Per fortuna ho avuto un’infanzia felice #2

Per fortuna ho avuto un’infanzia felice.
La domenica del corriere non mancava mai nel contenitore accanto alla finestra, quella che dava sul cortile della casa azzurro cielo, abbracciata da un bel cancello verde.
Uno spazio, quello, in cui accadevano cose magiche davvero. Forse, ma forse, qualcosa avvenne che non doveva succedere, il ricordo è vago da non poter cominciare.
‘Qui c’è una bella piazza, qui c’è la fontanella, ci va a bere la pecorella’
Un soldino cadde nella neve e non fu mai ritrovato.

Vado. Il passo impone leggerezza. Il tragitto è lo stesso.
Le onde divennero schiaffi, le colline salti, un sipario il grembiulino a scacchi.
Quando tutto era racchiuso in quei dieci volumi blu, nello scaffale di mezzo della sala da pranzo,
poco frequentata, poco riscaldata. Dieci volumi blu a volte impolverati rattoppati con lo scotch.

Quale fosse la casa dell’amore se lo chiedeva spesso.
E più se lo chiedeva più non trovava risposte, o meglio le trovava, ma non coincidevano.
La casa dell’amore è un luogo dove poter essere se stessi, bene.
Dove per stare bene nessuno ha rinunciato a nulla. Benissimo.
Dove l’equilibrio c’è, ma non ha portato alcuno squilibrio. Ottimo.
Se lo chiedeva spesso quale fosse la casa dell’amore, e più se lo chiedeva più non trovava risposte.
Ma qualche esclusione cominciava a farla: la casa dell’amore non sempre coincideva a quattro mura, non sempre conteneva gente inginocchiata alla preghiera, non sempre si nutriva nello scorrere dello stesso sangue. E’ un posto dove dietro un sorriso non c’è altro che quello, dove nessuno dice amore, perché è nell’aria. Ci sono orme che invitano e non costringono.
La casa dell’amore è un luogo che c’era prima. E si nutre di questo

No, non siamo la sola somma degli errori commessi. Di tutto ciò che non abbiamo riconosciuto. Delle occasioni, aspettative, illusioni. Cadute, mancate, disilluse.
I fiori che non cogliamo restano nei nostri occhi. E ognuno ha un prato dentro dove il tempo è un canto. Siamo una somma sì. Della nostra prima neve, di tutte le nostre prime volte e di quelle che verranno. Di ogni volta che hai creduto.

Semplicemente non sopportava che la vita fosse tutta lì
Era spesso altrove e ne visse tante, di vite, o forse nessuna

Provai: ‘stamane sul ramo di un giovane alberello cantavan gli uccellini…’
La maestra ci assegnò un compito. ‘La Primavera’, con un disegno, una poesia, una filastrocca, un tema o in un qualsiasi altro modo ci fosse congeniale. Io mi perdevo spesso nel verde della valle, dalla finestra alla mia sinistra. I pensieri li riordinavo ad ogni richiamo, nei riquadri a rombi delle lunghe gonne a mezza gamba, al tempo del passo della mia maestra. Nella, sempre tra i banchi, sempre. Continuai su un quadernino, di quei formati che non si trovano più.
Il filo rosso. Sulla punta delle dita.

La biblioteca era lo svago invernale. E l’inverno era lungo.
In certi luoghi, in certi contesti, la biblioteca può essere svago.
Mia madre prese a rifiutarsi di comprarmi libri. Li trovavo da Concettina, lo spaccio del paese, dove c’era di tutto, dalla saponetta alla mortadella. Poi scoprii la biblioteca, vicino all’edificio della scuola. E lì iniziò l’avventura. Avevo una scheda personale che firmavo e mi sentivo grande.
La ragazza si chiamava Giuseppina e nel pomeriggio la trovavi a giocare a battaglia navale con il suo moroso. Che bello avere un moroso e giocarci a battaglia navale in una biblioteca.
Era sempre gentile e sorridente, non dava mai consigli, solo aspettava.
[Mai, mai tradire il tempo della lettura. La lettura assottiglia l’anima come carta velina.
Fitta nebbia polverosa dalle memorie del sottosuolo e le epifanie a imporre nuova luce.
A volte giri a vuoto in un vortice che torna su se stesso. Da Omero a Joyce.
Ma che magia! Quanto sonno rubato e restituito di vita. I libri letti ci abitano dentro e segnano lo sguardo. Dilatano le età. E sei bambino sempre e sempre vecchio. La lettura, solo, può sconfiggere il tempo, e la scrittura. Sono tutti dentro i libri che leggiamo.
Le parole ci crescono, plasmano i nostri paesaggi. E i nostri vuoti]

Nessuno di oggi sa dei miei occhi bambini.
Non sanno delle mani screpolate, della cornacchia appollaiata sulla spalla, del fiocco bianco sul grembiule blu. Del corteo di cuccioli, di tutti gli animali pianti e seppelliti.
Le cose cambiano mentre le vivi. E non tornano. E un trasloco dirotta un’esistenza.

La Natura è qualcosa di cui non so parlare.
Il silenzio è cresciuto tra le montagne, nutrito dalla lotta di chi la doma la natura.
Di chi la ama di struggente impotenza. E la forza si confonde e forgia i tratti, gli umori.
Inconfondibile la gente di montagna. Vera, cruda. Come il lamento della bestia, come il vuoto della pianta abbattuta che lascia nuova luce al sottobosco. Naturalmente, senza preamboli o troppe spiegazioni si viene su. Pomodori e conserve in agosto, vino, funghi e sott’oli in autunno, agnelli a primavera. Singoli destini, inesorabili come le stagioni.
Intristisce anche, la natura. Intristiscono i fanatismi, i convertiti del momento, l’artificiale santificazione della cosa perduta, rifugio dello spaesato.
Quante cose ci sfuggono. La natura no, se ce l’hai dentro.
La natura ti tiene, non ti consegna ad altro. Oggetti o sentimenti. Da possedere, da consumare.
E’ nato lì questo sentire e vi torno col pensiero, nel ricordo un sorriso ignaro di denti bianchi di speranza, rugiada sul germoglio che non conosce la gelata.

Il vecchio morì con gli occhi aperti e nel suo letto. Era quello il desiderio della nonna che invece tornò al paese a passo d’uomo, dentro un carro funebre. Era marzo e c’era la neve. Le comari attendevano alla fonte, grappolo di scialli neri e visi bianchi, i fazzoletti in pugno.
Si invecchia così, sotto gli occhi di tutti e dietro i nostri, guardandoci quanto basta a non ammettere paura. Si muore da soli, al bordo delle cose, se lì avremo saputo collocarci, con il distacco della sera, se avremo voluto coltivarlo.
Vado ponendomi sul bordo delle cose lasciando andare ogni torto subito.
Solo non dimentico il male ricevuto.

Il tempo è inesorabile e ci abbruttisce fuori, checché se ne dica. Si invecchia.
Le notti insonni degli anziani. Le albe faticose. Mi angosciano le loro mani, le vecchie fotografie. Non trovo nulla di rassicurante nelle parole, negli sguardi.
Col tempo si torna su stessi, ci si piega. Col tempo si torna bambini. Ci si attacca alla vita.
I bambini. Un rimedio, un antidoto, un vaccino.

Le primavere non sono più quelle di una volta. Ed anche il mio ventre, e i seni.
Tempo. Durata. Successione. Spazio. Azione e contemplazione. Stagioni. Età. Segni.
Il tempo è un cruccio quando la percezione cambia, diventa pesantezza. Insegue e assilla.
Non è più tempo.
Le sedie sono vuote attorno al fuoco, i frutti maturano e poi cadono.
Torno spesso all’infanzia.
Ora che il tempo è altro, stagione in cui si gratta il fondo e la voglia è latente come la speranza.
Torno lì, senza permesso alcuno, senza aprire bocca, senza nemmeno più chiudere gli occhi.
Senza volerlo, spesso. Si scende dal tempo, in certi posti ci sono momenti.

ritagli-di-tempo-1-2009

“Ritagli di tempo” (Elena Nonnis)

Carmen Morisi è nata il sedici marzo millenovecentosettanta. Vive in Abruzzo.

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Mapi Guerrini

“Fotografa con tutto ciò che fa click…ma predilige la sua Nikon d800 e, quando ha tempo, l’Hasselblad analogica”

Le foto vanno guardate ascoltando Sakamoto “Hearthbeat”

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Mapi Guerrini nasce ad Ascoli Piceno, una bellissima città dove non metterà radici, restandoci solo pochi giorni.

Grazie al continuo peregrinare in numerose città,
conoscerà realtà diverse che le insegneranno l’amicizia, l’adattamento, la molteciplità e l’incontro con la gente e l’abilità nel traslocare.

Tornata ad Ancona, dove la sua famiglia ha le origini e le strade portano nomi familiari, si laurea in ingegneria ed inizia ad incrociare il mondo, con se stessa e la compagnia di una macchina fotografica, ricevuta in regalo dal padre, e che, strada facendo, le diventa indispensabile per la cattura di un “oltre ciò che si vede”

Attraversa l’analogico con il grande format, la polaroid, la camera oscura,
e inevitabilmente affascinata dai sistemi binari, approda alla fotografia digitale e alla sua immediatezza immagignifica.

Per lei la fotografia diventa un complemento insostituibile e inossidabile, è completamento, “non passa un giorno che non scatti una foto” (come ha già detto Avedon) ed essendo alla ricerca di un linguaggio che si esprima là dove le parole sembrano non bastare, non si stanca di fotografare cieli, strisce pedonali, ritagli di realtà, avanzi di frigorifero…lasciando però gli umani sempre fuori dalle proprie visioni.

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Lettera al poeta

Tratto da nostro lunedì n° 2 – nuova serie 2013
isabella balena 4

Urbino, 15 giugno 1985.

Caro Ercole,
qualsiasi descrizione di Urbino, anche la più obiettiva e catastale, può valere tutt’al più un’ora, o due, il battito di un malumore o lo slancio di una smania.
Urbino non ci appartiene eppure non ci scaccia né ci sfugge. Io faccio una grande fatica a far finta di vivere serenamente in Urbino, come ogni altro buon urbinate.
Qui non c’è idillio, né rifugio, né quiete, né silenzio, né società.
Qui non si gusta alcuna confortevole bellezza ed è per questo che gli urbinati (quelli non proprio buoni, la maggioranza, residente o no) la tramutano in presunzione e consumo, dote e parcheggio. Per continuare a voler bene e a vivere in Urbino occorre arrivare a congiungersi, oltre i fili e la rete di qualsiasi descrizione e relazione, con le immagini vaganti, astrali o artistiche, della città; sfidare ogni volta la vertigine dell’aquila di pietra sopra l’abisso della punta dei torricini. E qui si potrebbe dare inizio a tanti riferimenti con l’aquilone, gli aquiloni, i venti, i torrioni, i piccioni, i colli, i paesaggi, i passeri, i passaggi, etc.etc…

Il tuo Paolo Volponi
da “Lettera al poeta – Ercole Bellucci” Urbino, 15 giugno 1985 

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L’IMMAGINE PERIODICA

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All’Atelier dell’Arco Amoroso di Ancona una mostra delle foto di Sauro Marini
che nostro lunedì ha pubblicato nel corso di oltre un decennio.

Se si pensa a un’immagine periodica viene subito alla mente quella della
pellicola cinematografica che si ripete istante dopo istante per costruire
un gesto o una frase completi.

Ma immagine periodica non è in questo contesto quella di celluloide,
ma quella fermata nel tempo dal fotografo Sauro Marini per i numeri di nostro lunedì, appunto, il periodico creato da Francesco Scarabicchi e Francesca Di Giorgio.
Oltre un decennio di un contributo di sguardi segnato dalla misura sensibile
che ferma nel tempo, l’istante che non si ripeterà. Stile e memoria nella limpida e lirica vocazione alla bellezza.” Queste parole di Francesco Scarabicchi più di altre sono capaci di riassumere la preziosa collaborazione artistica che il fotografo, Sauro Marini, ha offerto a una delle riviste più note delle Marche e d’Italia che proprio con le sue foto ha concretato visivamente le parole di sette numeri editoriali.
Più che di collaborazione, si può parlare di reciproca fecondazione d’idee che hanno portato Sauro Marini e Francesca Di Giorgio a confrontarsi sui temi e sulle immagini
con l’unico scopo di offrire al pubblico la bellezza. Topici costitutivi della memoria culturale condivisa. Perché di bellezza si parla quando si sfoglia la rivista nata nel febbraio 2002,
ideata e diretta artisticamente da Francesco Scarabicchi, dove nulla, mai, è lasciato
al caso e dove anche una semplice virgola è parte di un arazzo completo, complesso
e sempre affascinante. E le foto che Sauro Marini ha proposto a questo periodico rappresentano la ricerca di un particolare che più di altri si attaglia alloo scritto,
fermando attimi di luce che animano pagine interne e copertine, sentimento ed emozione.
Foto in cui la forza dell’immagine non vince sempre quella dell’immaginazione.
Questo accade soprattutto nei particolari che l’artista ferma in bianco e nero cercando intenzionalmente di evidenziare qualcosa che non esiste nella realtà.
Un gioco voluto che cerca, nelle differenze, interpretazioni alternative alla tangibilità, offrendo percorsi che non sono ancora compiuti.
Ventitré le foto che saranno esposte in mostra all’Atelier dell’Arco Amoroso
del Palazzo prefettizio, in Piazza del Plebiscito, ad Ancona.
Foto non costruite, foto ricercate e raffinate come la “chiocciola” della Chiesa del Gesù
o in particolare di San Ciriaco, il porto, il monumento ai Caduti, il porto turistico, il Museo archeologico e il Museo Omero: questi alcuni dei temi di ricerca del fotografo accanto
ai quali saranno esposti i numeri delle riviste che li hanno ospitati per realizzare quella antica suggestione onirica che unisce il sogno alla realtà.
Come scrisse Montale in un dagherrotipo di un suo avo: ”resta / che qualcosa è accaduto, forse un niente / che è tutto.”

Inaugurazione Venerdì 22 novembre alle 18.00
Apertura sino a domenica 1 dicembre.
Orario: dalle 17.30 alle 19.30
Sabato mattina dalle 10.30 alle 12.30

Sauro Marini, fotografo anconetano innamorato della città, negli ultimi anni ha saputo unire queste due caratteristiche, ed ha dedicato alla sua Ancona molti dei lavori fotografici fino ad oggi realizzati. Tra le varie mostre che ha organizzato sono infatti da ricordare: Historie anconitane (2005), Prospettive d’ombra (2006), Universitatis Imago (2007,
con presentazione del Prof. Fabio Mariano), Attimi (2008) – tutte queste con immagini
in bianconero – e la coloratissima Quant’è sera (2009) dedicata agli infuocati tramonti anconitani. Collabora con la rivista di poesia e immagine “nostro lunedì”, edita dal Comune di Ancona; le sue fotografie di reperti archeologici sono state riprodotte su pannelli giganti installati presso la mostra “Potere e splendore. Gli antichi Piceni a Matelica” nel 2007.

Le sue immagini sono visibili sul sito web di fotografia, all’indirizzo www.sauromarini.it
Dal 2008 è presidente del Circolo Fotografico Archivivi con sede ad Ancona in via Marconi.


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Fumettologica

Prima Foto

Fumettologica è un magazine online di informazione e cultura del fumetto con lo scopo di raccontare quest’ultimo offrendo notizie, storie, immagini, opinioni e idee.
Questo ambizioso e recentissimo progetto tutto italiano è nato dalle menti del ricercatore
e consulente Matteo Stefanelli, del web designer Niccolò de Mojana e del curatore del blog collettivo Conversazioni sul Fumetto, Andrea Queirolo.
Fumettologica è un esperimento unico nel suo genere, in quanto racchiude in sé una vastissima varietà di elementi inerenti al mondo del fumetto in senso lato.
Interventi d’opinione, notizie, approfondimenti storici e critici, rubriche, galleries, libri, videogiochi e tutto ciò che gravita intorno al mondo della cultura delle immagini, trovano il loro spazio nell’universo di Fumettologica. Come lo hanno definito gli stessi ideatori, “Fumettologica non è il solito ‘verticale’ (sul fumetto), dunque. Abbiamo provato a inventarci qualcosa di molto italiano, che si guarda intorno fra i migliori esempi internazionali – dalle decane ActuaBD o The Comics Journal ai giovani Comics Beat o Comics Alliance – e prova mescolarli insieme in una formula più nostrana per contenuti, voce, immagine.”

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articolo a cura di Cecilia Lusardi

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Feathers!

I sogni sono come piume: se nella vita ne raccogli abbastanza, un giorno spiccherai il volo alla volta dei tuoi sogni, verso il tuo destino. Raccogli una piuma ogni volta che la vedi, perché è scesa dal cielo, la meta a cui si deve anelare.

dal libro “La musica del silenzio” di Sergio Bambarén.
Piume

 L’illustrazione è stata realizzata da Valentina Lusuriello, nata ad Ancona il 21 settembre e studentessa al terzo anno di Graphic Design, presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata.

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Per fortuna ho avuto un’infanzia felice #1

Che ne è del tempo trascorso. Mi fermo. Durata e successione non mi riguardano.
Alloggio sulla pagina. Inesorabile la gerarchia dello scritto.
L’essenza è nel ricordo, nel presente dilatato.
Si scende dal tempo, in certi posti ci sono momenti.

Appare indispensabile oggi fare quello che mi va, anche se è domenica e una stagione è finita, ho dichiarato pace finalmente. Appare indispensabile tornare nei luoghi del passato.
E’ lontana la strada dell’infanzia, i bambini giocano, stessa luce negli occhi, le ginocchia sbucciate. Nel cortile della casa azzurro cielo gli alberi sono cresciuti, stesso il verde del cancello. Avevo una volpe, chiedetelo ai vicini, di quando mangiò la mia cornacchia e delle tartarughe e i porcellini d’India. Appare indispensabile avere il cuore libero ed è stonata questa malinconia.
Occorre vivere – ma non è indispensabile. Impastare un dolce – oggi, quasi vitale.

La volpe scappò e mangiò la cornacchia. La tartaruga morì, i cuccioli furono regalati al tempo del trasferimento.
E i fiori? Erano dalie e margherite, fuori misura le loro corone.
Che ne è stato dei fiori?

Da bambina mi pettinavo sul balcone pensando che i miei capelli finissero nei nidi degli uccelli.
Oggi sorrido delle manine, della perizia nell’osservare i nidi, e continuo a pettinarmi sul balcone. Passarono anni prima che venisse fuori che i miei capelli erano ricci.
Anni di spazzole, pettini, forbici. Corti lunghi medi, trecce code e berrettini, lacca e pure brillantina. Non c’era modo di dare un senso a quel contesto. Fino a quando non furono lasciati, in un’estate pigra, abbandonati a se stessi, trascurati. Dall’incuria vennero fuori onde perfette, delle sfumature del grano. I capelli dicono.

Non ho memoria di fiabe ad alta voce, la mia voce a voce alta la ricordo.
Libri con qualche illustrazione. Mia madre ricamava accanto alla finestra, su quel cortile mondo.
Quando nelle orecchie cresceva il prezzemolo e nella bocca della stufa c’era un lupo, la notte lo vedevi. Quando la pellicina sul labbro bruciava e il dentino stava appeso.
Quando la nonna andava in cielo e il gatto no.
Dentro gli occhi, nelle mani, il viola spento della malva, l’odore del sapone fatto in casa, materassi all’aria, il rosario delle sei. Cinque lire tra le dita appiccicose al fondo della tasca stropicciata, pasticche bianche e gelatine verdi, nella giacca, sempre quella.
E dici grazie, e presenterò. I saluti dei grandi saranno serviti. Le condoglianze alla domenica, lo zucchero impacchettato col caffè. Mai le mani in mano, il cuore sulle labbra.
Le scarpe della festa di vernice, fiori ricamati sul gilet, il manto della recita azzurrino, la carta velina e i festoni e la notte il cuscino bagnato. L’orco era in casa. Era dentro l’orco.

Mi insegnarono presto che gli uomini e le donne sono diversi. E avevano ragione.
Le donne sono la coscienza del mondo.
Il corpo lo conobbi da un manuale in bianco e nero, in bagno, il rubinetto della vasca aperto.
Le lunghe corse. Quelle che scappi. Di quando ti perdi. Con il kilt e lo spillone a sinistra, coi calzettoni e le cosce sempre calde.
La libertà, la libertà, la libertà. Un soffio dentro.

La primavera arrivava sempre, anche se nel letto c’erano lenzuola di flanella.
Matasse all’aria, l’ago enorme a ricucire strappi, i piselli da sgusciare, scorpacciate di ciliegie, rubate, come le noci. Come l’amore. Spiato, immaginato, proibito. Che non è l’ora.

Ci sono vite benedette come il sonno dei bambini,immacolata la piega del lenzuolo steso a quattro braccia. Le mani a coppa, una caramella al volo, schiocca il soldino nel salvadanaio.
Una giravolta, la stessa filastrocca, piroetta di fogli nascosti celati a se stessi dicono ancora – Meraviglia.

‘ O questo o quello ‘ se sono stato povera non l’ho mai saputo.
C’era un conto in Svizzera che diceva papà, e capii che non esisteva verso la maggiore età.
Ci sono sempre stati mutui da pagare, mura da finire, soldi da risparmiare. Ma ho sempre avuto tutto, anzi di più. Perché tra il questo o ilquello si inventa un mondo.
Devi sempre scegliere e tante volte lasci perdere. E inventi e usi e riusi e non butti niente.
Neanche la paura.
Quando si è poveri si riciclano i giornali, e si leggono dalla prima all’ultima pagina.
E poi si mettono da parte, per la sarta, o la vicina.
Un’arancia servita nel piattino ed era festa.

Carment Morisi 1 foto“Filo su tela di lino” (Elena Nonnis)


Carmen Morisi
è nata il sedici marzo millenovecentosettanta. Vive in Abruzzo.

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Mapi Guerrini

“Fotografa con tutto ciò che fa click…ma predilige la sua Nikon d800 e, quando ha tempo, l’Hasselblad analogica”

Le foto vanno guardate ascoltando Sakamoto “Hearthbeat”

grunuv l'ascolto lux

Mapi Guerrini nasce ad Ascoli Piceno, una bellissima città dove non metterà radici, restandoci solo pochi giorni.

Grazie al continuo peregrinare in numerose città, conoscerà realtà diverse che le insegneranno l’amicizia, l’adattamento, la molteciplità e l’incontro con la gente e l’abilità nel traslocare.

Tornata ad Ancona, dove la sua famiglia ha le origini e le strade portano nomi familiari, si laurea in ingegneria ed inizia ad incrociare il mondo, con se stessa e la compagnia di una macchina fotografica, ricevuta in regalo dal padre, e che, strada facendo, le diventa indispensabile per la cattura di un “oltre ciò che si vede”

Attraversa l’analogico con il grande format, la polaroid, la camera oscura,
e inevitabilmente affascinata dai sistemi binari, approda alla fotografia digitale e alla sua immediatezza immagignifica.

Per lei la fotografia diventa un complemento insostituibile e inossidabile, è completamento, “non passa un giorno che non scatti una foto” (come ha già detto Avedon) ed essendo alla ricerca di un linguaggio che si esprima là dove le parole sembrano non bastare, non si stanca di fotografare cieli, strisce pedonali, ritagli di realtà, avanzi di frigorifero…lasciando però gli umani sempre fuori dalle proprie visioni.

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L’aria sopra Urbino

Tratto da nostro lunedì – nuova serie
numero 2
Articolo di Gabriele Fichera
flagellazione-Piero internet

Sembrerebbe una scena già vista o già letta.Lo scrittore ormai maturo s’inerpica, ancora per una volta, lungo gli ampi scalini del museo.
Nello scialo, improvvisamente ammutolito, e quasi offuscato, dei meravigliosi capolavori, ad isolarsi dinanzi ai suoi occhi è però un’unica tela. L’ago spasmodico dell’attenzione si orienta, senza alcun tentennamento, verso il nitore glaciale di un solo quadro. E il novello Bergotte deve prepararsi, con docile rassegnazione, a subirne per l’ennesima volta l’imperiosa bellezza. Lo scrittore è Paolo Volponi, nato a Urbino. La tela è la Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca. Per delineare i termini sentimentali del rapporto tra Volponi e Urbino si potrebbe partire da qui, da quest’opera – una mirabile «congiunzione misteriosa di matematica e pittura» la definì Roberto Longhi – che non cessò mai di affascinarlo. Volponi si dispone infatti dinanzi alla tela di Piero con la medesima, ansiosa riverenza con cui osserva l’amato paesaggio urbinate. Ed è lui stesso, in un documentario girato per la Rai nel 1973, a parlarci delle affinità profonde che sussistono tra quel quadro e la sua terra. Della stessa qualità gli appaiono «l’aria, lo spazio, la limpidezza, il silenzio, il rigore»; e finanche un «certo tono metafisico che blocca i gesti e sigilla l’umanità». Ma l’elemento in comune più significativo è in realtà veicolato dal valore conoscitivo della prospettiva. Continua a leggere