Sbarco ad Ancona

 

città

nostro lunedì n.5 - città

Sandro Penna

Dalla nube di polvere di carbone
mi saluta un sorriso tutto bianco.
Ma l’angelo di legno della barca
guarda gli orinatoi tristi e odorosi
improvvisati agli angoli – rivali
o amici cari ai cocomeri rossi.
Amici miei gli orinatoi… Ma io
non tendo forse al monte dove trovo
– lontano il mare e l’odore perverso –
l’adolescente odoroso di fichi?

 

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Sbarco ad Ancona

Carcere demolito

Scataglini

nostro lunedì n.4 - Scataglini


1
Come colpi d’aceta
sprofóndane tre mure
framezo ortighe scure
de sopra la breceta;

‘na fascia de cemento
d’indove el filspinato
se driza intorcinato
ie fa da sbaramento

e ‘n cancelo de legno
con lucheto e catena
(el verdeto e la pena
che se delma a congegno).

Co’ la demolizió
esta chioga quadrata
sortì come schiodata
da ‘na maledizió

de sbare e schiavardà,
d’aria fissa e de ronde,
de ore fate imonde
da la catività.

O raza de Caì,
adigatora al chiuso,
vedevi alzando el muso
le sòle ai secondì.

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Lo scintillio

 

 

libri

nostro lunedì n.3 - libri

Umberto Fiori

Se penso ai libri che hanno influenzato la mia vita, la mia storia, il primo che mi viene in mente è un volumetto di poche pagine, un’edizione per ragazzi della Divina Commedia con le illustrazioni di Doré, che un amico di famiglia mi regalò per il mio decimo compleanno (1959). Quel regalo fu il primo contatto diretto (non scolastico, voglio dire) con la poesia, e mi inorgoglì come un’investitura.

Imparavo a memoria terzine e terzine, contemplavo per ore Caronte scarmigliato sulla sua piroga, Minosse con la corona in testa, la coda avvinghiata ai muscolacci da lottatore. Di lì a poco (avevo dodici anni) qualcun altro mi regalò gli “Ossi di seppia” e “Le occasioni” di Montale, nell’edizione dello “Specchio” Mondadori, che allora (primi anni ’60) era – anche graficamente – splendida. Tutto mi piaceva in quei libri: i vasti bianchi della pagina, lo spazio tra il titolo e il testo, i caratteri. Montale me l’aveva già fatto conoscere la mia insegnante di lettere delle scuole medie (una donna eccezionale che oltre a Omero e Catullo, Carducci e Pascoli, ci faceva leggere i poeti contemporanei, italiani e stranieri), ma per la prima volta lo avevo lì, per intero, tutto mio. Dei versi, ovviamente, capivo quel poco che può capire un ragazzino di quell’età: non c’erano note a soccorrermi, e nulla sapevo di Annetta-Arletta, di Boutroux e compagnia. A sedurmi – in quel corpo a corpo col testo – era la corrispondenza tra la materia austera e sensuale delle parole degli “Ossi” (il mio Montale preferito, ancora oggi) e il paesaggio del Levante ligure, nel quale ero cresciuto. In quelle pagine sentivo la presenza delle cose più familiari (agavi, scogli, greti, muretti, isole, mare) vibrare e farsi più vera in una lingua che era la mia lingua, ma come lievitata, radiante. Il suono e il ritmo di quella rappresentazione, di quella ri-presentazione del mondo, mi hanno formato da capo a piedi. Se ho un po’ di orecchio, è di lì che viene. Continua a leggere

Un’altra musica, un’altra Italia

 

forme

nostro lunedì n.2 - forme

Colloquio con Gastone Pietrucci

Quando e come nasce “La Macina”?

“La Macina” nasce nell’agosto ’68 perché ho avuto la fortuna, a Spoleto, mentre preparavo il mio esame di stato, di assistere allo spettacolo “Bella ciao” di Roberto Leydi e Filippo Crivelli, al Teatro Caio Melisso, durante il “Festival dei Due Mondi”. Fu per me una folgorazione giovanile. Conoscevo della musica e della canzone tutto quello che passava la radio di quei tempi: improvvisamente ho visto e sentito che c’erano un’altra musica e un’altra Italia che cantava, per parafrasare le note di regia dello stesso Crivelli, e da lì ho avuto la voglia imitativa di riproporre quelle cose perché, nella mia ingenua ignoranza di allora, ritenevo che la musica popolare fosse solo quella che avevo conosciuto a Spoleto, particolarmente lombarda e piemontese, attraverso Giovanna Marini, Caterina Bueno, Sandra Mantovani, solo per ricordarne alcuni. Per diversi anni ho frequentato il repertorio di quel disco. Poi, naturalmente, come comprendi bene, ho avuto bisogno di staccarmi da quel lavoro capendo che la musica popolare era presente in tutte le regioni grazie anche alla tesi universitaria che ho preparato sulla letteratura tradizionale e orale marchigiana e spoletina, partendo appunto dalla ricerca di tradizione e di oralità della mia terra e da lì non mi sono fermato più.

E la ricerca? Continua a leggere

Cinema d’essai

 

scene

nostro lunedì n.1 - scene

Massimo Raffaeli

Il cinema non era un cinema ma uno dei teatri ottocenteschi tipici delle Marche: platea da cento posti (sedie scomode, cigolanti) e file di palchi color panna, con la bordatura di velluto crèmisi, un gran lampadario rococò. La guerra l’aveva distrutto e la facciata era stata ricostruita in marmo fascista, come una stazione ferroviaria o il palazzo delle poste, alla Piacentini. Chiaravalle l’aveva utilizzato, nel tempo, per le compagnie di giro, i veglioni, i comizi, le premiazioni della Befana e i raduni delle associazioni benemerite. Era un cinema da seconde visioni e d’estate diventava glaciale, l’aria sapeva di rinchiuso e del tanfo delle sigarette. Ci andavano gli scapoli e i ragazzi del paese, dopo il biliardo e le carte. La domenica, molta gente di campagna e delle frazioni. Molti entravano a spettacolo iniziato, il cinema era un divertimento, uno svago, e nient’altro.

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Degli odori e dei sapori

 

infanzie

nostro lunedì n.0 – Infanzie – prima serie

mary de rachewiltz

La mia infanzia, oh, era idillica, a ripensarci. Non che ci ripensi molto spesso, è un capitolo chiuso con i ricordi inseriti in un libro di tanti anni fa e intessuti poi in varie poesie, sia in italiano che in inglese.

E a questo accenno alle due lingue devo aggiungere che ce ne era una terza di lingua, anzi la mia prima: il dialetto tirolese, più propriamente della Val Pusteria.

Oltre alla fortuna di essere nata a Bressanone ho avuto anche quella di essere stata data a balia ad una donna straordinaria, in una casa di piccoli contadini a Gais. è difficile credere al giorno d’oggi che mucche e cavalli e pecore e galline potessero vivere sotto lo stesso tetto senza per questo essere considerati “barbari”. C’era, è vero, una separazione netta. La parte della casa occupata dalla famiglia dava a sud-est, mentre la stalla e il sovrastante fienile davano a nord-ovest. Il tempo era regolato dal sole e dall’istinto degli animali. Il gallo cantava all’alba. Le galline s’appollaiavano dopo il tramonto. E dopo la cena, la “mosa”, servita in una grande pentola posta al centro della tavola sopra il “Pfonnknecht” (il servo della pentola fuligginosa appena tolta dal fuoco), ci si inginocchiava e si diceva il rosario. Poi i bambini o chi era molto stanco si coricavano, mentre la balia, che io chiamava Mamme, cuciva o filava per un po’, e suo marito, il mio Tatte, fumava la pipa.

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Tu sei destinato a un gran lunedì!

– Tu sei destinato a un grande lunedì!
– Ben detto, ma la domenica non finisce mai.
Franz Kafka

– La vita è come una strada fatta di tanti lunedì
E sempre la speranza della domenica.
Silvio D’Arzo

Questo si limita ad essere nostro lunedì, periodico a tema che nasce, tra le rive del Franz Kafka dei Diari e Silvio D’Arzo (il nome è ricavato da un progetto di romanzo da lui mai scritto e di cui compose solo la prefazione prima che la morte lo spegnesse a quasi trentadue anni) privilegiando l’esperienza d’autore, sia essa narrativa, poetica, critica, pittorica, grafica, fotografica, aprendo porte anche sui vicini altrove (la musica, il teatro, la canzone).

Una convinzione che lentamente s’è fatta strada è stata quella di considerare in gran parte compiuta una stagione del Novecento che probabilmente ha consumato alcune delle possibilità espressive affidate alla rivista letteraria così come la si è intesa fino a ieri.

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