, nero anche lui, anche lui senza capelli, africano, dalla pelle più nera di Bautoly. Ha gli arti slanciati e robusti e un volto dai tratti orgogliosi. Ma subito si percepisce che qualcosa in lui è rotto. Muove gli occhi in continuazione, non riesce a tenerli fermi, poi però inizia a fissare Pacifico, ferma le pupille su di lui, apre appena la bocca e il labbro inferiore gli casca pendulo in avanti, umido. Batouly dice all’uomo qualcosa in francese.
Poi l’uomo li fa entrare.

Il suo appartamento è spoglio, trasandato. C’è un senso d’abbandono impresso sui muri. Batouly indica Pacifico e dice: “Questo è un mio amico, è venuto stamattina per conoscerci, conoscere noi che viviamo qui al Residence. Dice che vuole sapere come si vive qui. Me l’hanno portato i figli di un mio collega di lavoro rumeno”. L’uomo continua guardare Pacifico, ha la pelle della testa screpolata, è come se il suo cranio fosse avvolto da una leggerissima ragnatela. Resta interdetto, si interroga sui motivi profondi che muovono la curiosità di Pacifico, lo si capisce dalla luce densa che gli riempie gli occhi. Fuori, oltre il balcone e la finestra, Pacifico osserva di sfuggita la costa sabbiosa dipanarsi in lontananza. La spiaggia e il mare si congiungono lungo un filo impalpabile, bianco, fatto di spuma. “Io non esco mai da qui – esordisce l’uomo – sì, cioè, esco quando vado al lavoro, ho un contratto con un supermercato per caricare e scaricare. Anzi, più tardi mi inizia il turno. Ma qui al Residence non conosco nessuno. Mia moglie ora non c’è, lavora anche lei – L’uomo si ferma un attimo, riprende fiato – Dobbiamo lavorare tutti e due perché nostra figlia sta male. Dobbiamo darle le medicine. Se fossimo in Senegal sarebbe già morta, mia moglie me lo ripete sempre. Nostra figlia ha una forma di diabete. Qua i servizi sociali del Comune le danno le medicine”. L’uomo è tormentato dalla infelicità della figlia, in lui si agitano visioni interiori convulse, a tratti atroci. Pacifico gli osserva le gambe, i suoi femori sono altissimi. L’uomo siede su uno sgabello e le ginocchia arrivano quasi all’altezza della bocca di Pacifico che si trova su un divano sfondato. L’uomo è  stanco ma i suoi lineamenti sembrano cristallizzati, fermi, bloccati in un coma fisiologico che li astrae dal tempo. Muove le gambe e poi torna a ripetere che sta male, che così non va. Alterna fasi di silenzio a scuotimenti di testa, si passa le mani sulla pelle tesa e screpolata del cranio. Sostiene che in Senegal era un diplomatico, viveva in una via piena di belle case azzurre e di cortili nascosti. Poi torna a parlare della figlia, tira fuori da un cassetto un foglio di carta. Dice, “questa è mia figlia, vedi, ha il diabete, ma io e mia moglie non riusciamo a curarla. Ci hanno aiutato anche i preti in paese, c’è un sacerdote molto grasso che ci ha portato dai servizi sociali. Io vorrei tornare in Senegal. Lì non mi mancava niente, ero un uomo importante”. Dice che è emigrato in Italia solo per provare, perché ha avuto la possibilità e allora è partito. “Perché sono matto – ripete – perché sono matto. Sono arrivato in Italia, poi mia moglie mi ha raggiunto e quando è nata nostra figlia già ci eravamo trasferiti nel Residence. Mi sento morire se penso a mia figlia”. L’uomo rimane fermo, seduto sulla sedia. Prova tenerezza per la figlia sofferente, ma è un amore straziato dall’angoscia, dalla paura della malattia. Anche se agli occhi di Pacifico la pelle nera dell’uomo resta una membrana impenetrabile, uno strato di materia organica che pone il suo interlocutore in una galassia lontanissima, Pacifico intuisce l’amore e la paura, l’angoscia che deturpa l’animo dell’uomo.
È una percezione che crea un varco, e al di là della sua pelle nera come la notte, Pacifico sente come di conoscere quell’uomo da sempre.

Poi Batouly dice a Pacifico che vuole portarlo ancora da un’altra persona. Così salutano l’uomo che li accompagna silenziosamente alla porta. Escono, gli androni del Residence sono ancora deserti, sprofondati in una luce acquosa e verdognola dove ogni parola si fa eco ovattato. Prendono ancora le scale e Pacifico tuffa lo sguardo tra la moltiplicazione delle rampe che si incrociano. I corrimano scendono paralleli e disegnano, uno di fronte all’altro, una sottile fessura vuota, uno spazio di nessuno che ha il taglio di un occhio dalla profondità architettonica annichilente. Scendono per un paio di piani, bussano ancora a una porta e questa volta ad aprire è una donna, africana anche lei, con una camicia bianca sopra il corpo florido, giovane, prospero. La donna ha un sorriso indifeso e due fossette tenere come more nel mezzo delle guancie. Tiene gli occhi bassi, mentre fa accomodare Pacifico e Batouly nel tinello del suo appartamento. Nella stanza c’è una credenza dai portelloni di vetro, molto vecchia ma ricolma di piatti e di bicchieri colorati. “Questa casa – dice la donna – è di una signora italiana che ce l’affitta, ma per pochi soldi. Qui lei non ci viene più”. Fa l’aiuto cuoca in un ristorante della zona, le piace. Si muove festosa, come la chioma d’un albero abituata ad accogliere i soffi del vento. “E tua figlia come sta? Spiega al signore di lei. Il signore è qui per conoscere le nostre storie” le dice Batouly indicando Pacifico. “Mia figlia sta bene, va all’asilo. L’hanno operata al cuore quando era neonata – inizia a raccontare la donna come se nulla fosse – Aveva un problema a una valvola cardiaca, era piccolissima. Per fortuna ci hanno aiutato, siamo riusciti a portarla all’ospedale Niguarda, a Milano. E ora tutto è finito. La gente della città mi ha aiutato. Io qui ero sola”. La donna non sembra scomporsi a quel racconto, anzi è serena, felice di ricordare qualcosa di brutto che ora è scomparso e non c’è più e che è stato sconfitto. A quel punto si apre la portafinestra del balcone. Entra un uomo, anche lui africano. Ha dei baffi rassicuranti, folti. Il sole del tardo mattino rischiara di luce la sua pelle nera. “È mio marito, cerca lavoro. Mi ha raggiunto in Italia da poco e ancora non riesce a parlare l’italiano”, dice la donna che, incalzata da Batouly,  continua a parlare, anzi sembra in preda a una improvvisa allegria: “Che vita che facciamo qua. Nei primi piani del Residence d’inverno è pieno di spacciatori nascosti nel buio. Stanno soprattutto al primo e al terzo piano. Qualcuno fa la vedetta ai balconi dei piani alti e appena arrivano le macchine della polizia le vedette avvertono gli spacciatori che si vanno a chiudere dentro i loro appartamenti. La gente sale e scende continuamente le scale per comprare la droga. E poi ci sono le perquisizioni della polizia, arrivano a sirene spiegate e la notte succede di tutto, qua. Una volta sono entrati anche dentro casa mia e ho avuto una paura che stavo per morire. Non avevo ancora tutti i documenti in regola e ho pensato adesso mi rimandano in Senegal. Oh che paura che ho avuto. Noi immigrati abbiamo sempre paura della polizia”. La donna ha i fianchi levigati e floridi sotto la camicia bianca e i capelli raccolti in due trecce nere che le scendono sul petto. Il marito non dice niente, lei si alza e va in un’altra stanza e quando torna mostra a Pacifico una piccola foto, di una bambina contornata di giocattoli che siede su un tappeto. “Qui è mia figlia all’asilo, l’anno scorso. È lì anche adesso, tra poco passo a prenderla prima di andare al lavoro”. L’appartamento della donna ha le pareti imbiancate di fresco, sopra le mensole e negli angoli giacciono alcuni soprammobili scoloriti dal tempo, forse slavati dall’aria salsedinosa che viene del mare. Pacifico li osserva un attimo, sono oggetti semplici che però tessono una narrazione invisibile in tutta la stanza.

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Marco Benedettelli

Marco Benedettelli, giornalista professionista, collabora con varie testate nazionali.
E’ fra i fondatori e direttore responsabile di “Argo, rivista di esplorazione”.
Nel 2012 ha pubblicato la raccolta di racconti La regina non è blu.

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Mapi Guerrini

“Fotografa con tutto ciò che fa click…ma predilige la sua Nikon d800 e, quando ha tempo, l’Hasselblad analogica”

Le foto vanno guardate ascoltando Sakamoto “Hearthbeat”

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Mapi Guerrini nasce ad Ascoli Piceno, una bellissima città dove non metterà radici, restandoci solo pochi giorni.

Grazie al continuo peregrinare in numerose città,
conoscerà realtà diverse che le insegneranno l’amicizia, l’adattamento, la molteciplità e l’incontro con la gente e l’abilità nel traslocare.

Tornata ad Ancona, dove la sua famiglia ha le origini e le strade portano nomi familiari, si laurea in ingegneria ed inizia ad incrociare il mondo, con se stessa e la compagnia di una macchina fotografica, ricevuta in regalo dal padre, e che, strada facendo, le diventa indispensabile per la cattura di un “oltre ciò che si vede”

Attraversa l’analogico con il grande format, la polaroid, la camera oscura,
e inevitabilmente affascinata dai sistemi binari, approda alla fotografia digitale e alla sua immediatezza immagignifica.

Per lei la fotografia diventa un complemento insostituibile e inossidabile, è completamento, “non passa un giorno che non scatti una foto” (come ha già detto Avedon) ed essendo alla ricerca di un linguaggio che si esprima là dove le parole sembrano non bastare, non si stanca di fotografare cieli, strisce pedonali, ritagli di realtà, avanzi di frigorifero…lasciando però gli umani sempre fuori dalle proprie visioni.

mp.guerrini@tin.it

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Luce di Urbino

Tratto da nostro lunedì – nuova serie
Numero 2

Intervista di Enrico Capodoglio a Paolo Volponi.

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Ogni città italiana ha la sua luce, tanto che potremmo compilare una guida turistica basandoci sul modo in cui essa carezza le facciate di Roma o illumina di taglio i portici di Bologna, batte sui tetti di Siena o cuoce i bugnati di Firenze. E specialmente ce ne accorgiamo quando vi siamo nati e nutriamo per essa un amore, fosse pure un disamore trasfigurato e convertito. Non è un caso allora se, quando Paolo Volponi racconta di Urbino, per esempio nella Strada per Roma, le nominazioni della luce si infoltiscono. E non c’è soltanto una luce geografica a contare ma sempre anche una luce storica, che imprime la sua qualità singolare. Siamo nei primi anni Cinquanta, quando l’inquinamento era modesto e la luce più intonata alla natura, e nei quali quasi tutti i personaggi del romanzo, primi fra tutti Guido Corsalini e Letizia Cancellieri, sono giovani, con gli occhi nitidi e una sensualità calda. Volponi è agli antipodi del platonismo, nel quale la luce divinizza dall’alto il mondo, ma anche del materialismo volgare, secondo il quale la luce mostra le cose esattamente come sono, e chi le guarda ne è solo lo spettatore. Se egli è deciso a ignorare ogni simbologia metafisica, vede nondimeno nella luce un bagno mistico naturale, in cui gli uomini e le cose assumono un rilievo esistenziale, diventano intimamente se stessi. La luce è benigna perché è la mediatrice universale, che ammantella dolcemente e mai non mente, neanche dove tutto è crudo: essa è forse un altro nome per l’arte stessa, in Volponi nutrita da tante conoscenze pittoriche. È essa infatti a indicare la nascita, nell’espressione “venire alla luce”, e che cos’altro è la poesia se non nascere, iniziare? Essa segnala la speranza quando diciamo “Finalmente vedo una luce”, e consente di penetrare le cose, allorché le “portiamo alla luce”. Sulla scia di questa intuizione sfoglio qualche pagina del romanzo e subito mi colpisce il modo in cui viene espressa l’angoscia: “Si scaldavano davvero le cose intorno a lui; s’ammalava il tempo, si corrompeva il sole: le cose non avevano più profondità” (200).
O come viene raccontata la gioia: “La giornata gli sembrava immensa e altissima per contenere e illuminare ogni cosa e gli pareva che quei recessi e volte delle torri romane o le discese dei vicoli di via 24 Maggio si aprissero nel tempo oltre che nel fisico della città” (308). E ancora: “Insieme alla propria soddisfazione notò che era sopraggiunta un’altra luce, celeste e molto alta,che smaltava con un colore elettrico i contorni…” (318).
È forse anche dalla Religione del mio tempo, uscito nel 1961 mentre Volponi scriveva il suo libro, che ha assorbito questo sentimento, pensando soprattutto a La resistenza e la sua luce, dove in una sola pagina il lessema ritorna dieci di volte, anche in virtù della clausola: “ed era pura luce”. Volponi ne potenzia però il senso attivo rispetto a quello contemplativo, quasi essa apra ogni giorno lo scenario di un possibile governo degli uomini sul mondo. Nella Strada per Roma molti passaggi ci confortano a intendere la luce non dico come metafora, semmai come espressione, della realtà veritiera; anche per contrasto, come quando l’autore dice che è illusione pensare che il buio sia un amalgama (139). Il buio è buio, non nasconde una ricchezza segreta, è male, è non vita, non vero. Ma è soprattutto dove la realtà si fa crudele, e cioè nella scena dell’agonia del padre di Guido, che l’illuminazione troppo forte della stanza diventa il segnale più accecante del vero.
A questo duplice senso della luce, come realtà che è dovere guardare negli occhi e che ammantella dolcemente (come nei paesaggi pasoliniani), è contrapposto il sole, specialmente del Sud o anche di Roma, che raschia (291), sbatacchia (332), è intriso di carica distruttiva (344), secondo uno stile del sentire presente in modo sfolgorante nel Gattopardo, per cui il sole è violento mentre la luce è materna. È conseguente quindi che le nominazioni del sole nel romanzo siano molto più rare e, direi, avverse: il sole batte la piazza in un vortice rovente (328), mentre la sua luce rende tutto visibile e conoscibile. È quello che accade di fatto, d’accordo: il sole abbaglia e la luce fa vedere, ma è in ogni caso dal sole che la luce emana, sicché fa pensare che il valore di forza paterna e divina del sole venga quasi ignorato. La luce artificiale è invece frequente metafora civile, contrapponendo la luce pubblica al buio desolato delle campagne. In ogni caso la luce per Volponi è un’energia fisica, corpuscolare e ondulatoria, che entra in azione di continuo: divide la stanza (6), taglia le persiane (24), fascia le cose (27), fa vibrare la spiaggia (40), si affila sul petto (45), fa sembrare piegata la città (50); tiene in circolo i volti (134), dondola (152), tocca le cose (175); s’accumula (189), si deposita (255), rimbalza, (255), schiuma (365). E Urbino è la più potente calamita della luce: in tutta l’opera di Volponi si infittisce la sua presenza, soprattutto di quella naturale, quando i personaggi si trovano nella città natale, come in Corporale, dove dilaga nella seconda parte quando Gerolamo Aspri, lasciata l’industria, vi cerca riparo. È singolare che in questo grande scrittore, restio a ogni mitologia del passato preindustriale e ricco di esperienze poliedriche, sia tale la potenza del paesaggio urbinate da trasfigurarne lo stile, orientandolo verso quella visione epifanica della realtà, anche in contrasto con la sua poetica del conflitto e della rivolta, che la luce dischiude.

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Il mondo, ma anche del materialismo volgare, secondo il quale la luce mostra le cose esattamente come sono, e chi le guarda ne è solo lo spettatore. Se egli è deciso a ignorare ogni simbologia metafisica, vede nondimeno nella luce un bagno mistico naturale, in cui gli uomini e le cose assumono un rilievo esistenziale, diventano intimamente se stessi. La luce è benigna perché è la mediatrice universale, che ammantella dolcemente e mai non mente, neanche dove tutto è crudo: essa è forse un altro nome per l’arte stessa, in Volponi nutrita da tante conoscenze pittoriche. È essa infatti a indicare la nascita, nell’espressione “venire alla luce”, e che cos’altro è la poesia se non nascere, iniziare? Essa segnala la speranza quando diciamo “Finalmente vedo una luce”, e consente di penetrare le cose, allorché le “portiamo alla luce”. Sulla scia di questa intuizione sfoglio qualche pagina del romanzo e subito mi colpisce il modo in cui viene espressa l’angoscia: “Si scaldavano davvero le cose intorno a lui; s’ammalava il tempo, si corrompeva il sole: le cose non avevano più profondità” (200).
O come viene raccontata la gioia: “La giornata gli sembrava immensa e altissima per contenere e illuminare ogni cosa e gli pareva che quei recessi e volte delle torri romane o le discese dei vicoli di via 24 Maggio si aprissero nel tempo.

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DOLCI IN FOTO e non solo …

Impressioni, ricordi e ricette di Maria Guadalupi.

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Questa raccolta di ricette e fotografie di dolci non ha la pretesa di presentarsi come l’ennesimo ricettario, ma è semplicemente un ringraziamento e una testimonianza di affetto per le tante persone, parenti, amici, conoscenti che mi hanno coccolato con le loro dolci prelibatezze e hanno soddisfatto la mia voglia di cose buone nella ricerca di sapori antichi e nuovi. Sono sempre stata, sin dall’infanzia, golosa di dolci, in questa debolezza accontentata dalla nonna Nora che era, amante della buona cucina che culminava nella preparazione dei dolci tradizionali.
Biscotti, bocconotti, “cacchitieddi zuccherati e mustazzueli” erano le sue specialità di cui non era possibile avere le ricette, perchè le dosi erano approssimative e cambiavano in relazione agli ingredienti di cui era in possesso con risultati comunque quasi sempre più che soddisfacenti. Neppure dalla mamma ho avuto grandi aiuti, perchè la cucina, in casa nostra, era l’unico e geloso regno della nonna, da cui la mamma era felicemente estromessa.
Nel tempo altre persone si sono succedute alla mia nonna nella preparazione di dolci.
Ed allora ho chiesto le loro ricette, ho fotografato i loro dolci, perchè desideravo emulare la loro capacità e bravura e colmare quei vuoti lasciati dalla nonna pasticciona e dalla mamma “manualmente impedita” come la definiamo io e mia sorella con affettuosa ironia scherzando sulle sue scarse attitudini manuali.

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La torta caprese di zia Concetta
Ingredienti: 200 g di zucchero, 250 g di mandorle tritate, 200 g di cioccolato fondente, 200 g di burro, 5 uova
Preparazione: Unisci tutti gli ingredienti in un impasto omogeneo. imburra una teglia e versavi il composto. Metti in forno preriscaldato cuocendo a 180° per circa 40 minuti. Dopo la cottura, lascia la torta nello stampo fino a quando sarà tiepida. Sformala, lasciala raffreddare e decorala con lo zucchero a velo.

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Bodoni non solo tipografo, ecco in mostra il carattere perfetto

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PARMA – Nel maggio del 1785 il re di Napoli Ferdinando IV e la consorte Maria Carolina trovandosi in visita a Parma entrarono nella Stamperia di Giambattista Bodoni senza preavviso, sorprendendo l’ illustre tipografo intento a limare matrici.  Grande ammirazione della regina, sorella della duchessa di Parma Maria Amalia, che subito invitò Bodoni a trasferirsi a Napoli. Non se ne fece nulla e non fu l’ unica volta in cui un invito venuto da molto in alto venne declinato. In omaggio ai reali di Napoli che viaggiavano sotto il nome di conte e contessa di Castellammare, Bodoni stampò una cantata musicata dall’abate Sertor. La mostra dedicata a Giambattista Bodoni nel bicentenario della morte, a cura di Andrea De Pasquale, si è aperta al pubblico nel Palazzo della Pilota (fino al 12 gennaio). Il visitatore potrà ritrovare anche le lime usate da Bodoni oltre a diversi altri attrezzi del mestiere, una vera officina, ma soprattutto, grazie al felice connubio tra libri, quadri, sculture e oggetti vari, tra cui diversi totem elettronici, potrà ripercorrere le tappe di una vita e di una attività eccezionali cui resero omaggio re e imperatori, pontefici e naturalmente intellettuali ed eruditi di ogni provenienza. La soprintendente Mariella Utili si augura che il nome di Bodoni consenta ai visitatori di scoprire o riscoprire i molti tesori d’ arte custoditi nella Galleria Nazionale, cui si aggiungono per l’ occasione numerosi prestiti. D’ altra parte la Pilotta è anche la sede del Museo Bodoni che compie quest’ anno il mezzo secolo e che conserva la collezione completa dei libri stampati e il necessario per stamparli, punzoni e caratteri in numerose migliaia. Oltre che nella Galleria, una sezione della mostra è ospitata negli spazi del Teatro Farnese e da ultimo nella Biblioteca Palatina, in particolare nella splendida galleria creata dall’ architetto Petitot, appena rimessa a norma, ci dice la direttrice Sabina Magrini, dopo una forzata chiusura, nei suoi impianti elettrici e antincendio anche con il contributo di molti privati. Giambattista Bodoni era in qualche modo figlio d’ arte: era infatti nato a Saluzzo nel 1740 da un padre tipografo e, diciottenne, dopo i primi studi presso i Gesuiti, era stato mandato a Roma dove si era formato nella Stamperia di Propaganda Fide, studiando anche lingue orientali alla Sapienza. Fu il padre Paolo Maria Paciaudi, piemontese conosciuto a Roma, a volere Bodoni a Parma dove Paciaudi era diventato bibliotecario e archeologo del duca e dove il ministro Guillame Du Tillot progettava appunto di creare una stamperia. Presto Bodoni è coinvolto nella realizzazione di uno dei più bei libri del secolo, come è stato definito. Era il sontuoso volume infolio della Descrizione delle feste celebrate in Parma l’ anno 1769 in occasione delle nozze di Ferdinando con l’ arciduca. Conobbe Parini Monti e Foscolo. Ebbe contatti con Alfieri ma non potè stamparne l’ opera chessa Maria Amalia cui mise mano anche Petitot per l’ iconografia eccellente, mentre Bodoni provvide alla stampa del testo in italiano e in francese. I caratteri però venivano dalla Francia, perché Bodoni non aveva ancora creato i suoi. Era il primo passo importante. Trent’ anni dopo, nel 1800, Giuseppe Bossi, pittore e letterato, tra l’ altro amico intimo di Carlo Porta, disegnò una “Apoteosi di Giambattista Bodoni” nella quale il visitatore della mostra potrà vedere, in stile neoclassico, l’ incoronazione del sommo tipografo attorniato dai grandi poeti, antichi e moderni, che lui stesso ha stampato. Toccò infatti a Bodoni incrociare molti trai bei nomia lui contemporanei e se oggi i versi dell’ arcade Carlo Innocenzo Frugoni sono appannaggio degli eruditi, non così è per l’ opera di Parini. Lo incontrò a Milano e il poeta si rallegrò per il suo bell’ aspetto, dicendogli che anche di lui madre natura aveva fatto una bella edizione, come racconta Corrado Mingardi nel bel saggio in catalogo. Di Monti stampò Il Bardo della Selva Nera con dedica a Napoleone. Bodoni conobbe inoltre Foscolo appena ventenne che gli venne presentato dal pittore Andrea Appiani, autore di un celebre ritratto di Bodoni stesso. E’ esposto in mostra, proveniente dalla Braidense di Milano, lo scrittoio da viaggio di Foscolo, sicché tra i ritratti di Parini e di Foscolo e altre testimonianze si può far tappa a Milano, così come poco più in là si è trovata una stazione romana con il corredo di alcuni bellissimi Bernardo Bellotto che dipinge le antiche rovine. E poco oltre ancora ecco il ritratto del medico napoletano Domenico Cirillo dipinto da Angelica Kauffmann. Per Cirillo Bodoni aveva stampato un trattato sul papiro e le sue proprietà, divenuto rarissimo perché molte copie bruciarono nei disordini della rivoluzione napoletana del ‘ 99, in seguito alla quale lo stesso Cirillo fu mandato a morte. Bodoni non aveva accettato l’ invito della regina a trasferirsi a Napoli, ma a Napoli era poi andato per rendere visita ad amici e illustri clienti. Anche con Alfieri Bodoni ebbe contatti e avrebbe voluto stampare la sua opera, ma Alfieri morì nel 1803 e la contessa d’ Albany preferì accordarsi con l’editore Piatti di Firenze. Intanto molti erano i grandi classici pubblicati con maestria da Bodoni, che ad un certo punto venne invitato a Roma dall’ ambasciatore spagnolo de Azara perché curasse appunto una collana di classici. Si oppose il granduca di Parma che però concesse a Bodoni di stamparli in proprio attrezzando una nuova tipografia. Il volume dedicato a Orazio è considerato uno dei più raffinati, ma la gara è infinita: nel 1793 pubblica Virgilio e tra i classici greci un Callimaco. Intanto gli onori si accumulano: nel 1782 è stato nominato Tipografo di Camera di Carlo III di Spagna e nello stesso anno pubblica un Essai de caractères russes in occasione della visita a Parma del principe Paolo di Russia con la sua consorte. Anche loro, come i reali di Napoli, viaggiano in incognito come Conti del Nord. Nel 1805 Napoleone è a Parma e vorrebbe vedere Bodoni, ma lui è a letto per un attacco di gotta. L’ anno dopo su istanza di Pio VII stampa l’ Oratio dominica, cioè il Padre Nostro in 155 lingue, un capolavoro assoluto. Così come resta nella storia la sua Iliade (1808) di cui due copie furono tirate in pergamena di Baviera, una per Napoleone che la donò alla Biblioteca Nazionale di Parigi e una per Eugenio Beauharnais, viceré d’ Italia, ora nella Biblioteca Palatina. La stampa, la correzione, la carta (è di quei tempi l’ invenzione della velina) l’ uso del colore, che Bodoni riprese da antichi vasi greco-etruschi… I dettagli sull’ arte di Bodoni, che aveva perfezionato un suo Manuale stampato postumo dalla vedova, sono oggettivamente infiniti. Cercava il libro perfetto con una passione assoluta. Bodoni morì duecento anni fa nel novembre 1813. Per la cronaca pochi giorni prima nelle stesse terre era nato Giuseppe Verdi.

Paolo Muri, La Repubblica (7 ottobre 2013).

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Cameron Moll

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Designer Cameron Moll recently announced a new Kickstarter for a letterpress print of the Brooklyn Bridge constructed entirely from typography. Moll worked entirely in Adobe Illustrator to draw the artwork, and while some sections can be copied and pasted roughly 70-80% of the characters in the artwork were positioned, sized, and rotated one by one. To give you an idea of what the final piece will look like you can see two similar works the designer previously designed, Colosseo and Salt Lake. See more over on Kickstarter .

http://cameronmoll.com/

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Roses!

Una spugna per cancellare il passato, una rosa per addolcire il presente e un bacio per salutare il futuro.Wallpaper roses

L’illustrazione è stata realizzata da Valentina Lusuriello, nata ad Ancona il 21 settembre e studentessa al terzo anno di Graphic Design, presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata.

M. La Graphic Novel #6

 

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M12M. nasce da una corposa costola de “Il cuore nei polpacci”, serie narrativa uscita a puntate sul sito di Ultima Sigaretta. Quando Danilo Santinelli ha preso l’iniziativa di chiamare il suo vecchio amico Paolo Marasca per proporre un’avventura assieme, il tessuto sfibrato de Il cuore nei polpacci è parso il migliore sul quale lavorare: trasformarlo, condirlo, torcerlo, plasmarlo e farlo come nuovo grazie al segno artistico e in piena libertà è stata la sfida.
Ne è venuto fuori un essere autonomo, M, con alcune storie da raccontare sul filo dell’immaginazione e della follia.

M. è un ospite. Della casa per disagiati mentali, ma anche del mondo, che legge e vede attraverso uno sguardo unico e commosso, e grazie alle instancabili gambe che lo portano ad andare. Le sue parole sono raccolte e cresciute da Silvia, educatrice della casa tanto sensibile quanto in bilico tra il curare e l’essere curata.

Paolo Marasca è nato ad Ancona nel 1967. Laureatosi in Lettere Moderne con indirizzo Storico Artistico presso la Statale di Milano, è tornato ad Ancona dove ha fondato il circolo Thermos, luogo di incontro, musica, arte, cultura e spettacolo dal 1995 al 2003. In seguito si è occupato della Biblioteca Amatori in Palazzo Benincasa. E’ autore di un romanzo (La qualità della vita, Italic, 2010) e di un secondo in uscita, di sceneggiature cinematografiche per il regista Alessandro Lentati, e collabora con i siti letterari Ultima Sigaretta e Argo. Da poche settimane è Assessore alla Cultura, al Turismo e alle Politiche Giovanili di Ancona.

Danilo Santinelli è nato a Jesi nel 1968. Laureatosi al DAMS (specializzazione in Arti Visive) presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna
Libero professionista: advertising, grafica discografica, illustrazione editoriale, pittura. Docente di Illustrazione, Percezione Visiva e Arte Contemporanea presso la Scuola Internazionale Comics di Jesi. È stato docente di Cinema, Fotografia e Televisione presso la Facoltà di Economia di Macerata.
In ambito editoriale ha pubblicato per: Il Manifesto, Diario della Settimana, Gruppo Hachette Rusconi, Cleup Editore, Helbling Languages Editore, Edizioni Pequod, Tre Sei Scuola Editore, Vanni Editore, Gruppo Editoriale Marche, Bonanno Editore.

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Mapi Guerrini

“Fotografa con tutto ciò che fa click…ma predilige la sua Nikon d800 e, quando ha tempo, l’Hasselblad analogica”

Le foto vanno guardate ascoltando Sakamoto “Hearthbeat”

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Mapi Guerrini nasce ad Ascoli Piceno, una bellissima città dove non metterà radici, restandoci solo pochi giorni.

Grazie al continuo peregrinare in numerose città,
conoscerà realtà diverse che le insegneranno l’amicizia, l’adattamento, la molteciplità e l’incontro con la gente e l’abilità nel traslocare.

Tornata ad Ancona, dove la sua famiglia ha le origini e le strade portano nomi familiari, si laurea in ingegneria ed inizia ad incrociare il mondo, con se stessa e la compagnia di una macchina fotografica, ricevuta in regalo dal padre, e che, strada facendo, le diventa indispensabile per la cattura di un “oltre ciò che si vede”

Attraversa l’analogico con il grande format, la polaroid, la camera oscura,
e inevitabilmente affascinata dai sistemi binari, approda alla fotografia digitale e alla suaimmediatezza immagignifica.

Per lei la fotografia diventa un complemento insostituibile e inossidabile, è completamento, “non passa un giorno che non scatti una foto” (come ha già detto Avedon) ed essendo alla ricerca di un linguaggio che si esprima là dove le parole sembrano non bastare, non si stanca di fotografare cieli, strisce pedonali, ritagli di realtà, avanzi di frigorifero…lasciando però gli umani sempre fuori dalle proprie visioni.

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